DIALETTO BARESE: OPINIONI & POLEMICHE
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DIALETTO BARESE: OPINIONI & POLEMICHE
Da "LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO" DEL 17 OTTOBRE 2002
Da "LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO" DELL'11 GIUGNO 2004
Da "LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO" DELL'11 GIUGNO 2004
Re: DIALETTO BARESE: OPINIONI & POLEMICHE
VuèSentì? VS#1395
Sono inoltre altrettanto convinto che lo studio e la conoscenza dei rispettivi dialetti sia occasione di sottili e intriganti relazioni fra tutte le persone di madrelingua italiana.
In questi tempi oscuri e barbari, sono sempre più dell’avviso che i dialetti siano parte importante della comune madrelingua e che siano elemento fondante delle varie mentalità e delle varie culture. Va subito detto che, a parere di chi scrive, mentalità e cultura sono parole tra loro intercambiabili. Parlare della cultura di un gruppo è la stessa cosa che parlare della mentalità del gruppo medesimo.
Chi ha scritto queste note ha potuto notare sottili e imprevedibili relazioni che, ancorchè nascoste, esistono per esempio fra i dialetti veneti e il dialetto barese, segno questo del gran potere unificante che esercita sulle varie popolazioni il fatto di abitare tutti sulle rive del mare Adriatico, che in certi momenti della propria esistenza, ha assunto più connotazioni di grande lago che di mare vero e proprio.
Questo viaggio fra le parole, teso al recupero e alla rivalutazione dei termini dialettali, mi ha convinto sempre più di quanto i nostri dialetti siano un inestimabile tesoro di conoscenza. Ogni parola è talmente carica di plusvalori da essere essa stessa un inesplorato continente.
Noto nelle nuove generazioni, con molta malinconia, la lenta ma costante perdita del senso del proprio dialetto. Perdere contezza di questo sterminato patrimonio, talora anche con ottuso e snobistico autocompiacimento (!), è errore gravissimo e prelude a tempi assai poco civili.
Purtroppo la speditezza con la quale si corre verso la cancellazione assoluta del dialetto aumenta la propria velocità con il passare degli anni. Molte, troppe, persone giovani si vantano di non conoscere il proprio dialetto. Questa caratteristica è notevolmente estesa anche alla popolazione giovanile che dovrebbe essere più acculturata, e cioè a quella universitaria, che, proprio per la sua vocazione allo studio e alla comprensione dei fenomeni, dovrebbe comprendere quali ricchezze vadano perse abbandonando il proprio dialetto. I danni di questo scadimento di conoscenza e di interesse nei riguardi dei vari dialetti sono incalcolabili.
A fronte di questo particolare tipo di analfabetismo è poi riscontrabile un altrettanto grave fenomeno che dà al dialetto medesimo delle connotazioni che “NON” dovrebbe avere. Sto parlando qui di tutte quelle persone che esibiscono i propri dialetti come un ottuso firewall, come un ottuso muro di fuoco, nei confronti delle altre culture linguistiche.
E’ assolutamente fondamentale sottolineare il fatto che utilizzare i dialetti solo e soltanto come recinti/riserve dove bearsi di se stessi è operazione sciocca, pericolosissima, antistorica e contraria ad ogni tipo di rigore scientifico e storico. Una tale visione porta prima o poi a considerare gli altri da sé “diversi”. E nel secolo ventesimo si è visto a che punto di barbarie ha portato un tale modo di concepire la storia propria e altrui. Personalmente preferisco utilizzare il termine “varietà” al posto della parola “diversità”, così come preferisco il termine “mentalità” al termine “cultura”.
Faccio un esempio emblematico. Quando insegnavo all’Accademia di belle arti di Bari, ogni anno facevo fare ai miei studenti una ricerca sui termini dialettali dei muratori, dei pescatori e di altri mestieri. I miei studenti erano felicissimi di questo lavoro e mi portarono un numero notevole di parole usate nei vari mestieri.
