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DIZIONARIO DI TERMINI BARESI SECONDO FRANZ FALANGA CONSISTENTE IN OTTO PARTI

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Messaggio  Admin Lun Ago 11, 2014 3:44 pm

Traduzione dei termini elencati nel lessico, con qualche chiarimento a margine
Durante l’elencazione e la prima rapida traduzione dei termini elencati nel capitolo precedente, con l’aggiunta della loro italianizzazione, mi sono reso conto che alcuni termini non sono ortodossi dal punto della loro origine, nel senso che nel lungo elenco forse è capitata qualche parola proveniente dalla Murgia, o dal Nord barese o addirittura dall’ex regno delle due Sicilie. Avrei potuto toglierle, ma non l’ho fatto perché queste presenze spurie sono dovute alle mie origini meteche che, consciamente e contemporaneamente in maniera inconscia, mi permettono di saltabeccare fra le varie culture linguistiche campane e pugliesi. Il mio meticciato mi ha aiutato nella comprensione di fatti e persone che altrimenti non avrei potuto minimamente individuare se fossi stato, come dire, un purosangue. Devo molto alle influenze che mi sono arrivate da ogni parte, non ultima quella veneta, che mi hanno dato due caratteristiche che considero fondamentali per me, la curiosità e il rispetto per le varie varietà che caratterizzano questi nostri tempi così strani e così smaccatamente preda della menzogna e della spocchia culturale delle nostre classi dirigenti.
La mia speranza è che le nostre straordinarie varietà siano esaltate e coltivate virtuosamente e con gran passione dalle giovani generazioni provenienti dal sud, specialmente dalle nostre magnifiche donne alle quali questo libro è dedicato con infinita passione. Non ho spiegazioni rigorosamente scientifiche a questa mia teoria, ma sono convinto che se il mondo si salverà, la sua salvezza verrà dal sud del mondo e dalle donne. Oops! Mi sto accorgendo che sto divagando, per cui ecco qui di seguito i termini che ho dianzi elencati, accompagnati  da una traduzione, questa volta,  se possibile, un poco più dettagliata e argomentata.


Abbefacchiàte. Abbofacchiàto è un bell’aggettivo che indica una condizione fisica del corpo, segnatamente del viso. Un viso abbofacchiàto è un viso gonfio, non tumefatto, ma gonfio per non aver dormito, gonfio per il prolasso dei muscoli facciali. Un fisico abbofacchiàto è esattamente il contrario di un fisico scattante, agile, allenato e senza un filo di grasso.

Abbettà. Verbo. Significa “gonfiare”. Per usare questo verbo in una superba e damascata perla di bon ton,  Flower Umberto mi ha sempre recitato un detto in barese che non so se farina del suo sacco o proveniente dalla saggezza popolare. Va comunque conservato e tramandato ai posteri per la sua bellezza intrinseca e soprattutto per la sua signorilità. Il modo di dire è “Quannabbòtte abbòtte attùtte” che significa letteralmente “Quando gonfia, gonfia a tutti” in italiano si direbbe “quando è troppo è troppo”. Sta anche per “non se ne può più, si è superato ogni limite”. Questa frase in barese ha però un doppio significato nel senso che ha anche diritto di cittadinanza nel lessico da caserma. Mi spiego meglio: quando ci si “inalbera” in presenza di una bella gnocca, generalmente ci si inalbera in gruppo. Quando vien duro insomma, vien duro a tutti.    
La finezza sta nel fatto che il Flower Umberto, come sua abitudine, ha tradotto in inglese maccheronico quanto detto prima. Ecco la traduzione: “When abbott, abbott all the people”. Secondo me ha raggiunto la perfezione assoluta.

Abbevescià. Significa esattamente “rinascere”. Generalmente ci si abbevescia quando dopo una lunga passeggiata al sole estivo, si rinasce bevendo una freschissima birra.

Abbracà. Verbo. Significa “ammoccarsi” (in napoletano). In italiano significa letteralmente “buttarsi addosso” ad una ciccina consenziente, restando però in piedi. Potrebbe tradursi "avvinghiarsi". Va usato come verbo riflessivo. Mi sono abbracato a...

Abbracàrse. Vedi "abbracà". L’abbracarsi è languida parola ed è foriera di meravigliose avventure fra le braccia o fra le gambe della ciccina. Presuppone lo stare abbracciati strettissimamente. Donde, forse, il contrario che possiamo notare nella parola italiana “sbracamento”. Ma è una pura illazione, ancorchè suggestiva.

Abbracàte. Chi si è abbracato, avvinghiato perdutamente, incollato alla ciccina.

Abbrazzàrse. Letteralmente “abbracciarsi”. Significa anche “fare una riunione di gruppo”. Quando l’architetto ha bisogno di parlare contemporaneamente con il muratore e con l’elettricista,  con il pittore, oppure con l’idraulico e con l’artigiano che monta le cucine, dice: “domani mattina ci “abbrazziamo” in cantiere alle otto”. Mi pare un eccellente metafora.

Abbrescià. Significa “bruciare”. Vedi, nei modi dire, “bruciare il paglione”.

Accattà. Significa “comprare”. Bello il noto proverbio “Uagnùne! Le terrise s’accàttene!”. “Ragazzi i soldi si comprano!”. Per dire che i soldi non piovono dal cielo.

Accavallàte. Participio passato di “accavallàre”. Un giovanotto che riesce a portare a buon fine il corteggiamento di una ciccina e che, a logica conclusione dell’affaire, passa a vie di fatto organizzando un incontro di lotta libera con la suddetta ciccina in un posto caldo e lontano da occhi indiscreti, ebbene il giovanotto in questione si sta “accavallando”.

Acceppenàte. Aggettivo. Indica una condizione di malattia. Stare su una sedia ed essere impossibilitati a muoversi perché si ha una gamba rotta, significa stare “accippinati”. Avere un braccio ingessato significa trovarsi “accippinato”. Stare a letto con l’influenza dicesi “accippinato”. In italiano si direbbe “gravemente impedito”. Forse viene da una antica condizione di “legato ai ceppi”. Difatti “u ceppòne” è ciò che resta di un grosso albero tagliato alla base. Nell’immediato entroterra barese “la ceppenère” è la parte radicale di un albero tagliato, raso al suolo, che spesso ingloba fra le radici anche dei grossi massi di pietra. Una persona difficilmente riesce a spostare da sola un peso del genere. Figuriamoci se è legata al medesimo!  

Acchemegghjià. Verbo, significa “coprire”. Generalmente viene usato quando si parla di letti, di coperte.  

Acchevazzà. Italianizziamolo subito, “accovazzàre”. E’ una parola estremamente complessa e carica di valori e di significati. Andiamo per gradi. L’origine è da ricercarsi nel grande lessico della natura. Le lepri, quando si costruiscono la tana, preferiscono farla in luoghi difficilmente accessibili dall’uomo e dotata di ogni comodità. La tana della lepre, il “covàzzo” (viene da covo, covaccio), è messa in posizioni difficilmente raggiungibili ed è foderata di piume di uccelli, peli della stessa lepre, e di ogni altro materiale organico che isoli dal freddo, tipo fili di paglia e foglie secche. Ed ora proviamo a descrivere il vero significato di “acchevazzà”. “Me sò acchevazzàte u mbiagàte, la uagnèdde, u ngegnjìere” “mi sono accovazzato l’impiegato, la ragazza, l’ingegnere”  significa che “sono entrato in rapporti strettissimi di complicità  con l’impiegato, con la ragazza, con l’ingegnere”. Accovazzarsi qualcuno, in soldoni significa entrare in stretta complicità con il medesimo, magari corrompendolo fino a farlo diventare proprio complice. Ma significa anche  far cadere le difese di una giovane ciccina. Come si può notare, la  parola è carica di significati. “Fà u chevàzze a ngocchejiùne” “fare il covazzo a qualcuno” significa conquistarsi la simpatia di un partner o di una partner, fino a portaselo/a a letto. L’amore platonico con il covazzo non c’entra un bel niente. Da “covàzzo” “accovazzàre” ne discende un altro bel termine dialettale, “la recòve”.  Il termine, italianizzato,  “ricòva” significa un ricovero sicurissimo, dove nessuno può immaginare che tu possa trovarti, dove nessuno può venire a romperti le balle. Mettersi alla “recòva” significa mettersi al sicuro. Gli aviatori inglesi che durante la seconda guerra mondiale, essendo stati colpiti dalla contraerea tedesca, riuscivano a lanciarsi con il paracadute e poi riuscivano anche a nascondersi presso qualche civile famiglia contadina italiana, si erano messi “alla recòva”. Si erano messi al ricovero. Come vedete un bel canestro di significati.

Acchià. Verbo stranissimo. “Acchiàre” significa “trovare”. Anche qui la coniugazione non è uno scherzo. Facciamo così: io elenco un po’ di voci disordinatamente e il più fortunato fra voi riuscirà a collocarlo nelle giuste e dovute coniugazioni. Non si vince nulla. Ecco le parole: acchjìebbe, jàcchjieche, acchiàte, acchiànne, jàcchjie. Anche qui la coniugazione è da montagne russe. Per facilitarvi la vita prendiamo il passato remoto:
Jì acchjìebbe
Tù acchjìste
Jìdde acchiò
Nù acchiàmme
Vù acchiàste
Chìde acchiàrene o acchiòrene.
Al presente si “potrebbe” coniugare così:
Jì jàcchjieche
Tù jàcchjie
Jìdd jàcchjie
Nù acchiàme
Vù acchiàte
Chìde jàcchjiene.
Non male vero?

Acchièsce. Verbo. Significa tranquillizzare. Viene usato generalmente nei riguardi dei bambini, quando bisogna calmarli, essendosi loro incapricciati. Se la prima “e” si legge stretta e trascinandola allora il modo è l’infinito, se invece si pronunzia larga e senza trascinarla  siamo alla presenza della terza persona singolare presente. Non è una cosa facile il dialetto barese, ve l’avevo detto.

Acciaffà. Significa “afferrare, agguantare”. Vedi “auuandà”.                                                                          

Acciuccàte. Aggettivo, chiaramente viene da “ciucca”. Indica un “ubriaco” al primo stadio.  

Acquànne mà! Significa letteralmente “Ma quando mai!”. Esclamazione  che nel dialetto barese ha più o meno lo stesso significato che ha in italiano.

Acquaquagghiàte. Questo è un aggettivo difficile da gestire. Significa “accoccolato”. Per far comprendere quali abissi di difficoltà si trovino usando certi termini proverò a tradurre in barese l’imperativo “accòccolati!”. Ecco qui: “acquaquagghjìscete!”. Vogliamo provare il rischio della coniugazione del presente indicativo?
Jì m’acquaquàgghieche oppure m’acquaquagghièsceche
Tù t’acquaquagghjìsce
Jìdde s’acquaquagghièsce oppure s’acquaquàgghjie
Nù ngjacquaquagghiàme
Vù v’acquaquagghiàte
Chìde, llòre, s’acquaquagghjièscene
Non ne veniamo più fuori. Ve l’avevo detto che è difficile da gestire.

Acqua d’odòre (La).  “Acqua d’odòre” in barese significa “profumo”. Questo modo di indicare il profumo sta ahimè tramontando. Fra le vittime del consumismo ci sono anche e soprattutto le parole. L’acqua d’odore era più esattamente l’acqua di colonia, quella più diffusa a causa del suo basso prezzo. Oltre alla suddetta acqua di colonia esisteva un’altra acqua nell’universo cosmetico femminile di una sessantina di anni fa: era l’Eau de Botot, la seule eau veritable. Quest’acqua particolare era però usata esclusivamente dalle amatissime e carissime ospiti dei casini che provvedevano a farsi gran gargarismi dopo ogni incontro di lotta libera. Questo prodotto non era, nella maniera più assoluta, usato dalle donne che non esercitavano. La sola presenza dell’acqua di Botot nel bagno di qualunque casa perbene avrebbe scatenato nel capo famiglia tempeste ormonali  difficilmente controllabili. Per cui la mancanza di questo tipo di acqua nei bagni dei bravi e buoni borghesi era diventata l’indicatore ufficiale della corrente  moralità perbenista.

A’--- dd'--- fr'--- sckà. Addefresckà. Addifrescàre. ( “sckà “ e “scà” ambedue i gruppi di lettere vanno letti dolce come la “sc” di “sciogliere”). Solo in questo caso ho usato i tre modi che si potrebbero utilizzare nella scrittura del dialetto barese. Quello dove è evidenziata con l’apostrofo l’assenza della “e” con i trattini per le pause utili alla pronunzia, quello con la “e” muta incorporata e quello italianizzato/toscaneggiante. Verbo. Letteralmente "rinfrescare". Le orecchie e i piedi vengono generalmente rinfrescati. Le orecchie sono rinfrescate dal silenzio, i piedi dall'acqua del mare. Mi raccomando, insisto, la "sc" va pronunciata dolce come scialle. Quando si suonano due brani ambedue in si bemolle, si preferisce suonare il terzo in altra tonalità, ad esempio in sol maggiore, per dar modo all’attento pubblico di addifriscàrsi le recchie. Da ora in poi smetterò di scrivere le parole in tre maniere diverse.

Addemmerà. Verbo. Significa indugiare nel fare qualche cosa, ritardare. “Me raccomànne non zì addemerànne!” “Mi raccomando non venire in ritardo!”. Dal punto di vista grammaticale la costruzione è strana “Mi raccomando non sei ritardando”. “Zì” in effetti è “sì” che significa “sei” (da essere); ma in questo caso la esse è più vicina alla zeta che alla esse medesima.

Addùbbie (U). Stranissima parola. Era così chiamata “l’anestesia” di tantissimi anni fa fatta con l’etere. Per estensione, l’addubbio indica anche l’atto dell’addormentarsi dolcemente a qualche conferenza, qualche concerto, qualche film. Potrebbe tradursi con “abbiocco”.

Affà. Verbo, significa “a fàre”. E compresa nel verbo la preposizione “a”. Il verbo da solo si dovrebbe scrivere “fà”. Lasciate al narratore un senso di orgoglio, frammisto a sorpresa. Mi spiego subito. Nel dialetto barese il termine “fare” significa, senza falsi pudori, “chiavare” “scopare”. Durante la 2ndWW, dopo il passaggio delle truppe alleate, la parola “fare” era unita onomatopeicamente alla onomatopeica espressione “fìc fìc”. Quindi “fare fìc fìc” dicevano gli italiani e gli alleati, alludendo ovviamente ai giochini d’amore (massì chiamiamoli giochini). Le truppe tedesche, invece, per via della loro presunta superiorità, avevano utilizzato senza successo la roboante frase “trico traco zu machen”  - laddove zu machen significa “fare” –  frase che forse ai pugliesi e agli italiani è apparsa un filino macchinosa e pesante. Con mio sommo piacere questo modo di dire teutonico è scomparso anche dalla memoria, mentre la parola “fare” ha svolazzato dolcemente fino al tempo recente  in cui è entrata nel lessico della lingua italiana. Non vi dico dunque la mia meraviglia quando, a distanza di quasi cinquant’anni la magnifica espressione barese “fare” è entrata a vele spiegate nell’uso comune dell’italiano quotidiano! Donde l’orgoglio.

Affangùle. Vuol dire “a fare in culo, affanculo”. Vedi “mannà”. Chiarissimo quindi “Mannàffàngùle” facendo possibilmente sentire i tre accenti. Qui il culo perde la “c” e guadagna la “g” rafforzativa. Affancùlo, oppure “fancùlo”, italianizzato con la “c”, è un’altra parola che ha perso la sua caratteristica dialettale ed è entrata a vele gonfie nel lessico italiano, parlato e scritto.

Affedà. Bella parola. Significa “fidanzare”. Una ragazza “affidàta” è una ragazza fidanzata, (vedi zìta).

Affetesciùte. Viene dal verbo “affitèscere”, di difficile traduzione e coniugazione . Questo verbo è raramente coniugato, viene utilizzato molto al participio passato, “affetesciùte”, appunto. Mi raccomando la solita “e” muta! Una cosa quando comincia a puzzare, si sta affitescèndo. Sta andando a male. E’ ormai irrecuperabile. Qualunque cosa può diventare affitisciùta. Un amore, un’amicizia, una situazione, un rapporto, una condizione quale che sia, quando spirano lentamente, si dice che stanno affitiscèndo. Un momento prima di diventare affitisciùta, una cosa, un evento, una persona,  cominciano a “dè dàgghjie”. Iniziano cioè a “dar di aglio”. Quando qualcosa o qualcuno dà di aglio, stiamo per arrivare alla frutta.  

Affrettequà. Verbo. Italianizzando questo termine diremmo affrittiquàre. Ma è lo stesso di difficile comprensione. Significa “rimboccarsi (le maniche)”.

Aggemendà. Verbo, viene certamente da “cimentare. Significa “molestare” “stuzzicare” qualcuno. Molestare qualcuno per evidentemente poi “cimentarsi” con lui. L’origine di questa parola è nobile e presumibilmente antica.

Agghiafède. E’ una maledizione. “Ho fède” ho la fondata speranza che ti capiterà prima o poi qualche cosa di poco gradevole. E’ la frase iniziale di un anatema che si sta per lanciare.

Aggìgghjie (U). L’aggìgghio è quel delizioso prurito che viene alle ciccine quando pensano a cose turche o francesi. I maschietti molto prosaicamente si arrapano, le femminucce invece sono soggette a questi deliziosi pruritini. Non ci sono scadenze fisse, quando càpita càpita, meglio se tutti i giorni.

Aggravànte. E’ il sinonimo di “squascianàta” (vedi). In questo caso è riferito però a un uomo. Un uomo che si è ingrassato a tal punto da perdere la sua normale agilità è diventato “aggravànte”.

Agguànne o Auuànne. “Quest’anno”. Durante quest’anno. Nel corrente anno. Far sentire la doppia “u”.

Ajìere. Significa “ieri”. L’altro ieri si dice “nestèrze” (vedi). Far sentire bene la coppia “jì”, con l’accento sulla ultima “i”.

Alditàglie. Sta per “Alta Italia” oppure per “Altra Italia”, l’Italia settentrionale. “Alde” significa “alto o altro”. “Un altro ancora” si traduce “naldùne” “un altro uno”. Mi ricorda “another one”. Questo termine merita qualche altra considerazione riguardante la baresità. Molti baresi, in dialetto generalmente preferiscono Altritalia ad Alta Italia. È un po’ lo stesso meccanismo che ritroviamo nella comunità internazionale dei fisici. Per i fisici, nella scienza, Albert Einstein è da una parte, mentre dall’altra parte ci sono tutti gli altri fisici. La stessa cosa accade per i baresi. Da una parte ci siamo noi baresi, dall’altra c’è il resto dell’Italia. Personalmente trovo tutto ciò molto particolare e molto emblematico. Noi e tutto il resto. In questo caso la nostra identità è fortissima. Nutro per un fatto del genere come minimo molta tenerezza e parecchia simpatia. Insomma sulla faccia della terra ci siamo noi e gli altri. Voi chennedite?

Alìsce dù spròne (Le). Sono le alici migliori nel campo delle alici sotto sale, quelle di primissima qualità. Condire con queste delizie la pasta con le cimedirape è roba da leccarsi i baffi.

Allabonàte. Aggettivo, non riesco a immaginarmi l’origine. Significa letteralmente “all’abbonàta” ed indica una persona sciocca, stupida, letteralmente cretina. O forse “alla bonàta”, da “alla buona?” Mah!  

Allanecatò. Strano modo per dire “all’anima tua!”.

Allanùte. Aggettivo, significa “ignudo”. Stranamente in napoletano “nzallanùte” significa vecchio bavoso e fuori di testa. Basta il prefisso “nz” per cambiare radicalmente il significato di una parola.

Allaspàsse. Ha due significati paralleli fra loro. Letteralmente significa “a spasso”. Come primo significato vuol dire andarsene in giro (a spasso) senza far nulla, cazzeggiare. Il secondo significato è ben più drammatico. Significa comunque andarsene a spasso, ma perché disoccupati. Quindi dire che qualcuno è allaspàsse generalmente significa che è purtroppo senza lavoro. Se poi il pigro, lo scansafatiche, gradisce andarsene a spasso evitando volontariamente il lavoro, allora è tutt’altra cosa.

Allecchètte. Lecchètte significa “lucchetto, catenaccio”. Con la preposizione “a” davanti, assume esattamente lo stesso significato della frase “appèpete” (vedi) con in più una sottolineatura di disprezzo verso la persona alla quale una situazione le è andata a lucchetto. In poche parole significa “Le sta proprio bene, la situazione l’ha fottuto/a alla grande!”. Può essere anche utilizzato in modo positivo, per dire, ad esempio che un piatto di spaghetti mangiato rapidamente, ha risolto la situazione. Ma i miei amati concittadini preferiscono usare questa locuzione in senso dispregiativo. Sempre in omaggio alla durezza di fondo del nostro carattere. Durezza con la quale sono quasi sempre d’accordo e che in molti casi ci ha salvato da sgradevoli situazioni.

Allezzà/Luzzàre. Significa “guardare lontano” con vista acuta. Usato all’imperativo “lùzz!” oppure “allùzz!” significa “attenzione! guardate in quella direzione, stanno arrivando i vigili urbani”. Questo verbo presuppone dunque attenzione. Generalmente, come già detto si allùzzano o si lùzzano da lontano i vigili urbani quando stanno arrivando. Per questa ragione, a Bari i vigili urbani si chiamano “lùzzi”, a differenza dei vigili urbani milanesi che si chiamano “ghìsa”. I luzzi in barese sono anche i merluzzi. Il contrario di quelli che “alluzzano” bene, sono gli “smìrci o smìcci”, cioè quelli che hanno problemi di vista.

Amìnue (La). Significa “mandorla”. Viene dal termine latino (di derivazione greca)  amìgdala. Venivano e vengono lavorate a Carbonara, ridente cittadina a sud di Bari. Vedi “càzzo” inteso come “schiaccio”. Quando le mandorle si coglievano freschissime e si mangiavano all’istante, quando il frutto era quasi gelatinoso venivano chiamate “meddèsche”, italianizzando “mollèsche”. Ho usato l’imperfetto perché penso che persone che annualmente mangino qualche meddesca forse non ce ne siano più. Le meddesche durante la 2ndWW facevano spesso parte del bottino giornaliero quando per mangiare eravamo costretti a rubacchiare in campagna. Con un termine più elegante si direbbe quando andavamo in campagna a “spigolare”. Nossignori, noi si andava a rubare. Il periodo preciso si può localizzare quando i tedeschi stavano per andar via e stavano per arrivare gli alleati. Con gli alleati arrivò il ben di Dio, ben di Dio al quale la mia famiglia non ebbe accesso. Il mio papà, disse che non stava bene farsi veder morti di fame da stranieri. E che cavolo, un po’ di dignità! Per cui a casa nostra, malgrado fosse arrivato con gli americani ogni ben di Dio per quanto riguarda il mangiare, si continuò per parecchio tempo ancora a mangiare cicorie selvatiche lesse senz’olio, amìnue meddesche, ceci crudi (questi li rubavo io, in incognito) e dignità.

Ammàmete. “Ammàmete” è un’imprecazione che ha vari significati. Letteralmente significa “a tua madre”, in realtà vuol dire “a me non la fai, piuttosto raccontala a tua madre” oltre mille altri significati paralleli. Anche qui siamo in presenza di un feroce atteggiamento maschilista. Difatti non esiste come imprecazione “adattànde” “a tuo padre”. Tuttalpiù esiste “ziànete” oppure “azziànete” che sta per zia o zio in senso neutro. Stupefacente come un’esclamazione del genere la si ritrovi nella greytude afro-americana, a migliaia di chilometri di distanza. Nello slang dei grandi episodi urbani americani si ritrova infatti un’esclamazione simile che è “yò mama” che sta per “your mama”. Viene usata in un particolare contesto quando gli uomini si rivolgono in modo volgare alle donne. Ho usato “greytude” nel senso che in molti casi gli afroamericani hanno perso la loro negritudine originaria, meticciandosi culturalmente, anche non volendolo, con la cultura bianca.  

Ammasenàte. E’ uno stranissimo aggettivo e significa “impietrito”. Lo so benissimo che è un’ipotesi suggestiva, ma in veneziano, una pietra di grosse dimensioni è detta “masegna”.

Ammàte. E’ uno stranissimo termine che ha un significato molto complesso e che non viene mai usato da solo. Non è traducibile in italiano. Viene usato in frasi di tipo esclamativo sempre accoppiato a un pronome. Per esempio “Ammàte attè, ammàte ammè, ammàte annù, ammàte avvù, eccetera eccetera”. Prendiamo per esempio “ammàte attè”. Significa: “ Mi dispiace molto dovertelo dire, ma dopo tutto quello che hai combinato, o hai detto, ci saranno un mare di complicazioni e tu dovrai pagare tutto di tasca tua! Nessuno ti perdonerà un bel nulla di nulla. Povero te!” Come sintesi mi pare ai massimi livelli. Potrebbe venire da “ammàre attè!” “amaro a te!”.

Ammelengià. Verbo. Significa “gonfiare di botte” qualcuno. Forse viene da mellone, nel senso di far diventare la faccia gonfia come un mellone. Gli occhi possono essere ammelengiàti. In questo senso, un occhio blu (ammelengiàto) potrebbe far pensare che ammelengiàre possa anche provenire da “melanzana” che ha la scorza fra il blu e il viola. Come un occhio blu per l’appunto.

Ammenà. Non è facile tradurre questo verbo. Così, velocemente, generalmente, significa “menàre”. Invece significa buttare dentro, versare dentro, scaricare sopra, scaricare dentro, scaricare accanto. Questo verbo assume dignità drammaturgica quando è usato nella costruzione degli insulti. Ecco un obliquo esempio che viene usato quando due gentiluomini si salutano sul portone di casa. Il banalissimo “buonasera, a domani!” viene sostituito da un ringhioso “Fattuammenà, pausa, da nu mòneche sùrde” “Fattelo menare, pausa, da un monaco sordo”. Non fatemi esplicitare il vero uso del termine “menare”, lo potrete agevolmente comprendere da voi. La persona oggetto di tale saluto, deve avere la forza d’animo di non chiedere il perché della sordità del monaco. Ove dovesse sfortunatamente  chiedere lumi, la feroce risposta sarebbe “Percè quànne dìsce avàste, cùde non te sènde e condinuèsce”. “Perché quando dovessi (tu) dire “basta!” quello (il monaco) non ti sente (perché sordo)  e continua”. Come se non bastasse, “ammenàre” è usato anche in certi modi di dire riguardanti le condizioni meteorologiche. In una serata particolarmente calda di favonio a bari, i baresi ne sanno qualche cosa, si usa dire “mòh ciammène stasère” che significa “stasera il caldo picchia duro” mentre letteralmente significherebbe “accidenti che cosa mena, butta, scarica, stasera!”. Per estensione potrebbe anche significare “stasera Cassano (il noto e bravo  giocatore di futebòl) sta giocando in maniera superba”.
E, ancora, durante una discussione, qualora dovesse entrare in gioco un nuovo argomento totalmente diverso da quello che in quel momento si sta trattando, alle perplessità di coloro i quali dovessero trovare l’argomento un cincinino “fuori tema”, viene immediatamente detto ”non te sì preoccupànne, ammjìene jìnde ò sùghe” “non preoccuparti, butta nel sugo anche questa opzione, tanto quel che non ammazza ingrassa, tutto concorre allo sviluppo della discussione!” Altro esempio straordinario dello spirito pratico dei baresi. Non siamo nei rigori della scientificità, ma nel campo del meglio sovrabbondare di informazioni che defìcere. “Ammène” da solo, significa anche che il mare è agitato ed è pericoloso: “mmooooh, ciammène u màre iòsce”.  Interessante la ricchezza di significati di questo termine.  

Ammengepà. Significa “anticipare”, per estensione “sbrigarsi”.  Venire in anticipo a un appuntamento. Domani anziché alle sette, cerca di ammingipàre. Quando è usato all’imperativo, “ammingipìsci!!!” sta per “sbrigati!!!”. Usato al modo indicativo significa “anticipare”. Vedi se domani mattina ammingipìsci un poco.

Ammèrse. Significa “rovescio”. E’ usato sempre con la preposizione “alla”. “All’ammèrse”. “Alla rovescio”. Forse viene da inverso. Chissà perché in napoletano si dice “zmèrz”.

Amòre (U). Il verbo amare in barese molto stranamente non esiste. La parola “amòre” è, invece, stranamente molto usata in cucina; ad esempio quando si dice che il sugo “ha un bell’amore” vuol dire che il sapore del sugo è eccellente. Quindi amore sta per sapore. Più pragmatici di così i nostri cari baresi!

Angòre. “Ancòra”, in italiano, e mantiene anche lo stesso accento. Solo che non significa ancòra. Stranamente ha un significato molto diverso e più complesso. Significa “guarda se…. non si sa mai può darsi che…. forse è…. alle volte potrebbe….”. “Angòre stà accàse”  “Non si sa mai, forse è a casa”.

Anjìedde (U). Stiamo parlando dell’anello. Fra persone molto malamente e molto volgari, stranamente l’anello indica il buco del culo. In questo ultimo caso la parola è accompagnata dal pollice e dall’indice della stessa mano connessi fra loro fino a formare un cerchietto.

Annùsce. Verbo. In barese l’infinito è uguale all’imperativo. “Annùsce” significa “portare” oppure “porta”. “Annùtte” sta per “portato”. “Annescènne” sta per “portando”. Se poi pensiamo che significa “portare da” potrebbe addirittura venire dal latino “ab ducere”. Non si spiegherebbe altrimenti un termine dialettale così differente dal suo corrispondente italiano.

Apòne (U). Sostantivo maschile. Significa “ananas”. Quelli che hanno gli occhi leggermente fuori dalle orbite, hanno gli occhi d'apòne.

Appassuàte. “Appassito”. Quest’aggettivo è usato però quasi sempre da solo e soltanto nelle metafore. Stare appassuàti significa essere in una condizione di serena malinconia. I miei amici inglesi chiamerebbero questa condizione dell’animo “spleen”. L’essere appassuàti è una caratteristica importante delle persone solitarie che si appassuèscono ogni tanto, senza traumi, quando discettano fra loro e loro sui grandi problemi dell’universo, tipo le ciccine. Basta un nulla per disappassuàrsi. Se paragoniamo l’appassuàto a un fungo liofilizzato, basta una goccia d’acqua pura per rimettere tutto il gibillèro (vedi) in movimento. Spesso basta una telefonata per far venire fuori il sole dalle brume umide e barbare della montagna. E qui mi fermo sennò esco fuori tema e parlo di me.  

Appeccià. Verbo. Significa “accendere”. Forse viene da “appiccare” il fuoco. Starsene “appicciàti” significa star nervosi per qualche cosa. In veneto (nella marca trevigiana) accendere si dice “impissàr”. Scrivendolo in barese si scriverebbe “appeccià”.

Appèpete. Il pèpito (mi raccomando, l’accento sulla e) è “la scorreggia”. Con la preposizione “a” significa “esattamente”, “alla perfezione”, “meglio di così non si poteva fare”, “ben gli sta”, “tutto è andato come meglio non si poteva”, “ben gli sta così impara”, “tiè! Beccate questo”. Suo sinonimo è “a lecchètte” (vedi). Una sottile finezza: quando i baresi vogliono italianizzare questa nobilissima parola dicono “pèpito”. Scorreggiona è parola volgare secondo loro, allora preferiscono dire più pudicamente “pèpito”. Quando si passa nel mondo delle coccole allora si arriva al finissimo “pepitìcchio”. Soltanto le mogli, generalmente di notte, fanno dei pepiticchi. I mariti fanno dei giganteschi pepitoni. Questione di rispetto per il sesso femminile, diamine! Appena appena accennati si sa. Alle ciccine queste faccende sono generalmente estranee. Il gagliardo pèpito o il delizioso pepiticchio sono, comunque, sempre assolutamente inodori. Quasi sempre, che diamine!  

Appezzecà. Significa “incollare, appiccicare”. Se togliamo “ppe” resta “azzeccàre” che in napoletano significa “incollare” “appiccicare”.

Appìcciafuèche (U). L’appicciafuoco è colui il quale si diverte a seminare zizzania fra persone conosciute. Colui che sa fomentare come pochi situazione imbarazzanti o dannose. Non è sempre benaccetto nel gruppo. Vedi “appicciàre”.

Appresènte (U). Questo sostantivo che significa “presentazione” è comunemente usato dagli ebanisti e dai fabbri per indicare un momento molto importante del loro lavoro. Quando gli elementi di un accrocco qualunque, sono tutti pronti per essere assemblati, un attimo prima del loro assemblaggio definitivo, si dispongono ordinatamente per terra, quasi fosse un disegno esploso, per controllare un’ultima volta che ci siano tutti i pezzi necessari, compresi i più periferici e i più piccoli. Questa particolare disposizione è chiamata, appunto, l’appresènto, la presentazione. Questo bellissimo vocabolo è ormai totalmente sconosciuto alla maggioranza dei baresi, specialmente dei giovani. Un vero peccato. E’ un termine di grande eleganza nel campo dell’artigianato di eccellenza. Viene anche usato nei cantieri edili. Prima di dividere gli appartamenti, le imprese dispongono una linea di tufi o di mattoni sul pavimento del rustico per far meglio comprendere al futuro acquirente come saranno distribuite le stanze nell’appartamento medesimo. In linguaggio tecnico si dice che si è fatto il filo a terra, in realtà anche qui si è fatto “u appresènte”.  

Arlògge (U). E’ l’orologio, altrimenti detto dai più anziani “terlògge”.

Arnàre (U). Viene da “orinare”. E’ il vasino dei bambini.

Arragà. Significa “litigare”. Quando due vicini, stanno in lite per questioni condominiali, e non si parlano neanche a morire si dice che stanno arragàti. Due fidanzati che si lasciano momentaneamente stanno arragàti. “Stanno”, si badi bene, non “sono”!

Arraganàte. E’ un aggettivo usato in cucina. Una vivanda arraganàta è semplicemente “gratinata”. Il massimo nel campo sono le cozze arraganàte. Boccone da re.