Da tutti i termini dei vari lessici, ne estraggo uno che mi pare delizioso. Come sapete, quando si usano lastre di pietra talora per rivestire le basi di certi palazzi, altre volte per rivestire certi muri, queste lastre vengono bocciardate, nel senso che vengono picchiate con un martello pieno di tante punte, in modo che la superficie, da liscia qual era, diventi ruvida e più gradevole alla vista. Come molti di voi si saranno accorti, queste lastre bocciardate (il martello di cui sopra si chiama “bocciarda”), sui quattro lati hanno un righello cioè un paio di centimetri lisci, non bocciardati. Questo righello che caratterizza il perimetro della lastra, non è altro che una cornice per impreziosire la lastra stessa. Ebbene sapete in barese come si chiama questo righello? Il suo nome dialettale è “u reffianjìdde”, “il ruffianello” nel senso che arruffiana (rende più gradevole la lastra di pietra). In barese, così come in italiano, “il ruffiano” è il cortigiano furbo che tende a corteggiare il suo re. Insomma non è altro che un furbacchione che riesce a imporre in positivo agli altri tutto quello di cui parla e tutto quello che fa. Un imbonitore perfetto e assai furbo.
Mi piace concludere questo brano affermando che la “varietà” dei dialetti esistenti sul territorio italiano, è un patrimonio straordinario da conservare e tutelare ad ogni costo, da parte di tutte le parlanti e i parlanti di madrelingua italiana. Chè poi, a pensarci bene, lo stesso metodo di analisi (nel quale sia presente il concetto dei vasi comunicanti) è esportabile, con i dovuti meccanismi di rigore scientifico e con i dovuti coefficienti, nello studio delle lingue che caratterizzano questo nostro stranissimo ma amatissimo e, almeno per ora, unico pianeta abitato.
franz falanga
A PROPOSITO DEI DIALETTI
di Franz Falanga
Sono convinto che l’anima di un popolo è anche indagabile attraverso il proprio lessico dialettale e attraverso il proprio uso delle parole che, comunque e fortunatamente, si caricano nel tempo di valori aggiunti che vanno poi a formare e ad arricchire l’inestimabile patrimonio di una popolazione “discretamente” omogenea. Omogeneità che nel tempo si va perdendo, a scapito di una omologazione con il resto del proprio intorno, omologazione piatta e priva di eccellenze già preconizzata molti anni fa dal carissimo Pasolini. Si badi bene a tenere ben separati i concetti di “omogeneità” e di “omologazione” che evidentemente sono poco compatibili. Ho usato la parola “discretamente” mutuandola dalla matematica. di Franz Falanga
Sono inoltre altrettanto convinto che lo studio e la conoscenza dei rispettivi dialetti sia occasione di sottili e intriganti relazioni fra tutte le persone di madrelingua italiana.
In questi tempi oscuri e barbari, sono sempre più dell’avviso che i dialetti siano parte importante della comune madrelingua e che siano elemento fondante delle varie mentalità e delle varie culture. Va subito detto che, a parere di chi scrive, mentalità e cultura sono parole tra loro intercambiabili. Parlare della cultura di un gruppo è la stessa cosa che parlare della mentalità del gruppo medesimo.
Chi ha scritto queste note ha potuto notare sottili e imprevedibili relazioni che, ancorchè nascoste, esistono per esempio fra i dialetti veneti e il dialetto barese, segno questo del gran potere unificante che esercita sulle varie popolazioni il fatto di abitare tutti sulle rive del mare Adriatico, che in certi momenti della propria esistenza, ha assunto più connotazioni di grande lago che di mare vero e proprio.
Questo viaggio fra le parole, teso al recupero e alla rivalutazione dei termini dialettali, mi ha convinto sempre più di quanto i nostri dialetti siano un inestimabile tesoro di conoscenza. Ogni parola è talmente carica di plusvalori da essere essa stessa un inesplorato continente.