Arrapà. Verbo. Il suo significato è universale. La sua traduzione è talmente ovvia che mi permetto il lusso di non scriverla. Generalmente viene usato “arrapante” per indicare che una ciccina è estremamente graziosa. Così tanto per dire. Insisto sul fatto che i baresi vanno subito al sodo senza inutili circonlocuzioni, una ciccina è arrapante e basta là, ci siamo capiti e ci siamo fatti capire. Ogni ulteriore spiegazione è ridondante e ininfluente.

Arrecchesciùte. Significa “arricchito”, con tutte le negative significazioni che il termine comporta. C’è una differenza abissale fra il termine “ricco” e il termine “arricchito”. Il nobile proletariato barivecchiano vede come il fumo negli occhi gli arricchisciùti, e, quando può, fa in modo da tirar loro delle draghinassate nei filetti. A buonissima ragione, secondo me. Non dimentichiamoci l’origine popolare della straordinaria vicenda di San Nicola, vicenda nella quale i ricchi fecero la figura dei peracottari. Forse non è questo il modo scientifico di considerare la storia, ma è certamente molto più gagliardo e vicino alla verità.

Arreggettà. Altro bel termine barese. Significa “rimettere tutto in ordine” dopo un qualsivoglia lavoro. Quando si è finito di montare un motore, i ferri si arriggìttano, quando in un laboratorio, in un’officina, arriva l’ora della chiusura, non si chiude se non si arriggìttano i ferri. Arriggittàre è usato anche nei lavori domestici. Arrigittàre una casa, significa rifare i letti, pulire la cucina, spazzare per terra, togliere la polvere, passare la cera, mettere ordine nel frigorifero. Arriggittàre la tavola, per estensione, significa togliere le macerie del pasto, riporre la tovaglia, rimettere le sedie addossate al tavolo,  portare in cucina i piatti sporchi e rimettere ogni cosa al proprio posto. Bella parola dunque, dà l’idea delle cose ben fatte, della biancheria pulita, dell’artigianato civile e valente che onora chi lo esercita e gratifica chi lo utilizza.

Arregnàte. Participio passato del verbo arrognàre. E’ arrognàto chi si chiude a riccio per qualsiasi cosa, come pure è arrognàta quella persona che cammina d’inverno sotto la pioggia tutta stretta in sé stessa. Un certo tipo di “miseria” mentale, oltre che fisica. Ci sono anche degli altri usi del termine in questione. Si arrògna tutto il gibillero se, mettiamo d’inverno, di colpo ti siedi in un catino di acqua gelida. Comprì?

Arrenzà. Sta per “abborracciare”. Termine usato sempre in termine dispregiativo. Un lavoro arronzàto non si augura a nessuno. Arronzàre è l’esatto contrario di arriggittàre (vedi). Viene stranamente usato anche in senso di “travolgere”. Fu arronzàto da un’automobile.

Arrepà. Verbo. Significa “conservare”, aggiungerei “con cura”. Le forchette si arrìpano, le lenzuola ben piegate e profumate di pulito si arrìpano.

Arrezzà. Arrizzare significa letteralmente “arricciare”. E’ un verbo usato particolarmente nel lessico dei pescatori. “Si arrìzza un pùlpo” infatti. Arricciare un polipo è operazione faticosissima e antichissima. E’ considerata un’arte. Il polipo, appena pescato e tramortito con un morso alla testa, viene sbattuto ripetutamente con vigoria sullo scoglio, bagnandolo ogni tanto con acqua di mare. Quest’operazione serve soprattutto per spezzare, e quindi rendere  molto meno dure, le fibre del polipo stesso. Poi viene molte volte schiaffeggiato sullo scoglio con una spatola di legno, e poi ancora sbattuto e sbattuto, con un ritmo solenne e movimenti elegantissimi. Il polipo così perde pian piano la sua fibrosità e diventa tenerissimo, ma contemporaneamente diventa una poltiglia informe. Per ovviare a tale inconveniente, viene quindi messo su una spanedda, che è un canestro piatto a bordi bassissimi e viene mosso avanti e indietro sulla spanedda. In questa maniera viene “arrizzato”, finchè non prende le sembianze che tutti conoscono. E’ diventato tenerissimo. L’arrizzatura del pulpo è uno spettacolo da non perdere. I pulpi vanno mangiato crudi o cotti. Per dire a qualcuno che ha un aspetto un po’ sbattuto, gli si dice “Ti hanno fatto a pulpo!”. C’è poi l’espressione molto signorile :”N’ha frìtte de pùlpe!” (vedi). Assume ben altro significato quando la conversazione cade nell’erotico. Per dire che una certa ciccina gli fa sangue, il nostro amico di merenda  così si esprimerebbe “chedaddà muafattarrezzà” quella lì me lo ha fatto arricciare. Una semplice, canonica, normalissima, quotidiana erezione. Cose che càpitano.

Arrezzecà (le carni). L’arrizzicàre le carni sta per “farsi venire la pelle d’oca”. Arrizzicàre forse viene da arrizzare, che a sua volta viene da arricciare. Questo verbo viene sempre seguito dal sostantivo al plurale “le carni”. Per quanto riguarda la coniugazione, siamo nel campo delle massime difficoltà. Basti pensare che la prima persona presente è: ”m’arrezzechèscene le càrne”. Gli altri tempi appartengono, come difficoltà, alle grandi ascensioni himalaiane. Notare la carnalità della frase: il termine pelle viene tradotta con il plurale di carne, “carni”.  

Arrià. E’ un’incitazione che si rivolge ai cavalli, ai muli, agli asini, per andare indietro, arrière in francese, se proprio ci piace questa sua lontanissima origine francofona.

Ascènne. Verbo, infinito, significa “scendere”. Al participio passato si declina “ascennùte”. Se si vogliono provare sensi di smarrimento e di inferiorità, consiglio ai lettori baresi veraci di fare la coniugazione del tempo presente, del condizionale e, perché no, anche del futuro. Quando un Romeo e una Giulietta baresi, contravvenendo ai desideri delle rispettive famiglie, decidono di sposarsi comunque, “se n’ascènnene”, “se ne scendono”. Fuggono via per qualche giorno mettendo così le famiglie di fronte al fatto compiuto. In Sicilia, con bella frase, si dice “la fuitina” “la piccola fuga”. Il contrario di “ascènne”  è “ nghianà ” (vedi).

Asckere (U). E nient’altro che il terrazzo scoperto della casa. Nel nord ci sono i tetti, al sud ci sono i terrazzi. Da non confondere con “la terrazza”. La terrazza potrebbe essere uno spazio destinato a bar, a club, ad associazione. “Il terrazzo” è la copertura piana delle case nel meridione d’Italia.

Asckuànde. Participio presente del verbo “asckuà” che vuol dire “bruciare la punta della lingua”. Il peperoncino piccante è asckuànte. Pronunziare dolce come “sciorinare” la “sck”. Anche qui la coniugazione assurge a vette di rara difficoltà. Per esempio la terza persona presente singolare è “jùsck”. Quando si beve d’un botto un bicchierino di grappa, è buona norma dire solennemente subito dopo: “jùsck!!!”. Forse viene dal latino “Urere” verbo transitivo, uro, uris, ussi, ustum, urere, che significa bruciare, consumare con la fiamma. Forse. Se poi vogliamo renderci la vita ancora più difficile, sciveremo “iùsck” con la “i” oppure “jùsck” con la “j”?

Assà. Significa “assai”.

Assì. Verbo. Significa “uscire”. Assùte, assènne, jèsseche, assjìebbe, eccetera eccetera. Per intanto divertirsi a scoprire i significati di questi termini scritti alla rinfusa. Ottimo esercizio. Assì è il contrario di “trasì”. Forse viene da “ab ire” ? Quando mi avventuro sul terreno dell’etimologia non prendetemi mai sul serio. Donde jèssettràse, che sta per “esce ed entra”, insomma uno che non sa decidersi. Anche qui le parole potrebbero scriversi di seguito senza spazi. Dal punto di vista della percezione visiva funziona molto meglio di “jèsse e tràse”. Si potrebbe anche scrivere ièsse? Mah! In ogni caso, jèsse o ièsse, proviamo a fare ancora ulteriori considerazioni. Analizziamo “jèsse”. La “j” va letta dura come ieri. Terza persona presente del verbo "assì" uscire. “Jèsse” dunque significa "esce". Se vogliamo "uscire matti" proviamo a coniugare il verbo. A proposito di questa frase idiomatica,  mi viene dolce il ricordare che, tanti anni, fa nelle pagine sportive della "Gazzetta del Mezzogiorno" un ignoto titolista – di chiare origini baresi - titolò un articolo su un'epica impresa al Giro d'Italia di Felice Gimondi, traducendo letteralmente un modo di dire squisitamente barese direttamente in italiano. Il titolo così recitava: "Quello Gimondi è uscito pazzo". In barese si sarebbe così detto: "Cùde Gimònde àve assùte màtte ". Tornando a noi ecco qui di seguito un tentativo di coniugazione:
           Jì jèsseche
           Tu jìsse
           Jìdde jèsse
           Nù assìme
           Vù assìte
           Lòre(chìde) jèssene
           Il participio passato è "assùte". L'infinito è "assì".
Chi vuol continuare a coniugare lo faccia pure. Personalmente ho avuto dei momenti di smarrimento nelle altre coniugazioni e mi arrendo. Provate con il condizionale e fatemi sapere.

Assùtte. Asciutto è il suo significato. Il suo contrario è “mbùsse”. “Assùtte” è il participio passato di “assequà”. Provate a coniugarlo e fatemi sapere.

Astepà. Significa “conservare”. Usato anche “stepà”. Generalmente la biancheria invernale, quando arriva la primavera, si astìpa nello stipone o, nel migliore dei casi, nella ciffonnièra. La domanda “uàstpàst?” è la terza persona singolare del passato remoto di astipàre. Significa “lo conservasti?”. Anche qui parola composta con ben due accenti. Andrebbe scritta “u astepàste?”, ma vuoi mettere!

Attànde. Sostantivo maschile. Nasce ed e è usato sempre privo dell’articolo U. Significa "tuo padre". Per estensione, "mam' t' " “màmete” significa tua madre. Il termine "màmete " è considerato un insulto. Come, d'altronde, "sòrete " che sta per “tua sorella”. Bah! "Attànde" viene usato senza l'articolo, ricordarsi. . Qualora si volesse usare l'u, allora va scritto in maniera diversa: "U attàne ". Che in questo caso significa "il padre". Notare come da una semplice analisi di una unica parola si evince la estrema complessità del dialetto barese. Per cui, ricapitolando: tuo padre non è un insulto, tua madre e tua sorella appartengono di diritto alla categoria dell’insulto. Il solito feroce maschilismo che fa capolino anche qui. Ahimè.

Atterròne (U). Stranamente in barese il “torrone” si chiama così.

Attràsse (U). L’attràsso è il ritardo in qualsiasi cosa. Sono attrassàto significa essere in  debito di…. Si può essere attrassati nel campo del sesso, dei pagamenti, del divertimento in genere, del pagamento della pigione. Insomma l’attrasso è generalmente una condizione che, alla lunga, produce notevole stress.

Auelì auelà. E’ il trallallero trallallà italiano tradotto in barese. “Auelì auelà la guàrdia mingipàle cu mazzarìedde nmàne”. Trallallero trallallà la guardia municipale con il manganello in mano.

Auuandà. Verbo. Significa “agguantare”. La “u” va letta marcandola per bene, pronunziandola quasi come fosse doppia. E’ uno dei casi, nel dialetto barese, in cui esiste la vocale doppia. Così come in italiano esiste la consonante doppia, ciccia, colla, pappa, nel dialetto barese esiste la vocale doppia. “Auandà”, infatti, andrebbe scritto “auuandà”. Sinonimo di a(u)uandàre è "acciaffàre". Si auuàndano i mariuoli, si auuàndano ( nel senso di lumare, scorgere all’improvviso) i poliziotti. “Auuànd auuànd”, infatti significa “attenzione! guarda chi arriva!”. “Auuànde à cùde “ significa “attento a quello, attento a chi sta sopraggiungendo, attento a quello che sta combinando il tale o il talaltro!” Quando poi si ripete due volte al gerundio, “auuandànne auuandànne”, siamo in presenza di una risposta tipica che generalmente si dà a chi ti chiede come stai. Agguantando agguantando significa che si va avanti alla meno peggio. In barese esiste inoltre il sinonimo “acciaffàre”, che significa “afferrare”.
"Acciàffe u pùlpe da mmòcchafràtte " è una celebre frase detta da una madre  al suo figlio più grande. Madre, padre e sei figli. Otto persone. La madre aveva comprato "ndèrre à la lànze " otto polpetti crudi  da mangiare (crudi), esattamente uno a testa. Uno dei figli, arrapato dalla vista dei polpetti sul tavolo, senza aspettare l'ora del pranzo, ne agguantò uno al volo e se ne fuggì via tenendolo in bocca. Questa rapina  scombussolò la giusta ripartizione dei pezzi nella famiglia, per cui la madre ordinò, pena la vita, al figlio più grande di recuperare il maltolto e di riportarlo sul desco. "Strappa, acciaffa, dalla bocca di quel fetente di tuo fratello il polpetto, sennò sono cazzi amarissimi per lui e per te". Per avvalorare quest'ultima minaccia, la madre gridò al vendicatore che se non riusciva nell'impresa sarebbe stato molto meglio per lui (il vendicatore in questione) ritirarsi a casa con la propria bara sotto il braccio. “Ci non auuànde u pùlpe dammòcche affràtte, jè mègghjie ka te puèrte u tavùte sottovràzze!”. Quando si dice la finessa!

Auuì (Le). Sono le olive. Parola generalmente usata al plurale. Far sentire il peso della doppia “u” iniziale.

Avàst! Espressione severa barese. Significa “basta!”. Ho la netta sensazione che questo termine particolare non abbia nessun bisogno della “e” muta finale. Infatti la si pronunzia così com’è scritta, non mi pare sia “ascoltabile” la “e” muta come in “musique”.

Azzagà. Verbo. Azzagàre significa mettere le mani addosso a qualcuno per dargli una punizione corporale. Generalmente i bambini dopo una grossa marachella vengono azzagàti. La zeta si pronuncia dolce.

Azzemàriu? Anche “azzemàrue?”. E’ un magnifico esempio della trasmigrazione di frasi o parole da una lingua ad un'altra. In questo caso molto particolare si tratta addirittura di una frase inglese, che è diventata una sola parola barese. Questo modo dire è entrato nel dialetto barese nel periodo della seconda guerra mondiale in cui in Puglia arrivarono le prime truppe alleate. Viene dalla frase “wath’s the matter with you?”. Ha lo stesso significato che in inglese: “che è successo?”

Azzeppà. Significa “urtare”. Avazzeppàte kelamàchene, ha avuto un incidente con l’auto. Ha urtato con la macchina.

Azzètte. Stranissimo termine. Significa “dedicato a”. “Azzètte à la Madònne”. Usato nel lessico religioso dalle beghine, che con un modo tenerissimo, a Bari vecchio erano e sono  indicate con la parola “beatèdde” beatelle, piccole beate, già pensando al loro futuro nel regno dei cieli. E’ una delle poche concessioni alla tenerezza che i miei tosti concittadini fanno. Quando si sciolgono però, si sciolgono bene.

Babbìscie (La) (U). La babbìscia (al femminile) è un bel “mento pronunciato” tipo Totò. Suo sinonimo è “pechiòcca” (vedi).  Al maschile, un signore babbìscio è un coglionazzo, un babbeo. Mi piace pensare che abbia origini antichissime. Potrebbe venire  infatti dal greco antico “bàbax” che significa babbeo. “Bàbax misetòs katà oikìan strofàzeto”, “odioso si aggira il babbeo per la casa”, recita uno splendido frammento di Saffo.

Baccaglià. Verbo che ha un suo simile in italiano. Significa infatti “baccagliàre”. Darsi da fare in maniera vistosa e scomposta. Forse ha qualche cosa a che spartire con “baccano”?  

Baccalajiùle (U). Baccalaiòle sono tutte quelle persone inaffidabili e pettegole, che, tra l’altro, sono bravissime nel “baccagliàre”. Al femminile “la baccalaiòle”  

Baguttèlle (Le). Sono frivolezze, robette da nulla. Ho ritenuto interessante citare questo vocabolo per una ragione ben precisa. Questa parola è sempre accompagnata da un sorriso. E’ uno dei rari casi in cui i baresi, tosti come non mai, si lasciano andare a un sorriso senza ritegno. Fatto questo che mi pare degno di nota e di attenzione. Fateci caso.  

Bainànde o bainànte (U). Aggettivo. Indica un simpatico furfante.

Balùffe. Fa parte del modo di dire “a balùffe”. Significa quantità esorbitante, immensa. Paperon de’Paperoni ha dollari a balùffe.

Bandèsche (La). Sostantivo, è usato sia per i maschetti che per le femminucce, anche se è accompagnato dall’articolo femminile “la”. Indica persona con poca personalità che va cazzeggiando in giro sia dal punto di vista fisico che da quello immateriale. “Non fare la bandèsca” può anche voler significare “non fare l’incosciente”. Ma ha molti altri significati attinenti la insulsaggine. Però la bandèsca è sempre nella categoria della simpatia. Chissà, forse viene da bandiera, banderuola, che va dove va il vento. Chissà.


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DIZIONARIO DI TERMINI BARESI SECONDO FRANZ FALANGA CONSISTENTE IN OTTO PARTI Empty DIZIONARIO DI TERMINI BARESI SECONDO FRANZ FALANGA SECONDA PARTE

Messaggio  Admin Lun Ago 11, 2014 3:49 pm

Bastànze (La). Viene evidentemente da “basta”. Si usa in cucina per dire che è inutile aggiugere altro sale, ce n’è già la giusta quantità. Sta la “bastànza” di sale.

Becchenàre (La). Evidentemente la deliziosa, aristocratica, svenevole, pompinara.

Becchenòtte (U). Deliziosa parola che appartiene al lessico della pasticceria e a quella dell’erotismo. Il bocconotto in pasticceria è una specie di cannolo ripieno di deliziose creme di vario tipo. Per estensione si passa al campo dell’erotismo. Con l’avvento delle tecnologie moderne, nel secondo caso, per indicare un evento strettamente erotico di gran pregio e suggestione, si usa il raffinatissimo modo di dire “parlare al microfono”. Fra noi musicisti viene usato anche la frase idiomatica “suonare il saxifòne”. Nel veneto con audace parallelismo si usa il termine “soffegòtto” che deriva da soffegàre, soffocare. Insomma ragazzi, ci siamo capiti. Dimenticavo di dire che il “bocconotto” erotico può essere tranquillamente sostituito da “chinotto”, nel senso di “alquanto chino/a”. Pensateci su.

Becchìne (U). Non perdiamo tempo, stiamo parlando del pompino, proprio lui! Ma non è finita qui. I bocchini sono anche dei formidabili muscoli alla braccia. Chi ha due bei bicipiti ha un bel paio di bocchini. Mah!

Bedebùffe! Suono onomatopeico, sta per “patapùnfete!”.

Beffettòne (U). E’ null’altro che uno schiaffo. Viene da buffetto. Buffettone, un po’ più gagliardo che una semplice scoppola. In barese mentre ci sono diverse accezioni del termine schiaffo, ci sono invece poche accezioni del termine maccheroni. Chissà perché. I baresi sono poco svenevoli e come già detto, hanno il rude senso delle cose. Con il passare degli anni, tutto sommato, non mi pare un rimarchevole difetto.

Beggegolètte (La). E’ un peccato che questa bellissima parola ormai non  se la ricordi più nessuno. Appartiene al vecchio dialetto ed ormai nessuno più l’ha in memoria. E’ la bicicletta, che, stranamente è diventata nel barese contemporaneo “la bececlètte”. Anche i dialetti si evolvono e le parole subiscono modificazioni.

Bellònie. Nome proprio di persona. Significa “Apollonia”. Anche qui siamo in presenza di una parola estremamente arcaica che nessuno più ormai ricorda. Se qualcuno volesse oggi scrivere in dialetto Apollonia, scriverebbbe “Apellònie”.

Benedìtte (U). E’ un boccone da re che si mangia nelle festività pasquali. Si sbuccia un’arancia, si taglia a fette e si condisce con sale e olio d’oliva. Mangiare come se fosse un’insalata. Provare per credere. Una vera sciccheria.

Benòcchjie (U). Il benòcchio è uno che vede male. Viene stranamente da binocolo.

Berefàtte (U) (La). Berefàtto o berefàtta sono aggettivi che vanno affibbiati a donne o uomini in gambissima. Berefàtto significa “bel fatto, ben fatto”. Il berefàtto, stranamente usato solo al maschile, indica anche il sesso maschile, giovane, gagliardo, nerboruto e violacciocco. Questi quattro aggettivi li ho presi da una vecchia canzone goliardica che così inziava: “Olè son Carmencita detta l’encantadora!” In questo cantico da clerico vagante si parla, appunto, di Carmencita che preferiva i sessi “berefàtti”. Un uomo o una donna berefàtti sono considerati “uomo fatto a uomo”, o “donna fatta a donna”. Quando si dice uomo fatto a uomo, si sottintende fatto a immagine e somiglianza di un dio. O di una dea nel caso della donna.

Berlòkke (Le). Generalmente usato al plurale. Sono i brillanti, i diamanti. Questa parola è circondata da un’aura di cattivo gusto, di grossolanità. Fa piacere che fra l’antico proletariato barivecchiano circolasse questa visione molto civile della ricchezza, a sua volta fonte di grandi situazioni al limite del pacchiano. Questa diffusa mentalità ci fa molto piacere e la dice lunga sulla civiltà dei nostri vecchi abitatori di Bari vecchio. Ai giovani abitatori però non abbiamo ancora preso le necessarie misure. E ce ne dispiace moltissimo.

Berrìne (U). E’ quello che rimane della bora. In veneziano si direbbe “borìn”. A Bari, in certi giorni che sono annualmente sempre gli stessi, soffia il borino, che è parente stretto del maestrale. Ad esempio c’è il borino di San Giacomo e altri ancora. Interessante la persistenza del termine che segue il flusso del vento che nasce alle spalle di Trieste.

Bianghescià. Verbo. Significa imbiancare. Nel linguaggio tecnico si direbbe “scialbare” ma è una così brutta parola! L’imbianchino, quello che “biancheggia”, è ovviamente chiamato “u bianghesciatòre”.

Biatèdde (La). La beatèlla è la pia donna di chiesa. La bigotta, la beghina. Al maschile “U biatjìedde”.

Bombàce/Vammàscia (La). Ci sono quelli che “càmpano” nella vammàscia. Sono i figli di papà. Significa bambagia. Campare (vedi) sta per “vivere”.  Interessante come in barese la “b” diventi “v” e viceversa. “Bitonto” ridente cittadina dell’entroterra barese diventa “Vetònte”. “Valigia” diventa “balìce”. “Braccio” diventa “vràzze”.

Bombàtte! E’ un’antichissima espressione barese, ormai caduta nel dimenticatoio, purtroppo. Significa “Benfatto, per Giove!”. Viene detta dalle mamme ai bambini ogni volta che il bambino riceve dal papà la giusta punizione per una marachella.

Bonafeciàte (La). La “buona ufficiata” è il gioco del lotto, che in barese stretto si scrive “giòghedellòtte” e si italianizza giòcodellòt.

Brasciòle (La). Importantissimo e fondamentale sostantivo femminile. Mi raccomando pronunziarla con la “sc” dolce. Si tratta di un grosso involtino di carne. Da non confondere con braciola (senza “sc”) che è parola italiana e significa bistecca con l'osso (in alcune regioni anche senza). Ma a Bari le “braciole” non esistono come termine. La parola “brasciòla”  va quindi pronunziata facendo sentire la “sc” che va letta come la “sc” di pisciare. Al massimo, quando si vuole italianizzare la parola, si dirà “bragiuòla”. Quando ai primi del novecento i vitazzuoli (vedi) baresi iniziarono a frequentare Milano e i suo ristoranti, si scontrarono inizialmente  con situazioni assurde per loro. Sentendo i nostri amici il termine braciola e pensando fosse la brasciola e avendo gagliardi appetiti, ne ordinavano tre o quattro, scandalizzando i camerieri che si presentavano quindi al tavolo con piatti con sopra una pila di bistecche. Una volta capito il meccanismo però, anche a Milano la brasciola ha avuto splendida e consolidata cittadinanza. Volendo dare una conclusione scientifica a questa dissertazione, basti pensare che il termine italiano braciola viene da “brace”. Una bella bistecca cotta sulla brace dunque. Non avendo la bragiuola niente da spartire con la brace, essendo cotta in tegame (oltre che essere un involtino), è giusto quindi che il semantèma “brace” scompaia e si inauguri il più dolce “brasci” che poi genera “brasciola”.    

Brevògne (La). Significa “vergogna”. Ricordarsi della “v” che diventa “b”. “Abbrevegnàrse” significa vergognarsi. “T’àda abbrevegnà” significa “ti devi vergognare”. “Abbrevegnjìescete” è l’imperativo “vergògnati!”.

Brezzànghe. E’ certamente un soprannome dato per disprezzo a persona insulsa, inutile, ingombrante. Nel tempo ha perso la connotazione del nome proprio ed indica una persona senza qualità. Potrebbe anche venire da Bozambo, rifacendosi ovviamente al nome di qualche scimmia, nome ascoltato in qualche vecchio film, in qualche racconto. Per cui la sua nascita potrebbe essere collocata insieme ai primi film sonori. Suoi sinonimi potrebbero essere “tetè” e “chechè” (vedi). Qualcuno mi ha suggerito anche yè yè. Comunque fra i raffinati cultori del dialetto pare che brezzànghe sia un gradino più sopra di tetè di chechè o di yè yè. Forse perché la parola è lievemente più articolata. In alcune zone di Bari vecchio esiste anche la variante “mbrezzànghe” con la emme davanti. Rimestando nelle antiche memorie, come dianzi detto, “Brezzanghe” era un calzolaio con una gamba di legno, che camminava in modo vistosamente sciancato, e che i più vecchi ricorderanno per una sua “scappata” , in siciliano fuitina, con una deliziosa quindicenne. Potenza dell’amore!  

Brillànte (U). Il “brillante”, come dice la parola,  è la persona brillante. Generalmente viene usato al maschile. C’è un però, però. Questo termine viene usato nei riguardi di quelle persone che non hanno la stoffa dei veri brillanti e, ciò nonostante si ostinino a volerlo essere. Un sorta di “vorrei ma non posso”. E’ drammatico sentirsi dire “siendammè non zì facènne u brillànte” “ascoltami è inutile che tu ti atteggi a persona brillante, tanto non è cosa per te”. Aggiungiamo un’ulteriore informazione: “non è cosa per te” si dice “ Nonnè  pjìette utù ” “non è petto il tuo” (vedi nei modi di dire).  

Buàtte (U) (La). Sostantivo maschile e femminile. Viene dal francese boite. Sta per scatola metallica cilindrica, ex contenitore di pomodori pelati. In qualche caso è anche usato al femminile:"la buatta".

Cacacàzze (U) (La). Il cacacazzo è un rompicoglioni professionista. Per fare un strano ed ossimorico complimento a qualcuno, si dice. “E’ un bravo ragazzo ma è un poco cacacazzo”.

Cacàzze (La). Facilmente traducibile. In effetti significa “spavento”. Prendersi una bella cacazza.

Cagnèle (La) (U).  “La” cagnèla o “u cagnèle” è un cane bruttino, vagamente spelacchiato e per niente feroce. E’ al penultimo posto nella scala dei valori assoluti. Viene subito prima del cane mazzo (vedi) che non ha paragoni al mondo per quanto riguarda bruttezza e sfiga.

Calabùsh (U) (La). Oppure “garabùsh, gattabùsh, carabùsh” dove il suffisso “sh” va letto dolce come “sciare”. Parola usata dalla malavita. Qualcuno pensa che possa provenire da “gattabuia”. Significa “prigione, galera”. Va annotato che a Bari vecchio “galera” viene indicata anche con il dolce termine “collegio”. Questo termine (calabùsh)  ha un suo omologo in Sicilia, con lo stesso significato, dove la prigione è detta “calabùse”. Questa informazione l’ho trovata sul delizioso libretto editato da Sellerio “Gli indesiderabili” di Gian Carlo Fusco. Contrariamente alla presunta origine da gattabuia, questo termine dialettale (sia barese che siciliano) proviene certamente dalla parola “calaboose” che appartiene allo slang malavitoso americano e che, per l’appunto, significa galera, gattabuia, prigione.

Calandrèdde (La). La calandrella è il pomeriggio estivo, subito dopo pranzo. Quando con la pancia piena ci si concede un pisolino. La calandrella indica il fermo totale estivo pomeridiano di ogni tipo di attività umana. A Bitetto, ridente paese in provincia di Bari, la calandrella è invece un antico gioco che veniva giocato utilizzando i noccioli delle albicocche. Dopo averli lavati ed asciugati accuratamente i noccioli venivano custoditi in sacchetti di stoffa. Venivano chiamate calandrelle i noccioli più grossi del sacchetto.  

Calasciòne (U). Per calasciòne si intende un tipo lento, pigro, con l’addome pendulo, che quando cammina si strascina (non si “trascina” si badi bene) per le terre. Si intende anche un tipo alto e senza guizzi di nessun genere. Il calasciòne era anche uno strumento musicale del seicento, a corde, somigliante a un contrabasso sgraziato, grande e grosso che veniva usato raramente. Veniva poi appeso al muro dove vi restava per lunghi periodi.

Calàte (La). La calàta è una gagliarda pacca fra la schiena e la coppa. Chi la subisce generalmente in modo repentino s’incazza moltissimo. Calàta è anche una pacca sul cappello borsalino appena acquistato e indossato. Fa anche un po’ male, oltre a far girare i coglioni in maniera violentissima.  

Calcàsse (La). Termine usato fra gli specialisti dei fuochi d’artificio. Indica la  bella, forte e ultima botta, che generalmente viene fatta esplodere alla fine dell’esibizione dei fuochi. Per estensione una calcàssa è anche una scorreggiona potente, limpida, gagliarda, di grandi e profonde sonorità, sana e priva di ogni connotazione odorosa. Nella storia della città ci sono stati dei geni capaci di eseguire fior di calcàsse a comando. Questi premi Nobel della sonorità, questi artisti della sanità di corpo, questi rarissimi esecutori, sono sempre stati apprezzati in modo quasi spasmodico da Tonino chitarrista del Southern Jazz Ensemble.    

Caldacìme (Le). Le caldacìme sono le “caldane”. In leccese hanno un bellissimo nome: “Li sckannìi” pronunciando la “sc” dolce come “sciogliersi”.

Calècchie (Le). “Sò le càzze annècchjie”. Sono i cazzi a un occhio. Gli scostumati, quando qualcuno chiede loro che cosa hanno mangiato, rispondono “calècchie”. Alla domanda “e che cosa sono?” rispondono tutti contenti “le càzze annècchjie”. I cazzi a un occhio appunto. C’è anche la variazione in questo piccolo ping pong. “Che cosa hai mangiato?” “Le pònde!” “E che cosa sono le pònde?” “Le pònde de le càzze”. “Pònde” sta per punte. Di queste botte e risposte, nelle quali c’è sempre il tordo che ci casca, è straordinariamente piena la baresitudine. Calècchia sta anche per “nullità”. E’ anche molto onomatopeica.

Camàsce (La). La camàscia è una persona lenta, ciondolona, piuttosto scadente, poco vispa. Nella pronunzia tenere la “a” molto prolungata.

Cambà. Significa “vivere”. In barese il verbo vivere non esiste. Al suo posto c’è la bellissima parola “campàre”. Va inoltre detto che in napoletano campàre significa fare l’amore. Parola meglio usata di così! Campàre in barese è anche transitivo. Infatti si dice “campàre la casa”. Donde il ferocissimo detto “U drìtte càmbe la càse”. Il dritto, il furbo, è quello che riesce a far vivere bene la sua casa, la sua famiglia. Attenzione qui si parla di dritti, non di intelligenti! Purtroppo i miei adorati concittadini antepongono la venerazione per i dritti all’ammirazione per gli intelligenti. Sempre in omaggio al detto che è meglio un uovo oggi che una gallina domani. C’è però il rischio feroce che quando un dritto incontra nel suo cammino uno più dritto di lui, ne esce sicuramente sconfitto. Mentre se un intelligente incontra uno più intelligente di lui, generalmente non accade nulla di spiacevole. Questo è quello che penso. Almeno spero che sia così.  

Cambàne de Vetònde (La). La campana di Bitonto. Era un gioco. Conosciuto da tutti. Consisteva nel disegnare con il gesso delle grosse caselle per terra, numerarle, e saltarci dentro con un piede solo e a piè pari, dicendo frasi rituali. La grande difficoltà di questo antichissimo gioco stava nel procurarsi il gesso. Chi riusciva a procurarsi un pezzo di qualsiasi tipo di pietra che lasciasse un segno sul marciapiedi era considerato un capobranco.

Camèle (La). E’ il nobilissimo aquilone.

Cammìse (La). La camicia, non altro. Stranamente in veneziano camicia si traduce “cammìsa”. Anche qui con due emme.

Canàte (U) (La). Il/la cognato/a. Il fràte della migghièra o la sòra du marìte, la canàta italianizzando il termine, sennò dovrei scrivere “la canàte”. Per cui posso pensare che “canàte” che viene scritto egualmente sia al femminile che al maschile possa essere considerato un termine neutro. E così mi sono complicato ancora di più la vita. Ho inaugurato il genere neutro nel dialetto barese. In quanto a presunzione non siamo secondi a nessuno!

Càne màzze (U). Il cane mazzo è il “cane magro”. E’ una metafora, indica l’ultimo posto della classifica degli sfigati fra tutti gli esseri viventi. E’ quello al quale si addebitano tutte le colpe di tutto quello che accade sulla terra. Dopo di lui non c’è assolutamente più nessuno. Se nelle isole Figi dovesse nevicare, il cane mazzo barese sarebbe lardellato di botte. Se nelle isole Faroer ci fosse un incidente fra un’auto e un monopattino, il cane mazzo barese sarebbe appeso per le palle, naturalmente vivo, alle mura del Castello Svevo. A proposito di capro espiatorio vale la pena qui ricordare un paio di detti baresi emblematici. Il primo è “quànne u acjìedde pìsce u lìette, u cùle jàve u sckàffe” il secondo è “quànne u cùle fàsce u pèpete, u acjìedde jàve u llòse” (vedi llòse). Che tradotti, rispettivamente così recitano: “Quando il pisellino piscia il letto, è il culo ad essere schiaffeggiato” e “quando il culo scorreggia, è il pisellino ad avere tutta la colpa”.