Noto nelle nuove generazioni, con molta malinconia, la lenta ma costante perdita del senso del proprio dialetto. Perdere contezza di questo sterminato patrimonio, talora anche con ottuso e snobistico autocompiacimento (!), è errore gravissimo e prelude a tempi assai poco civili.
Purtroppo la speditezza con la quale si corre verso la cancellazione assoluta del dialetto aumenta la propria velocità con il passare degli anni. Molte, troppe, persone giovani si vantano di non conoscere il proprio dialetto. Questa caratteristica è notevolmente estesa anche alla popolazione giovanile che dovrebbe essere più acculturata, e cioè a quella universitaria, che, proprio per la sua vocazione allo studio e alla comprensione dei fenomeni, dovrebbe comprendere quali ricchezze vadano perse abbandonando il proprio dialetto. I danni di questo scadimento di conoscenza e di interesse nei riguardi dei vari dialetti sono incalcolabili.
A fronte di questo particolare tipo di analfabetismo è poi riscontrabile un altrettanto grave fenomeno che dà al dialetto medesimo delle connotazioni che “NON” dovrebbe avere. Sto parlando qui di tutte quelle persone che esibiscono i propri dialetti come un ottuso firewall, come un ottuso muro di fuoco, nei confronti delle altre culture linguistiche.
E’ assolutamente fondamentale sottolineare il fatto che utilizzare i dialetti solo e soltanto come recinti/riserve dove bearsi di se stessi è operazione sciocca, pericolosissima, antistorica e contraria ad ogni tipo di rigore scientifico e storico. Una tale visione porta prima o poi a considerare gli altri da sé “diversi”. E nel secolo ventesimo si è visto a che punto di barbarie ha portato un tale modo di concepire la storia propria e altrui. Personalmente preferisco utilizzare il termine “varietà” al posto della parola “diversità”, così come preferisco il termine “mentalità” al termine “cultura”.
Faccio un esempio emblematico. Quando insegnavo all’Accademia di belle arti di Bari, ogni anno facevo fare ai miei studenti una ricerca sui termini dialettali dei muratori, dei pescatori e di altri mestieri. I miei studenti erano felicissimi di questo lavoro e mi portarono un numero notevole di parole usate nei vari mestieri.
Da tutti i termini dei vari lessici, ne estraggo uno che mi pare delizioso. Come sapete, quando si usano lastre di pietra talora per rivestire le basi di certi palazzi, altre volte per rivestire certi muri, queste lastre vengono bocciardate, nel senso che vengono picchiate con un martello pieno di tante punte, in modo che la superficie, da liscia qual era, diventi ruvida e più gradevole alla vista. Come molti di voi si saranno accorti, queste lastre bocciardate (il martello di cui sopra si chiama “bocciarda”), sui quattro lati hanno un righello cioè un paio di centimetri lisci, non bocciardati. Questo righello che caratterizza il perimetro della lastra, non è altro che una cornice per impreziosire la lastra stessa. Ebbene sapete in barese come si chiama questo righello? Il suo nome dialettale è “u reffianjìdde”, “il ruffianello” nel senso che arruffiana (rende più gradevole la lastra di pietra). In barese, così come in italiano, “il ruffiano” è il cortigiano furbo che tende a corteggiare il suo re. Insomma non è altro che un furbacchione che riesce a imporre in positivo agli altri tutto quello di cui parla e tutto quello che fa. Un imbonitore perfetto e assai furbo.
Mi piace concludere questo brano affermando che la “varietà” dei dialetti esistenti sul territorio italiano, è un patrimonio straordinario da conservare e tutelare ad ogni costo, da parte di tutte le parlanti e i parlanti di madrelingua italiana. Chè poi, a pensarci bene, lo stesso metodo di analisi (nel quale sia presente il concetto dei vasi comunicanti) è esportabile, con i dovuti meccanismi di rigore scientifico e con i dovuti coefficienti, nello studio delle lingue che caratterizzano questo nostro stranissimo ma amatissimo e, almeno per ora, unico pianeta abitato.
franz falanga
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