Cannàle (U). Anche questo termine appartiene alla lunga sfilza di termini che indicano tutti uno stesso gesto, lo schiaffo.

Cannarìle (Le). I cannarìli, dal punto di vista anatomico,  sono i condotti che dalla bocca vanno giu’ nei polmoni o nello stomaco. Avere i cannarili lisci lisci significa essere di molto golosi. Sono delicatissimi nell’esercizio della voce. Per esempio quando si grida ai figli per rimproverarli di qualche marachella, in quel caso i cannarìli soffrono non poco. Per estensione si dice che a furia di gridare, i cannarili si sono seccati, sono diventato secchi. Viene da “canna”.  

Cannarùte (U) (La). Il cannaruto è quello che ha la canna della gola liscia come il vetro. Per cui tutto scivola giù agevolmente. Significa “goloso”. A proposito di assonanze, in milanese “cannarùto” si dice “cannèt dè vèder” cannetta di vetro. Tanti anni fa mio padre e un suo caro amico trovarono un titolo per una commedia radiofonica. Ma si fermarono solo al titolo, gradevole secondo me. Il titolo era “La gatta cannaruta”. Chissà perché mai non proseguirono. Bah!  

Cannèdde (La). Sostantivo femminile. Termine sportivo. Indica lo stinco. Nel gioco del calcio  la cannèdda (cioè lo stinco) è uno dei punti preferiti dai terzini e dai mediani che giocano in difesa. Un calcio ben assestato nella cannèdda (i raffinati prediligono il termine cannèlla, ma tutto ciò fa un pò scadere la maschilita del gesto) ti toglie dai coglioni l'avversario per tutta la partita.

Cannèle (La). La cannèla è “la candela”. La cannela è anche il bel filino di muco che scende dolcemente e molto elegantemente  dal naso dei bambini che non hanno dimestichezza con i fazzoletti.

Cannescià. Verbo. Un cane, quando d’estate boccheggia per il caldo con la lingua penzoloni, si dice che “sta cannisciàndo”.

Càpa frèscke (La). Chi ha la testa fresca è colui o colei che pur vivendo nelle avversità riesce a non farsi corrodere dalla situazione. Generalmente è una frase che viene indirizzato con malcelata antipatia da quelli ai quali il fanciullo che era in loro non c’è più a quelli che riescono a prendere la vita in maniera leggiadra e sanamente ottimistica, a coloro cioè che hanno la càpa frèsca ovviamente.

Càpa gloriòse (La). Chi ha la testa gloriosa è generalmente un tipo un pò incosciente, molto simpatico alle ciccine, che non si crea problemi, che legge la realtà in superficie, prendendo tutto alla leggera.

Càpa toste (La).  Facile da tradurre, testa dura. Chi ha la testa dura è autorizzato a fregiarsi della parola  mulacchione o mulacchieddo, che viene da mulo. Ho conosciuto vari simpatici mulacchioni in vita mia. A mio parere, in certi particolari casi della vita,  i mulacchioni sono delle persone gagliarde e utili alla società.

Capà. Verbo, sta per “scegliere”. Capà ajjùne ajjùne, scegliere meticolosamente uno ad uno.

Càpa (La). E’ la testa. Si pronunzia anche con la “a” finale. Vedi “càpe”

Capabbàscie (La). Letteralmente “tèsta abbàsso”. E’ l’abbiocco, quando si reclina la testa sul petto in preda alla sonnolenza. Potrebbe anche voler dire profonda malinconia, profondo disappunto.

Capacchiòne (U). Il capacchione è una testa di dimensioni superiori alla media. Viene utilizzato come metafora per indicare il primo della classe, e, molto stranamente, per indicare anche un testone, un duro di comprendonio. Per cui capacchione può essere uno splendido libero docente o un ignorantone della forza di cento cavalli. “ Ha un capacchione” è diverso da “ E’ un capacchione”. Il primo modo di dire indica che una persona è molto dotata intellettualmente. Il secondo modo di dire indica che una persona è dura di comprendonio. Ecco un momento in cui “essere” ed “avere” danno finalmente alla stessa parola significazioni contrarie.

Capàse (La)/Capasjìedde (U). Sono delle grosse anfore di terracotta, generalmente costruite a Grottaglie in provincia di Taranto. Il capasièddo è più piccolo della capàsa e veniva usato per cuocere i fagioli sul fuoco di legna. Il capasièddo veniva messo “di fianco” al fuoco, mai sopra. Di fianco perché così offriva una maggior superficie al calore. Nella capàsa si conservano generalmente le olive all’acqua, boccone da re. Si consiglia caldamente una visita a Grottaglie dove l’arte della ceramica e della terracotta risale a secoli e secoli addietro.

Capasòtte (La). Diventare una “testa sotto” significa aver subito una specie di grosso guaio temporaneo che ti capita fra capo e collo. Appartiene di diritto al primo corollario della legge di Murphy. Quando meno te lo aspetti ti capita una bella rottura di balle. Questa è la “capasòtte”.

Càpe a becchenòtte (La). Testa cilindrica.Testa che si sviluppa in altezza, anziché in lunghezza, nel qual caso sarebbe invece una capa a siluro.

Càpe  a pandore (La). Il pandoro, come tutti sanno, ha forma tronco conica. La capa a pandoro è caratteristica di quelle persone che hanno le mascelle (garze) molto pronunciate nella loro parte inferiore. Particolare che si nota molto bene specialmente se si ingrassa di qualche chilo. Un noto contrabbassista amico mio carissimo e fraterno ha la capa a pandoro. Gli altri amici della band capiranno.  

Càpe abbeffelùte (La). Magnifico neologismo barese coniato da Santino Dirella, clarinettista di gran pregio che ha traversato con molta discrezione e passione la ricca storia barese della musica d’intrattenimento e d’improvvisazione. Un giorno per meglio catterizzare la testa calva e un poco bitorzoluta di un suo amico disse che aveva la “capa abbuffolùta” la testa abbuffoluta. Quando la pasta per fare il pane (che in barese si chiama “massa” ) lievita, assume una forma tondeggiante con dei piccoli bitorzoli o bozze sulla superficie. Bene, allora si dice che la massa sta abbuffolèndo.  

Càpe de càzze (La). Facilissimo da capire. Chi è insignito di questo appellativo non ha scampo.

Càpe de ciùcce (La). Diciamo subito che il ciuccio è l’asino. Quindi testa d’asino. Ma il vero problema è di chi sta scrivendo questo lessico. Per anni nella strada in cui abitavo, su un centralino metallico dei telefoni installato sulla via ha campeggiato una scritta: “Pinuccio capa di ciuccio”. Non ho mai conosciuto l’identità di questo Pinuccio, che ormai fa parte del mio immaginario privato.

Càpe de mòrte (La). E’ una rapa particolare. Consiste in una rapa di colore verdino chiaro che va mangiata cruda condita con olio aceto sale e pepe. Può essere divorata anche assoluta. In barese assoluta vuol dire legittima, cioè senza condimento. Di consistenza dura, un po’ più di una mela per intenderci. Ha moltissimi apprezzatori ed ammiratori, ma per ragioni a me ignote, è quasi scomparsa dai mercati rionali di frutta e verdura. Con grandissimo mio dispiacere. Non conosco il perché di questa rarefazione, ma penso che sia dovuto al fatto che, essendo un boccone per poveri, abbia perso la sua appetibilità a favore di tutti quei frutti esotici che hanno solo il pregio di costare enormemente di più. Stessa fine della capa di morte hanno fatte le malandre e le menne delle monache, che ormai sono soltanto sul tavolo dei veri intenditori. Le malandre sono il nero delle seppie e le menne (tette) delle monache sono le animelle dei polipi. Animella è una parola gentile, indica certe ghiandole che si trovano negli invertebrati marini. Così come stanno scomparendo anche le ciole di cavallo, che sono certi particolari segmenti delle interiora equine che, cotte in umido, avendo avuto cura di non  pulirle perfettamente,  ti fanno toccare il cielo con un dito quando le mangi. Denunzio qui la lenta e continua scomparsa dalle tavole baresi delle cape di morto, delle malandre, delle menne delle monache, delle ciole di cavallo. Una vera tragedia ecologica e culturale.  

Càpe de pèzze (La). Le càpe di pezza, teste di stoffa, sono le monache. Facile capire il perché. A Bari ci sono diversi collegi eleganti e di prestigio gestiti da càpe di pezza, dove si sono alternate generazioni e generazioni di magnifiche ciccine. I preti, più fortunati delle sorelle monache, non hanno invece nomi di fantasia. A dimostrazione che certi meccanismi maschilisti sono duri a morire. Mi si dice che le stesse ciccine che frequentavano codesto splendidi collegi, con malcelata perfidia erano le prime ad usare questo strano modo di dire.

Càpe de tùfe (La). Il tufo è una nobile pietra morbida da costruzione che è usata sapientemente in tutta la Puglia. La càpa di tùfo è una persona  testarda, cocciuta, dura a registrare il nuovo che avanza. Si potrebbe parlare qui di un reazionario. Si usa anche, al posto di càpa di tùfo, l’aggettivo tufàgno. Devo mordermi le mani a sangue per non fare qui un elenco di tutti i tufàgni che ho incontrato e continuo ad incontrare in vita mia. I tufàgni non hanno nazionalità, sono presenti sul globo terracqueo in maniera capillare e in quantità enormi. Sui luoghi di lavoro, specialmente ai vertici, i tufàgni maschietti sono generalmente la norma. Avete invece mai incontrato una donna tufàgna ai vertici di qualche organizzazione? Personalmente mai. Vorrà ben dire qualche cosa.  

Càpe decchiùmme (La). Qui invece siamo nel campo della rapidità. I lenti a capire, quelli che prima di adeguarsi a una nuova situazione ci mettono molto più tempo degli altri per capire una cosa, sono delle magnifiche càpe di chiùmmo. Il chiùmmo, per chi non lo sapesse ancora, è il piombo. Ne deriva un’altra bella parola che è nghiummòne (questa volta con la “g”).”Nu nghiemmòne” è “un” evento, “un” film, “un” libro, “un” argomento di una pesantezza senza pari. Certi lentissimi film sovietici degli anni cinquanta, con sottotitoli in ungherese, erano degli splendidi esempi di nghiummòni. Qui mi vorrei fermare, perché aprirei un contenzioso con dei miei vecchi amici cinefili che per anni si sono fatti due palle così (senza naturalmente dirlo ad anima viva) nutrendosi di due o tre nghiummòni al giorno. Poi è caduto il muro di Berlino e molte posizioni sono stati riviste. Chi mi starà leggendo capirà benissimo di chi  e di che film stia parlando. Ieri, mentre stavo in Accademia a Venezia, nel cortile d’ingresso, ho visto un mio collega che si aggirava intorno alla vera da pozzo del cortile interno senza un particolare motivo. Dopo averlo salutato gli chiesi cosa stesse facendo lì, da solo, in un ora nella quale non lo avevo mai visto. E lui mi disse che era uscito dall’aula a prendere un pò d’aria. Era più o meno la centesima volta che proiettava agli studenti “La corazzata Potiomkin”. Non ne poteva più. Personalmente diffido di questi personaggi. Personalmente non smetterò mai di meravigliarmi ascoltando la nona di Beethoven, che ho ascoltato e continuerò ad ascoltare.  

Càpe derròbbe (U). Il capo delle robe è in realtà una persona importante del gruppo. In altre parole un boss.

Càpe du pèsce (La). U pèsce fète dalla càpa. La testa del pesce è il classico boccone da re. Chi a tavola si mangia la testa di qualsiasi pesce va considerato un intenditore di alta eccellenza. “Il pesce puzza dalla testa” è un proverbio che troviamo sia nella cultura barese (U pèsce fète (puzza) dalla càpe) sia in quella veneziana. Sul coronamento superiore del gran cancello di ferro battuto che chiude di notte le pescherie, a Venezia, è scritto in latino maccheronico “Piscis primum a capite phoetet”. A proposito delle Pescherie a Venezia, mi ricordo di un delizioso incidente culturale molto divertente occorso all’architetto Le Corbusier quando negli anni sessanta fece un viaggio a Venezia in occasione della presentazione del suo progetto di un ospedale. Progetto che ahimè è rimasto nel grembo di Giove, così come è rimasto nel grembo di Giove il palazzo progettato in corno di Canale dall’architetto Frank Lloyd Wright. Quando penso che oggi Venezia avrebbe potuto avere due opere di questi due grandi maestri dell’architettura moderna e non li ha per la ottusità di alcuni ominicchi politici dell’allora giunta veneziana divento furibondo. Ma torniamo a Le Corbu. Mentre i guru della scuola di architettura di Venezia stavano portando il maestro a spasso per il Canal Grande in tassì venendo dalla stazione, prima di arrivare a Rialto guardando con attenzione sulla destra la costruzione del mercato che si erge di fronte al Fondaco dei Todeschi, Le Corbusier disse che lui apprezzava moltissimo quel bell’esempio di architettura gotica. Nessuno dei presenti ebbe il coraggio di dirgli che il mercato del pesce di Venezia è stato sì costruito con linguaggio gotico, ma è stato costruito nel milleottocento. Un falso quindi. Questa storiella verissima mi rende, se possibile,  ancora più simpatico il grande Le Corbu.

Càpe (La). Dal latino caput, significa “testa”. E’ termine usatissimo in compagnia di aggettivi e sostantivi per indicare in maniera assolutamente scientifica e colorita la tipologia alla quale appartiene il soggetto del quale si sta parlando. Il termine càpa  dispone di un largo ventaglio di connotazioni, le più varie. Vedi “càpa”.

Capère (La). La capèra è la parrucchiera, quella che “fa” la capa.

Capevène ammaresciùte (Le). Letteralmente “teste (estremità) delle vene amareggiate (dispiaciute)”. Sono semplicemente le emorroidi.

Capìdde (Le). Sono esattamente i “capelli”.

Capòcchie (La). E’ esattamente quello che state pensando. Ma ha anche un altro significato, che è quello che più mi incuriosisce. Significa “nulla”. Abbiamo mangiato capòcchia, abbiamo fatto capòcchia, abbiamo visto capòcchia, indica che non si è mangiato, fatto, visto un bel nulla di nulla.

Capùzze (La). La testa dell’agnello giovane che si usa mangiare a parte nelle feste pasquali. La capùzza va cotta generalmente al forno, nel nero tegame di ferro con i bordi bassi. E’ in assoluto un boccone da re. I suoi paggi sono le patate al forno, condite con il sugo della capùzza stessa.  

Caratjìedde (U). Sostantivo maschile. Carro botte adibito alla raccolta dei liquami nei luoghi privi di fognatura. Attualmente è fortunatamente caduto in disuso. Durante la 2ndWW era utilizzato tutte le mattine, nel centro storico di Bari, per raccogliere le cacate notturne degli abitanti. Chi volesse documentarsi al riguardo di certe particolari condizioni igieniche in certi paesi del mezzogiorno, vada a leggersi  il magnifico "Cristo si è fermato a Eboli" di Carlo Levi. Mi pare molto interessante riscontrare una parentela fra il nostro “caratèllo” che, come ho detto, era una botte su ruote con una grossa apertura sul fianco per versarvi dentro le acque nere, con una grossa botte veneta, anch’essa con una grossa apertura su un fianco. Quello che mi ha intrigato molto è il nome di questa botte veneta, che contiene esattamente un ettolitro di vino. Si chiama “carrettèl”. Le parentele fra noi e i veneti aumentano sempre di più.

Caregacchiàcchjiere. Lo dice la parola stessa “carico a chiacchiere”, chiacchierone.

Caregammjìere. Quando uno sta “carico a vino” è ormai ubriaco fradicio.

Carescià. Verbo. Significa “trasportare”. Evidente l’origine, viene da “carro”. Presuppone una leggera fatica.

Carestùse. Aggettivo. Significa “caro”. Nel campo dei prezzi. Un fruttivendolo del centro, un famoso architetto, che si fanno notoriamente pagare profumatamente, sono “carestòsi”.

Carevùtte(U). Il carvùtto è quella parte della cantina che ha uno sbocco diretto con l’esterno. Questo sbocco, questa presa d’aria, è il carvùtto. Si dice che l’aria del carvùtto (la corrente d’aria fra l’interno e l’esterno) sia letale, specialmente d’estate quando si è sudati. Aria di fessura, aria di sepoltura.

Carnètte (Na). La carnètta è una persona particolarmente dura e di modi spicci. Difficilmente una carnètta si commuoverebbe leggendo il libro “Cuore”. Il classico duro. Può essere una carnètta sia un poliziotto che un lestofante. Va bene per entrambi. Preferisce accompagnarsi all’articolo indeterminativo femminile “na”. Quello maschile è “nu”.

Caròne (U). Indica la testa rapata perfettamente a zero. L’atto del rapare la testa dicesi “carosàre”.

Càrte de Fràngie (La). La carta di Francia è la normale carta da parati. Quando si vuol dire che si sta compiendo un’operazione assolutamente inutile allora si dice che è come rivestire di carta da parati l’interno di una ciminiera. Jè còme a mètte la càrte de frànge jìnde alla cemenère.

Carteddàte (Le). La Bari bene italianizza questo termine squisitamente barese in “cartellàte”. E’ “il” dolce natalizio per antonomasia. Le cartellàte sono delle squisitissime rose di pasta fritte e poi annegate nel vin cotto o nel miele. Se ne fanno parecchie perché devono durare per tutte le feste, almeno fino alla befana. Mi ricordo che una mattina vidi arrivare piangente un bambino di ritorno dalla scuola. La madre gli chiese cosa fosse accaduto e il bimbo disse, singhiozzando per il dolore e per la rabbia: “Giovanni mi ha dato una cartellata!”. E la madre: “Che gentile! Spero tu lo abbia ringraziato! Ma perché stai piangendo?” In quell’epoca in cui gli zainetti erano ancora di là da venire, Giovanni aveva dato sulle corna del bravo bambino una bella botta con la cartella in testa. Già, perché, per sfogare tutta la carica vitale che si aveva in corpo a quell’età, il gioco preferito, uscendo dalla scuola, era quello di prendersi a cartellate sulla nuca, gioco del cacchio indubbiamente. Un cartellata ben sistemata (le cartelle erano di cartone pressato di un orrendo color marroncino) ti faceva vedere le palommelle davanti agli occhi, in un cielo completamente rosso, per almeno dieci minuti.

Cartuscèlle (La). La cartuccèlla non è altro che un piccolo foglietto di carta. Sta ad indicare anche una banconota qualsiasi, di piccoli taglio.

Caruàte. Aggettivo, sta per “cariàto”. Oltre ad essere usato quando si parla di denti, è utilizzato anche quando si parla di una persona che è guasta dentro, che è un poco di buono. Cùde? Cùde tène u cervjìedde caruàte. “Cùde” (sta per “quello”) ha il cervello cariato. Inoltre, oltre i denti e le persone, anche gli alberi sono caruàti.

Carvenèdde (La). La “carbonella”. Quel particolare carbone fatto di gusci di mandorle, che riempiva i bracieri di una volta.

Cavatjìedde (Le). I cavatelli, lo dice la parola stessa, sono degli gnocchetti di semola piccolini cavati a mano.

Cazzà. Verbo. Significa “schiacciare”. Vedi "U càzze "

Cazzapète (U). E’ lo “spaccapietre”. Lo spaccapietre, come mestiere, fortunatamente non esiste più. Fino a cinquanta sessanta anni fa le pietre erano frantumate a mano anziché a macchina. Quando è stata costruita negli anni trenta la strada che attualmente gira intorno Bari Vecchio, seguendo il mare, sono state perpetrate diverse malefatte. La prima è che Bari vecchio è, sulla faccia della terra, dopo questo intervento riguardante la costruzione della litoranea, l’unico centro storico al mondo sul mare che sia stato tirato in secco. E’ avvenuto durante il fascismo, con il beneplacito del partito unico. La seconda è che è stata impiegata moltissima mano d’opera, ex specializzata, che è stata costretta a spaccare centinaia di migliaia di metri cubi di pietre per poter costruire i vari sottofondi stradali. Una volta terminata questa opera faraonica e inutile, la classe operaia barese era stata dequalificata completamente. Non dimentichiamoci che, negli anni venti/trenta, a Bari esisteva una straordinaria e autocosciente classe operaia. Questi operai che lavoravano specialmente nelle industrie olearie e nei saponifici, furono sottoutilizzati come spaccapietre nella costruzione di questa inutile strada e ovviamente dequalificati. Mio padre ricorda ancora gran mucchi di chiangoni con seduti sopra gli spaccapietre che per giorni, mesi, anni, con nella sinistra una pietra grossa, e nella destra un martello pesante dai tre ai cinque chili, frantumavano questi grossi pietroni, i chiangoni, appunto, sotto il caldo, sotto il freddo, sotto il vento di maestrale, sempre, tutti i santi giorni, a spaccar pietre, e a dimenticare la vita. Mi auguro caldamente che di questi nostri concittadini non vada mai persa l’affettuosa memoria. Una analoga descrizione degli schiacciapietre la ritroverete in altra parte di questo libro. Non è una mia dimenticanza, ho preferito riscriverla perché sono arcoconvinto che repetita iuvant.

Cazzaròle (La). E’ un tegame. Viene, evidentemente, dall’italiano casseruola. Mai che i miei carissimi concittadini, quando traducono dall’italiano in barese un termine lo ingentiliscano! Questa caratteristica, ancora una volta, è un segnale della rudezza dei meccanismi dialettali baresi. Rudezza che è presente in molte altre forme dialettali italiane. Il dialetto come si sa è lingua popolare, e, come tale, ha una sua sanguignità che, a differenza degli strati più nobili della società, non viene mascherata con ipocrisie o con eufemismi di vario genere. Quanto più si sale tanto più meccanismi codini, bigotti e ipocriti insistono sui meccanismi linguistici della società cosiddetta “più” civile. Da non confondere “società civile” con “società più civile”. La prima è quella alla quale tutti dovremmo tendere, la seconda è quella utilitaristica del perbenismo che maschera ben altri fatti.

Cazzavòne (U). Al plurale cazzavùni. Sono le lumache di terra. In tranese si chiamano “ciamarùchi”, in napoletano “maruzzèlle”,  in trevigiano “sciòss”. In quest’ultimo termine prego pronunciare “sc” facendo sentire le due consonanti come “scervellare”.

Càzze (U). Sostantivo maschile. Ha due significati ben precisi: "il càzzo" e "lo schiàccio".(Vedi cazzare).

Cazzecùmme (U).  E’ il capitombolo.

Cazzòne (U). Sostantivo maschile. Il significato è praticamente uguale su tutto il territorio italiano. Un cazzone è un cretino di proporzioni notevoli. Con in più una connotazione affettuosamente dispregiativa. I miei amici veneti utilizzano la sublime parola "mona". Qui si aprono voragini filologiche di rara finessa. Infatti, con il termine “mona” viene anche indicata la mona (la figa). Inquietante uso di un termine. Tornando al cazzone, inspiegabilmente a Bari vecchio uno spilungone, un uomo di alta statura, è definito cazzone. Solo in questo caso il termine potrebbe avere un valore positivo. Ma, a memoria d’uomo questi casi sono rarissimi.

Cchiùmme (U). Significa “piombo”. Far notare pesantemente nella pronunzia la doppia “cc”. Come molte parole baresi, si può pronunziare raddoppiando la c iniziale “cchiùmme” sia quando il termine è preceduto dall’articolo “u” che quando è preceduto dalla preposizione “de”. Ad esempio Càpe decchiùmme (vedi).

Ce. Significa "se"

Cebbànze (La). Sostantivo femminile. La cibànza, la cibànsa molto più elegantemente, è una tangente vera e propria. Viene dalla parola “cibo”. Termine in nome del quale si sono perpetrati i peggiori delitti. Insieme all’altro termine altrettanto micidiale che è “famiglia”. Rimando ai modi di dire dei cugini napoletani: “Tèngo famìglia” e “aìmma mangià tùtte quànte”.

Cecchelatère (La). Letteralmente significa “cioccolatièra”. Ma i baresi doc sanno bene che la cecchelatère è ben altro. E’ la ferrovia a scartamento ridotto Bari Barletta la cui stazione molto tempo fa si trovava a via Napoli. Era presa in giro per la sua lentezza e per la sua gran produzione di fumo.

Ceffonière (La). La ciffonnièra viene dal francese chiffon. E’ l’armadio importante, quello della camera da letto dove vengono conservati i vestiti buoni, magari in chiffon, perché no.

Cegghjià. Strana parola: vuol dire “germogliare”. U cìgghje è il germoglio che spunta da una patata quando resta troppo tempo in una dispensa. Viene usato ogni volta che qualunque cosa (anche nel campo erotico) generi qualche altra cosa. Una eiaculazione, per esempio, appartiene al questa categoria. Anche un foruncolo che generi del pus ha “cigliato”. La “c” iniziale va pronunziata dolce come la “c” di “cece”.

Cemenère (La). La ciminèra è la “ciminiera”. Vedi “Carta di Frangia”.

Cemmatòfreghe (U). Ecco un termine che appartiene al barese quasi arcaico. Significa “cinematografo”. Ma nessuno lo usa più. Adesso si direbbe “cìneme”. E’ un termine diventato obsoleto come, del resto, lo sta diventando “cinematografo”. Mentre è ancora vivo e vegeto l’aggettivo “cinematografico”.

Cemmerùte (U). E’ il “gobbo”. Donde “u ciùmme” che significa “la gobba”. Mangiarsi un piatto di spaghetti “cu ciùmme” “con la gobba”, significa che la porzione è parecchio abbondante. Gli spaghetti sono ben gonfi sul piatto. Una sciccheria. Lo stesso piatto abbondante, a Trani viene individuato come un piatto “con l’ombra”. Nel senso che la collinetta di spaghetti fa ombra sul tavolo.

Cenarùle (U). Pezzo di stoffa grezza, di quella usata per fare i materassi, che veniva stesa sui panni che dopo essere stati "stricati", ben sfregati cioè sull’asse per lavare, venivano riposti in un tino. Sul "cenarule" veniva sparsa della cenere e su questa versata acqua bollente, con dentro quarti di limoni galleggianti. Il tutto serviva per imbiancare e profumare lenzuola e biancheria. Altro che gli attuali sbiancanti. Il profumo che restava sulle lenzuola di bucato era assolutamente delizioso. Vedi “lessìa”.

Cèndre (La)/Cendròne (U). La cèndra è il “chiodo”. Oltre i dieci centimetri diventa cendròne.

Cengefà (A). Parola composta formata da tre termini “che” “ci” “fare”. Non viene mai usata da sola. E utilizzata nelle frasi tipo “Nòn tènghe nùdde a cengefà” “Non ho nulla a che spartire” (… con quella persona… con quella situazione).

Cenguàte. Significa “cioncàto”. Stroncato. Appartiene al lessico degli insulti. Uno che mette le mani dove non le deve mettere è apostrofato con la signorile frase “sànna cenguà le màne!” Che ti si stronchino le manine! Dicesi anche di persona claudicante, sempre in senso dispregiativo, ahimè.

Cepòdde (La). La cipòlla.

Chechè (U). Il chechè è uno “sciocco”. Potrebbe essere anche una persona vestita in modo molto vistoso. Insomma una persona azzimata. Esattamente come il tetè (vedi). Le “e” vanno pronunziate aperte. Esiste anche una seconda versione “quequè”. In questo caso le “e” vanno pronunciate strette. Niente male come suono. La pronunzia stretta e larga delle “e” si può anche invertire. Ho infatti ascoltato spesso le due versioni.

Chèchere (U). E’ un pugnetto dato in testa a qualcuno, usando le nocche delle dita. Non è letale ma è umiliante e doloroso. Esiste anche la versione con la “g” “chèghere”.
 
Checòzze (La). La cocòzza è la mite “zucchina”. Assume talora anche il significato di “testa”, in altre lande direbbero “zùcca”. Personalmente proverei anche a scrivere “kekòzze”. Ma non riesco ad osare tanto, anche se, scritta così, questa parola fa la sua bella figura.

Cheggherùzze (U). E’ la testa della baguette, del filoncino. Forse viene da “cocùzzolo”.

Chegnàme (La). Termine arcaico ed aulico. Purtroppo poco usato. Va scomparendo. È una nobilissima parola che indica il “gruppo c” (vedi). La differenza fra “chignàma” e “gruppo c” sta nel fatto che subito dopo aver fatto la doccia tutta l’apparecchiatura viene chiamata “gruppo c”, passate ventiquattr’ore, il suddetto “gruppo c” diventa chignama. A Venezia, con molta fantasia, viene indicato con la stranissima frase “pacchetto di lumini”. Insomma ragazzi, stiamo parlando dell’uccello e delle relative palle. Notare, anche in questo caso, che il simmetrico al femminile non esiste. La solita cultura ferocemente maschilista.

Chemmàtte. E’ un verbo e significa combattere. Non va inteso come combattimento all’interno di una guerra, ma come rapporto tumultuoso con una persona, che potrebbe anche essere un figlio o un amico rompipalle. Non è possibile che ogni mattina che devi andare a scuola “èa chemmàtte kettè”! Non è possibile che ogni mattina che (tu figlio mio) devi andare a scuola, “debbano passare minuti frenetici di rimproveri, di raccomandazioni, di consigli superflui!”. Insomma questo verbo presuppone un rapporto defatigante e conflittuale con un’altra persona, di qualunque sesso, di qualunque età. Se si ha rapporti di questo tipo con varie persone, la vita diventa un inferno. Da non augurare a nessuno. E’ una convivenza difficile insomma.

Chemmùne (U) (La). Al maschile significa “il Comune”, al femminile significa “la fognatura”. Non fate commenti sarcastici, è assolutamente vero. A dire la verità più che “fognatura”, all’epoca in cui questa parola  nacque la fognatura non esisteva, si trattava di una fossa “comune” dove  confluivano le acque sporche.

Chemplemjìende (Le). Nel dialetto barese ci sono anche delle delicate finezze (fortunatamente!). I “complimenti” sono le frivolezze che si offrono quando si va in visita. Le pastarelle, il rosolio, il limoncino, tutto rigorosamente fatto in casa.

Chenèsse (La). Termine usato fra gli specialisti dei fuochi d’artificio. Indica la serie di gran botti che precedono l’esplosione della “calcàssa” finale (vedi). Per estensione una chinessa è anche un gran cazzottone vibrato come si deve. Ci sono gran pugili che hanno perso il titolo e la faccia per fior di chinesse ricevute. Una chinessa è anche una robustissima scorreggia.  

Chenìgghjie (U). Sostantivo maschile. Significa letteralmente “coniglio”. Ma assume ben altri significati nei discorsi fra maschi intruppati nel branco. E’ il gagliardo sinonimo del "chichì". A differenza del chichì, che potrebbe addirittura navigare nei cieli dell’astrazione,  "u chenìgghjie" è fortemente caratterizzato dal peso. E' più aderente alla realtà, nel senso che viene sempre fatto seguire dal proprio peso espresso in chili o frazioni di chilo. Una ciccina che ha in mezzo alle gambe un coniglio di minimo mezzo chilo (non sto esagerando, non sto esagerando!) può tranquillamente partecipare alle finali di Miss Universo con eccellenti probabilità di successo. E’ assolutamente evidente che questo termine è nato molto prima delle attuali maliconiche tecniche depilatorie.

Chennùtte (Le). Le chennutte sono le prime vie respiratorie, che si seccano quando per un’intera giornata si grida dietro ai bambini, o quando, per un’intera mattinata, i fruttivendoli lanciano inviti ad alta voce per far acquistare la loro frutta nei mercati rionali. Sui mercati rionali a Bari si dovrebbe scrivere un libro. La baresità dei mercati rionali è proverbiale. Andrebbero visitati con attenzione nel periodo natalizio. Suoni,  colori e profumi da stordire.

Chenzà. Significa “condire”. Viene da concia. È stupefacente come a più di ottocento chilometri di distanza “conzà” “condito” (dal veneto conzàr ) e “chenzàte” anch’esso con lo stesso significato di “condito” (dal barese  conzare) abbiano lo stesso significato. Il verbo conzare potrebbe avere parentele con il verbo “acconciare”, che può benissimo essere inteso come preparazione ben fatta di qualcosa. Viene usato addirittura nelle innocue minacce che una madre può indirizzare al fantolino: mi raccomando, sennò “ti cònzo” io! Nel senso “ti concio per le feste”.

Cheppìne (U). E’ il “mestolo”. Ma significa anche “schiaffone”. Viene da coppino, coppo, corpo concavo. Con il coppo della mano. In italiano i “coppi” sono anche le tegole concave.

Chercuà. Verbo significa “coricare”. Donde “chercuàte” coricato. “Io mi coricai” “Jì me chercuàbbe” oppure  “Jì me ne scjièbbe a còlche” oppure “a còrche”, con la erre. Nelle murge, a Santeramo “chercuàte” si dice cluquàte”.

Chernùte (U) (La). Il “cornuto”. Si sono scritti centinaia di libri, film, commedie teatrali su questa bella figura. Chernùte riempie la bocca anche solo a pronunciarlo. Termine che ha sempre una carica notevolmente aggressiva. Suo sinonimo, più divertente da pronunciare è “schernacchiàte”. Preferisco la seconda versione con la “u” che suona molto meglio, “scurnacchiàte”.

Cherrèsce. Significa “correggere”, nel senso di far rigare dritto a qualcuno. Quando qualcuno esce fuori dai binari bisogna correggerlo, “s’ava cherrèsce”. Pronunziare la “e” stretta.

Chertjìedde (U). Il “coltello”. Anche qui come nella salzizza (vedi) c’è la regoletta della persistenza delle erre. Molti baresi, anche colti, certe volte, nell’empito della conversazione, dicono “cortello”. Non c’entra nulla con noi baresi, ma un onorevole meridionale, celebre per le sue pesantissime influenze dialettali, dal punto di vista delle persistenze e delle sonorità, un giorno disse in un’intervista alla televisione che lui era stato in “Aldo Atice”. Voleva dire, ahilui, Alto Adige naturalmente. Secondo me avrebbe dovuto dire Sud Tirolo, ma questo appartiene a un altro fumetto.

Chesì. Verbo. Significa “cucire”. Qui la coniugazione è assolutamente drammatica. Ci provo con l’indicativo. Jì còseche, tu cùse, jìdde jièdde còse, nù chesìme, vù chesìte, chìde còsene. Provate con il passato remoto e vi bloccherete certamente. E se scrivessimo kesì?

Chesùte. Participio passato di “chesì”. Significa, ovviamente, “cucito”.

Chetuà. Ancora una volta, per ricordarci le regolette di pronunzia, scriverò “ch’--- tuà” o, addirittura “k’--- tuà”. E’ un verbo che è contemporaneamente transitivo ed intransitivo. Significa “scuotere” oppure  “oscillare”. Nella Puglia murgiana diventa “chetelà”, “cutelà”. Provare a declinarlo. Dà un leggerissimo senso di vertigine.

Chevàzze (U). “Il covaccio”. La tana, il covo. Viene dal lessico dei cacciatori. Usato pesantemente anche come “nido d’amore”. Italianizzandolo si direbbe covazzo. Una curiosità, sapete come si dice “covazzo” in trevigiano? Si dice “coàt”. Sia “coàt” che “covàzzo” sono anche la tana delle lepri. In barese “fare il covàzzo” a qualcuna significa circuire una ciccina per poi portarsela in un luogo calduccio per poter poi insieme giocare teneramente e amorevolmente. Meglio di così! Fare il covazzo a qualcuna dunque, o anche a qualcuno. Va bene usato sia per le femminucce che per i maschietti. In questo caso finalmente esistono le pari opportunità.

Chezzàle (U) (La). Il cozzàlo è il “contadino”. Stranamente nel dialetto è usato in modo dispregiativo. Già dalla notte dei tempi la cultura metropolitana soffriva di strani complessi di inferiorità nei riguardi della cultura contadina. Per esorcizzare la quale si usava in modo sprezzante la qualifica di “contadino”. Da questo punto di vista nulla è cambiato. Il termine cozzàlo “forse” viene da “fave di cuìcce” che significa fave. In leccese i cozzali sono chiamati “pòppidi” dal latino “post oppidum” quelli che abitano fuori le mura della città, dopo la città. In napoletano vengono chiamati “cafùne e’ fòre”, in romanesco “taròcchi”,  “tarpàni”, “bùrini”, in veneto “quèi dèa campàgna” e “grèbani”. Dimenticavo di dire che a Lecce, non so bene perché, le cacate dei poppidi pare siano di dimensioni ciclopiche.

Chezzètte (U). Il cozzetto è la “nuca”.

Chiachjìedde (U). Parola comune anche al dialetto napoletano, “chiachièllo”. Indica una persona da niente e inaffidabile. Un quacquaracquà come scrisse il caro magnifico Sciascia.

Chiacùne(U). Il chiacòne è il fico secco per antonomasia. Stranamente questo termine ha altri usi, che con i fichi secchi non hanno nulla a che fare. Un gran bel chiacòne (come al solito sempre al maschile) è una strafiga da sballo. Con il nome di banda dei chiacòni vengono generalmente chiamate invece delle improbabili bande popolari che in maniera raffazzonata e antimusicale vanno girellando qua e là per le strade durante le sagre dei paesi. La banda dei chiacòni è generalmente formata da un flicorno, un tromboncino e un tamburo rullante suonato esclusivamente con le bacchette. Ci sono della piccole variazioni e aggiunte, ma il risultato è istèss.

Chiamendà. Significa “guardare”. Infinito. L’imperativo è “chiamjìnde”. La prima persona del passato remoto è “chiamendàbbe” oppure “chiamendjìbbe”. Nella parte murgiana della Puglia chiamendà diventa “tremènde” (sto parlando dell’infinito, anche qui vale la regola della “e” muta). Soltanto sui verbi nel dialetto barese e nei moltissimi dialetti pugliesi ci sarebbe da scrivere una Treccani. Pregasi notare che esiste anche la forma “acchiamendà”. Le giunture fra mattoni, in italiano si chiamano “comenti”, in barese, stranamente, si traducono chiamjìende (vedi).

Chiamjìende (Le). Oltre a significare “guàrda” (senza l’articolo) i chiamèndi (con l’articolo) sono le giunture fra pietra e pietra, che in italiano si chiamano “comenti”.
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DIZIONARIO DI TERMINI BARESI SECONDO FRANZ FALANGA CONSISTENTE IN OTTO PARTI Empty DIZIONARIO DI TERMINI BARESI SECONDO FRANZ FALANGA TERZAPARTE

Messaggio  Admin Lun Ago 11, 2014 6:50 pm

Chiangòne(U). “U chiangòne” è una pietra bella grossa. Per estensione è definito chiangòne una persona pesante e noiosa. Gli amici che toscaneggiano, ormai li riconosciamo a prima botta, traducono “Piangòne”

Chianjìedde (Le). Sono gli “zoccoli”. Nei pomeriggi di controra estiva, quando si sonnecchia, il silenzio pomeridiano in certi piccoli centri storici pugliesi sul mare è rotto dal rumore degli zoccoli strascicati sulla pavimentazione stradale da persone di tutte le età che ritornano lentamente e stancamente a casa dal mare. Con l’asciugamani sulle spalle,  con la canottiera sudata, con l’addome leggermente pèndulo e con il desiderio di sbracarsi sul letto nella stanza con i serramenti a vetri aperti e con le persiane verdi chiuse. Si garantisce un dopo bagno delizioso!

Chiantèdde (La). Sostantivo femminile. Letteralmente significa “piccola piantina”. In barese, invece, significa scopatina leggera, rapida e veloce; stiamo parlando della sveltina ragazzi! Difficilmente si potrebbe  fare una chiantèdda con una mangiatrice di uomini, lei non lo permetterebbe. La chiantèdda viene generalmente praticata in pochi minuti nel sottoscala. Quando tutto il gioco ha bisogno del supporto logistico del letto, del calduccio, delle carezze e di un lungo periodo di tempo, allora il termine chiantèdda viene giustamente sostituito da quello molto più nobile che è “frecàta”, mi raccomando con la “c” di Como. Con la “g” di Genova ha ben altri significati, e, a pensarci bene, non esiste nel dialetto barese. Nel senso che si è tornati nel lessico italiano. Fatto che in questo momento non ci compete.

Chiàppe (U). Appartiene alle mode temporanee del linguaggio. Significa “cappio”. Una cinquantina di anni fa, per un certo periodo di tempo era in uso l’espressione/tormentone “fàtte nu chiàppe” “fatti un cappio”, da solo. In Lombardia si diceva “còppet”, “accòppati”. Fra gli umoristi dell’epoca si diceva “fatti un gancino” . Giova ricordare che nei bar era a quei tempi di gran moda prendersi un aperitivo Gancia, che veniva chiamato per l’appunto gancino. Lo so, l’avete capito adesso. Il giuoco di parole.

Chiàveche.Chiavechjìedde. Chiavecòne (U). Tre variazioni sul tema. Il chiàvico (niente a che vedere con le chiaviche) è il briccone, il simpatico monellaccio intelligente e anche saggio utilizzatore della propria furberia. Il ragazzaccio in gamba. Quello che ci sa fare con le donne, con le avversità della vita, che sa anche commuoversi al momento giusto, colui al quale difficilmente gli si possono schiacciare le noci in testa. L’abilissimo politico con la “P” maiuscola. Colui che riesce a fare cose egregie. Chessò, Cristoforo Colombo dev’essere stato un bel pezzo di chiàvico. Il chiavichièddo, ovviamente, è parola appannaggio dei chiàvici in tenera età. Stranamente usato al femminile significa ben altro. Sentirsi una chiàvica significa sentirsi a pezzi, depresso, demotivato, insomma significa sentirsi ai piedi di Cristo. Il contrario di “chiàvico” è “loffiantìno” (vedi) o “loffiante”.
Già che siamo nell’argomento diminutivo accrescitivo e quant’altro, mi piace ricordare che nel Veneto l’estate si dice “istà” mentre  l’estate di San Martino (di novembre) che è fuori stagione ed è limitata a pochi giorni, anziché chiamarse “istà de San Martin”, si chiama “istaèa de san Martin” e cioè “estatìna di San Martino”. Una finezza che pochi conoscono.

Chiàzze (La). La chiàzze, mi raccomando la e muta finale, è la “piazza”. In barese però a questo termine si dà un significato leggermente diverso. Significa infatti il mercato rionale di frutta e verdura e pesce. A Bari c’è lunga tradizione di mercati rionali. Io abitavo in una gloriosa via, che si chiama via Celentano, dove tanto tempo fa c’era un fiorentissimo mercato rionale. Questi mercati andrebbero visitati specialmente nel giorno della vigilia di Natale.

Chichì (U). Sostantivo maschile. Signori, togliamoci il cappello! Siamo in presenza della parte più deliziosa, più intrigante, più entusiasmante, della ciccina. Se fossi una persona volgare direi che siamo qui riuniti in presenza della figa. Anche qui però, come in “cicì” (vedi),  il termine “chichì” viene riferito alle ragazze in fiore; quando poi la ragazza diventa una donna oltre i trent’anni, allora viene usato il gagliardo termine “u pecciòne”.  

Chièche (Le). Letteralmente significa “pieghe”. Ma non stiamo parlando qui delle banali pieghe di una stoffa. La parola denota ben altro. Indica le pieghe che si immaginano esistano in uno stomaco vuoto, vuoto desolatamente come un sacco. Per cui la bella espressione “si è tolte le pieghe” “s’ha levàte le chièche” significa che qualcuno finalmente ha fatto un pranzo luculliano dopo parecchi giorni di astinenza, non importa se per dieta o per povertà. Essendo un detto particolarmente avanzato negli anni, immaginiamo che la dieta in questo caso non c’entri un cazzo. C’entra certamente la povertà.  

Chièssie (La). Significa “chiesa”. Italianizzata suona “chièssia”. Facendo sentire in maniera marcata le due esse e poco la “a” finale.

Chitèbbìve. E’ una delicata esclamazione, delicata nel senso che non appartiene alla grassa volgarità. Significa “all’anima di chi ti è vivo”. Potremmo addirittura tradurre con “accidenti!”

Chitèstravìve. E’ un delicato insulto leggermente meno delicato del precedente, delicato nel senso che non appartiene alla grassa volgarità. Significa “all’anima di chi ti è stravìvo”. Potremmo addirittura tradurre con ”all’anima(ccia) tua!”.

Chjìne. Al femminile chjièna. Significa “pieno”. Ripetuto due volte è usato nell’insulto: “Cùde chjìne chjìne” o “chèda chjièna chjièna” Significano esattamente “quel pieno di merda” e “quella gran puttana”. Se al maschile l’insulto va espresso integralmente, allora, con eleganza raffinatissima si sostituisce la volgare parola “merda” alla più raffinata “puppù”. A proposito di “puppù” mi fa ridere parecchio il tentativo di certi personaggi televisivi che, per non scadere (secondo loro) nella volgarità in certe pubblicità di pannolini e quant’altro, dicono scioccamente “pupù”. Tornando al dialetto barese, si sentirà esclamare dunque “Cùde chjìne chjìne de puppù”. A scelta, puppù può essere sostituita da “sìvo” (vedi “nzevùso”, oppure “sìvo”). Il suo omologo in siciliano è “fetùso”. Nella Murgia pugliese si dice “puzzolènte”. Comunque vada, questi aggettivi implicano sempre un cattivo odore. Niente male dal punto di vista dell’offesa.

Chiùrme. Cornuto, cornutissimo dalla parte della mamma, della moglie, delle figlie insomma di tutto il parentado prossimo o lontano immaginabile. Peggio di così.
C’è un’altra corrente di pensiero che mi dice che Il “chiurmo” è il gran figlio di zoccola, furbacchione oltre che intelligente, il vitazzuolo insomma. Non ne sono molto convinto. Propendo per la prima ipotesi. Le fonti di questa prima ipotesi sono superattendibili. Anche la seconda fonte peraltro è di mia fiducia, ma è più ingenua e meno malandrina della prima. Tenere sempre a mente che lo storico deve tenere in particolare cura le sue fonti, specialmente quando sono malandrine.

Chrecchère (La). Un grappolo di ganci di ferro, saldati insieme in tutte le direzioni. Legato a una lunga fune si calava nel pozzo e si “arava” il fondo, per poter agganciare l’eventuale secchio che si era staccato dalla propria fune.

Chrestiàne (U). Sostantivo maschile. Per la pronunzia esatta, bisognerebbe mettere due accenti contemporaneamente sull’ultima “i” e sulla “a” seguente.  Significa letteralmente “cristiano”. Con il termine cristiani, solo a Bari e in alcune zone della Puglia, si indicano le persone, la gente, la folla, le moltitudini. Penso che i primi pellegrini, le prime moltitudini di pellegrini che arrivavano a Bari per venerare le ossa di San Nicola abbiano dato origine a questo particolare uso del termine.

Cì. (Pronome relativo). Significa “chi”.

Ciacià. Verbo. Ciaciare significa “parlare in continuazione” di tutto, su tutto. Andrebbe bene anche “spettegolare”.

Cialdèdde (La). Il cibo dei poveri. In romanesco si direbbe “panzanella”. La cialdella è pane raffermo bagnato, condito con una croce di olio, un pizzico di sale e pomodori strazzati sopra a volontà. A dire la verità un’altra croce d’olio andrebbe anche dopo, sui pomodori appena strazzati. Piatto freschissimo di estate e di grande fascinazione, sia dal punto di vista dei colori che da quello del sapore. E pensare che i pescatori in mare, nei tempi ormai andati bagnavano il pane raffermo in mare, e poi lo condivano!

Ciambesciàte. Aggettivo, significa “raschiato, graffiato”. Generalmente si viene ciambesciàti da una gatta o da una ciccina.

Ciambòtte (U). Il ciambòtto è un delizioso sughino leggero confezionato con i pomodori e con pesci proletari. In questo sughetto si mettono a cuocere per breve tempo vari tipi di pesce piccolo, caratterizzati da moltissime spine ma con intenso profumo di mare. Tutte questa varie qualità di pesce sono anch’esse chiamate “ciambòtte”. Questa nobile parola indica anche una situazione che si è via via ingarbugliata sempre di più fino a diventare, appunto, un ciambòtto. Tornando ai pesci che formano il ciambòtto vi elenco un po’ di nomi: u scriè, u cazzedurrè, u carciaràte noto anche con il nome di fafòdde, la cazzaròle, la verdèscke, la vavòse, u càne, u scòrfene, u sparasàlze, la pèrchjie, la rondinèlle, la ràscia.
Già che ci sono fornisco altri tipi di pesce, questi molto più nobili. Cjìffe, vòpe, sàlpe, cazzaròle, scòlfe, spìghele, lacjìerte, scrùmme, alìsce, sàrde, occhiàte, sckùme de màre, trègghjie, lùzze, lutrìne, capagnòra, zanghètte, ciòle de màre, lùzze, ttùnne, capetòne, grènghe, occhiàte, auràta, trègghjie, agùglie, alljìeve, magnòtte, pùlpe, pùlpe mesckuàte, sèccie, salìppece, mazzacùgne, cecàle, cecàle grèche, gambarjìedde, pelòse, còzze, còzze patèlle, vòngole, còzze pelòse, taratùffe, mùsce, cuèccie, canneljìcchie, nòscia biànghe, nòscia ròsse, canestrèlle, rìzze. Niente male eh?    

Ciàppe (La). E’ il bottoncino metallico automatico, usato generalmente nelle camicette. Ma, stranamente, significa anche “sigla, firma” su documenti quali che siano. “Mjìette dò na ciàppe”, “metti qui una firma”.

Cicì (U).Sostantivo maschile. Vedi “Cazzo”. Cicì viene usato generalmente per indicare quello dei bambini, mentre quello dei ragazzini viene chiamato “u acjìedde”, per poi arrivare alla “ciòla” degli uomini fatti. Ma la sostanza, appunto, è la stessa. Comunque il cicì è soltanto quello dei bambini, nessun uomo fatto chiamerebbe cicì il suo armamentario.

Cimederàpe (Le). Sostantivo femminile. Indica una squisita verdura che può essere mangiata assoluta  (da sola) lessa o stufata. Oppure accompagnata dalle orecchiette (strascinate) che a Trani, stranamente, vengono chiamate “cappelletti”. Molte ragazze di Bari vecchio si sono fatte la dote grazie alle tonnellate di orecchiette fatte a mano dalle nonne, dalle madri e dalle zie. Contemporaneamente questa parola viene usata unitamente al verbo “tirare”. “Tirare le cimedirape” a qualcuno significa che si è riusciti, con subdole arti, a far svelare a qualcuno qualche segreto. Viene usato generalmente dai poliziotti quando, tirandogli le cimedirape, riescono a far cantare suo malgrado qualche indiziato di reato. Restando nel campo del lessico
dei malavitosi, l’informatore/delatore (l’infame) viene comunemente indicato con le locuzioni “U uècchjie scesciàte “ e “U uècchjie d’argjìente “.Occhio scisciàto oppure occhio d’argènto”. Tirare le cimedirape a qualcuno è un esercizio di estrema finessa e dovrebbe essere insegnato nelle facoltà di scienze politiche.

Cìnghe. Significa “cinque”. Mentre “la cìnghe” con l’articolo “la” davanti, significa anche schiaffo.

Ciòle (La). Sostantivo femminile. Termine diretto per indicare il cazzo (vedi), (vedi anche “cicì”). È anche utilizzato, unitamente alla parola “quintale”. Un quintale di ciole indica un gruppo di ragazzi appena laureati a Oxford. Quelli che vengono dal classico usano anche il termine kìola. Poco usato in verità. Questo antico e nobile termine è spesso accompagnato da un aggettivo. Per esempio “ciòla mòrte”,  “ciòla mequàte”, “ciola mbriàche”. “Mòrte” ovviamente significa “morta”, “mequàte” (vedi) significa “infracidita”, “mbriàche” (vedi) significa “ubriaca”. In quest’ultimo caso si parla di un accadimento in campo sportivo barese. Uno schermidore del Circolo Barion di tantissimi anni fa, in occasione di una sua performance poco ortodossa, fu spogliato con veemenza dai suoi compagni di gara che gli versarono sull’uccello una intera bottiglia di ottimo vino rosso. Donde il nomignolo che gli è rimasto incollato addosso per l’eternità. Se G. leggerà queste note se lo ricorderà con piacere. Almeno così è nei nostri voti.

Ciolètte. Sostantivo femminile. Usato senza l’articolo. Il massimo del disprezzo. Viene chiamato cioletta un tipo scadente e fasullo, poco affidabile. Soprannome di un amico di Paolo.

Ciolòne (U). Sostantivo maschile. Vedi cazzone. In più, nel caso in oggetto, viene indicata l'ineluttabilita della condizione. Si nasce ciolòni e si muore ciolòni.

Cìtte. Significa “zitto” sia al maschile che al femminile. Quando si dice che qualcuno/a ha fatto le cose sue  “cìtte cìtte”, significa che: “Ma guarda guarda, chi se lo sarebbe mai aspettato? Senza dir nulla a nessuno è riuscito/a a….fare, pensare, dire una qualsiasi cosa”. Mi piace anche pensare che venga dal latino “tacitus” (ta)citus. Una caratteristica di questa parola è che potrebbe benissimo scriversi come si pronunzia “citt”. La stessa cosa potrebbe accadere a “stàtt cìtt” “stà zitto”. “Cìtte cìtte mmènze àlla chiazze” “zìtti zìtti in mezzo al mercato” è, come dire, il segreto di Pulcinella.

Ciùcce (U). Il ciùccio è “l’asino”. La bellezza del ciùccio è la gioventù. Una persona che ha la bellezza del ciùccio sta ad indicare una persona bruttina, bassa, antipatica, magra o grassottella non importa, che, come unica sua caratteristica positiva ha dalla sua soltanto la gioventù. La bellezza del ciùccio appunto. Sempre restando nel tema della bellezza, se una persona che da lontano può apparire bella, ma avvicinandosi piano piano si appalesa lentamente bruttina, si dice che “ha una bella lontananza”.

Cìve (U). Sostantivo maschile. Significa “cibo, pastura”. Il cìvo va dato ai pesci, alle donne, agli uomini, ai creduloni (vedi cazzòni e ciolòni). Esemplificando, prima di iniziare a pescare in un posto, lo si pastura. Così facendo si cìvano i pesci, si dà loro insomma un'esca senza amo in modo da abituarli alla non pericolosità dell'esca mettendo così la preda in condizioni di avventarsi sull'esca seguente, questa -invece- mortalmente armata con l'amo. Guardarsi da quelli che sanno tirarti le cimediràpe (vedi) e sanno civàrti a dovere.

Cjìende pèzze (La). La cento pezze è la parte migliore della trippa. Per intenderci, quella parte che alla lontana somiglia a un libro, con un dorso e con molti fogli. Nel trevigiano assume la medesima forma parlata e cioè “cent peth”. Questa informazione me l’ha passata Mièt un personaggio straordinario della pedemontana che, nel bagagliaio della sua auto, usa le maniche del suo giubbotto come contenitori di bottiglie di vino. Tanto tempo fa il veterinario del paese avendo subodorato che l’amico avesse macellato fuori tempo e fuori regole un maiale, gli chiese: “e allora, ti ga copà un porthel?” La risposta pronta fu “No, ghe go cavà un salàm per vèdar se ièra bòn”. E allora, hai fatto fuori un maiale? No gli ho solo cavato un salame per vedere se era buono, se era maturo. Fatto verissimo.

Collèggie (U). Con rara finezza il collegio sta ad indicare il “carcere”. E’ molto fine sentir dire: “E tuo marito dov’è adesso?”  “Sta in collegio”. A proposito di collegio, tanti anni fa una filovia che si fermava davanti al carcere, sulla via che porta a Carbonara, mi pare la filovia contrassegnata con il vecchio numero quattro,  fu luogo di una gagliarda rivolta delle mogli. Mogli che, essendo domenica, stavano portando ai rispettivi mariti, momentaneamente ospiti del repubblicano collegio, dei gaudeani ingarzati (vedi) alla morte di polpettine ed ogni altro ben di Dio. Mentre la filovia era in movimento, uno sconsiderato le attraversò la strada, costringendo l’autista a fare una brusca frenata. Brusca frenata che mise in difficoltà il precario equilibrio delle mogli cariche di gaudeani, borse e quant’altro. Le invettive anziché essere indirizzate allo sconsiderato attraversatore, furono indirizzate invece all’autista. Fra le tante troneggiò la seguente: “Mmòcca a chi t’è mùerte e stramùerte attè e a ci t’à mìse u manùbbvie mmàne!”, imprecazione colorita dove si indirizzava un devoto pensiero ai defunti dell’autista e, per simpatia, anche ai defunti di chi aveva messo per la prima volta il “manubvio” in mano all’autista. E’ lecito pensare all’ingegnere che aveva dato ufficialmente la patente automobilistica. Notare la grande finezza delle evve moscia. A Bavi vecchio ci sono molte pevsone bionde con gli occhi azzuvvi e con la evve moscia. I novmanni non sono passati invano. I bavesi purosangue, i bavivecchiani vevi, sono un condensato di vavie etnie, fatto questo che ha povtato ad aveve delle intelligenze squisite e gioventù femminile bellissima con gli occhi neri e i capelli biondi. E’ stovia veva.

Contendèzza (La). Termine splendido per la sua stringatissima sintesi. Indica il sesso al femminile. Il gran porto che ti mette al riparo da ogni tempesta, che ti accoglie al tepore dell’ultimo rifugio. E’ assolutamente importante far notare come questo termine sia stato inaugurato dalle mogli, sia stato coniato dalle donne, che sapevano e sanno il fatto loro. Usatissimo dalle donne di Bari vecchio, per nulla usato dagli uomini che molto più prosaicamente usano altre definizioni. Fra le tante definizioni date dai maschietti, ricordiamo le più spiritose e le più emblematiche. Il picciòne, il chichì, la pelòsa, la ndàcca. Poi ci sono altre due accezioni che trovo tristi e per nulla gagliarde. Uno è il termine abusatissimo “fica“ mutuato da un italiano volgare (nel senso della volgarità), l’altro è il termine “natura” che viene usato da certe donne che pensano così di utilizzare un termine mutuato erroneamente dalla medicina. Tanto tempo fa è stata vista una donna che ndèrre alla lànze (vedi), in una crisi di gelosia con il marito pescatore, salutava l’amato coniuge che si allontanava con la barca, urlandogli sul maestrale che si stava rafforzando che la vera “contentezza” poteva ottenerla solo da lei. E mentre affidava le sue parole al fresco vento di maestrale, si batteva teneramente la manina sulla contentezza, indicando cioè l’oggetto del desiderio.  Da sopra il vestito naturalmente.
A conclusione di questo brevissimo dibattito ritengo che la parola contentezza sia assolutamente sublime e la propongo anche per le occasioni ufficiali, ad esempio nelle visite dei capi di stato stranieri.

Conzapìatti (U). Mi raccomando mettere l’accento sulla penultima “i”. Significa “acconcia piatti”. Mestiere antichissimo definitivamente scomparso da quasi cinquant’anni. Il conzapìatti era un richiestissimo artigiano che girava per le contrade riparando i grandi piatti di terracotta o ceramica che si rompevano. Questi piatti erano generalmente quelli che, colmi di maccheroni fumanti, venivano messi al centro della tavola permettendo così ad ognuno di servirsi. L’attrezzo usato dai conzapìatti era un trapano preistorico, una meraviglia della prototecnologia. Consisteva in un bastone cilindrico (generalmente un pezzo di manico di scopa) della lunghezza di circa cinquanta sessanta centimetri. Perpendicolarmente a questo bastone era infilata, in modo che potesse andare su e giù molto agevolmente, una stecca di legno della larghezza di circa sei/otto centimetri e lunga sui cinquanta centimetri anch’essa.
Le due estremità della stecca erano connesse tramite due spaghi ad una estremità del bastone cilindrico formando così un triangolo. Dall’altra estremità del nostro bastone, ben fissato, c’era una specie di grosso cono in legno duro e imbottito di piombo (per appesantirlo e per equilibrarlo quasi fosse una ruota d’auto dei giorni nostri) con il vertice verso il basso, vertice nel quale era infissa una rozza punta da trapano. Per riparare il piatto rotto, il conzapìatti faceva combaciare le parti del piatto  e tracciava ai lati della fessura due punti, uno per lato, ogni due o tre centimetri. Una volta segnati i punti dove eseguire i buchi, iniziava a perforare con il trapano di cui ho parlato. Arrotolava i due cordini intorno al bastone cilindrico orizzontale, facendo così salire verso l’estremità superiore la stecca con il buco infilata nel bastone medesimo, e con un movimento elegantissimo di va e vieni dall’alto verso il basso  e viceversa, costringeva la punta a ruotare prima in senso orario e poi in senso antiorario. Il cono/mandrino funzionava da volano,  da regolatore di velocità e contemporaneamente, col proprio, peso imprimeva alla punta anche l’avanzamento nella terracotta. Una volta che tutti i fori erano stati praticati, si cucivano insieme le parti del piatto con una cucitura molto stretta di fil di ferro. Terminata la cucitura, veniva spalmato su questi punti,  del cemento a presa rapida che bloccava così definitivamente le due parti del piatto, che veniva quindi riutilizzato per molto tempo ancora. Questo mestiere è scomparso definitivamente. Il trapano così congegnato aveva origini antichissime. Chi dovesse trovarne uno, sappia che ha trovato un oggetto tecnologico di grande nobiltà.

Còrrue (La). E’ la “carruba”, il durissimo frutto del carrubo. Molti della mia generazione si sono sfamati durante la guerra con questi durissimi frutti, che, in partenza, erano destinati ai cavalli.

Còsce. Bella parola. Pronunziata con la o aperta, significa le cosce delle donne. Ben altro significato prende questo termine quando è pronunziato con la o stretta e con la medesima “o” lievemente trascinata. In questo secondo caso  significa “cuocere”. Esempio assolutamente emblematico di come le vocali aperte o chiuse càmbino notevolmente il significato di un termine.

Còzze (La). Oltre al mollusco che tutti conosciamo, la cozza in barese indica una donna vistosamente piacente, sui trent’anni, che veste in modo appariscente, tendente al volgarotto che viaggia sul filo della spregiudicatezza. Se a tutte queste caratteristiche si aggiunge anche una buona dose di trasgressività, allora siamo in presenza della classica “còzza chièna” che significa “cozza piena”.  

Crà. Significa “domani”. E già che ci siamo, ecco le altre indicazioni di tempo: “dopodomani” si dice “pescrà”, dopodopodomani si dice “pescrìdd” e dopo dopodopodopodomani si dice “pescrùdd”. Ne discende che “oggi” -è facilissimo- si dice “jòsce”, evitando ovviamente di pronunziare la “e” finale e pronunziando “sc” dolce come scena. Crà viene dal latino cras, e pescrà da post cras. Ieri si traduce “ajìere”, l’altro ieri diventa “nestèrze”, il giorno prima dell’altro ieri diventa “dìa tèrze”.
Ecco qui, vi presento tutta la famiglia:
dìa tèrze
nestèrze
ajìere
jòsce…….oggi
crà
pescrà
pescrìdd
pescrùdd

Crepàzze (La). La crepazza è una brutta scivolata. Quasi sempre si allude alle cadute fatte in casa. Le case dei barivecchiani sono caratterizzate da una pulizia estrema. I baresi doc potranno avere miriadi di difetti, ma in quanto a pulizia sono assolutamente virtuosi. Sui pavimenti lucidi e pulitissimi della case di Bari vecchio si può mangiare. Sono molto fiero di questo.

Criapòpole (U). Lo dice la parola stessa. Il creapòpoli è l’organo maschile senza nessun dubbio. Un fatto molto interessante è che nella Marca trevigiana, nella parte nord, ai confini con la provincia di Belluno, l’uccello è chiamato anche qui creapopoli.

Criatùre (La) (U). La creatura, il bambino o la bambina appena nati.

Cròscke (La). La croscka è il mattone portante della società barese. E’ il luogo dove nascono amicizie e inimicizie profonde, dove nascono amori straordinari, dove si consumano intere esistenze. Quasi più importante della famiglia. E’ intraducibile. Per comodità esplicativa  tradurrei questo termine con la parola ”comitiva”. Potrei anche tradurre questa gagliarda parola con “gruppo”, con  “tribù”, ma non renderei un gran favore a questa istituzione fondamentale della società barese che è soprattutto fondata sulla complicità fra i propri componenti.

Cuà. Verbo. Significa “colare, gocciolare”. Terza persona singolare dell’indicativo è “cuèsce”. Che però può diventare anche infinito, per esempio “l’acque stà a cuésce”

Cucùcche (U). Appartiene al lessico familiare. E’ un modo affettuoso per indicare l’uovo ai bambini.

Cùde. “Quello”. Al femminile “chède” oppure “chèda” quando è seguito da un sostantivo, es. “chèda seggetèdde”. Quella piccola sedia.

Cùgghjie (La). E’ “l’ernia”. Nel Veneto, dalle parti di Cologna Veneta direbbero “gà il coiòn grosso”.

Cùle ammandellìne (U).  Notevole tipologia di culo femminile con il centro di gravità leggermente ribassato, tipo pera spadone. Oppure come la cassa armonica del mandolino, tenendo quest’ultimo appeso per il manico.

Culappìse (Le). Aggettivo qualificativo maschile. Nulla da fare, era l'unico termine con il quale venivano indicati i baresi sfollati a Valenzano durante la seconda Guerra mondiale. Così come quelli della città venivano chiamati “giallètti” sull'altopiano di Asiago (per via del colorito pallido del viso), così (culappèsi)  venivano indicati i cittadini baresi dagli abitanti di Valenzano, ridente paese a sud di Bari. Il perché di questa denominazione è avvolto nel mistero.

Cùlappòppe (U). Bellissimo culo femminile con il centro di gravità coincidente con il proprio centro geometrico. Sue caratteristiche sono: l’essere alto e il protendersi imperiosamente verso l’esterno. Una leggerissima variante è “culappezzùte”. Sono culi molto rari. La rarità è ahimè dovuta alle assurde diete che stanno distruggendo l’opulenza delle nostre ciccine. Al riguardo esiste il raffinato e signorile proverbio barese che così recita: “chi culo protende cazzo pretende”. Sempre maschilisti questi proverbi! Ma tornando al “culo (fatto) a poppa” possiamo azzardare l’ipotesi che questo termine sia nato quando le navi molto tempo prima che nascessero le macchine a vapore, avevano il castello di poppa molto alto sul livello del mare e molto prominente. L’ipotesi, anche se assolutamente fantasiosa, è suggestiva. Non dimentichiamoci che Bari vecchio, tutto sommato, malgrado la recente assurda circonvallazione eseguita negli anni trenta durante il fascismo,  è pur sempre nata e vissuta sul mare. Se poi facciamo un salto sulle Murge noteremo che “culappòppe” dicesi anche “cule appulzenàte”. Una qualche assonanza è facile individuarla anche in questo termine murgiano. Già che stiamo parlando di mare, permettetemi una piccola divagazione politica. In occasione della costruzione della circonvallazione che subì Bari vecchio negli anni trenta del secolo scorso, durante il famigerato ventennio, ci fu un deliberato e consapevolissimo disegno di dequalificazione della straordinaria classe operaia che esisteva a Bari, da moltissimi anni. Oltre al fatto di essere l’unico esempio al mondo di centro storico sul mare tirato in secco brutalmente, la costruzione della circonvallazione che girava tutt’intorno al centro storico, costituì un classico esempio di come dequalificare scientemente un’intera classe operaia. Ci fu sì parecchio lavoro per moltissimi operai disoccupati che provenivano dalle file degli operai qualificati che si trovavano senza lavoro per la lenta scomparsa delle ditte straniere che abbandonavano il territorio, ma, contemporaneamente, tutto questo numero di operai qualificati fu messo a spaccar pietre per la preparazione dei vari strati con cui è costruita una strada. Nacquero così centinaia di “cazzapète” “frantumatori di pietre” che tutti i giorni, con qualunque tempo, per diversi anni, frantumarono a mano grossi macigni in tante pietre della grandezza di una patata, pietre che servivano, appunto, per ricoprire lo strato superiore dell’intera massicciata stradale. Frantumare pietre, stando seduti all’aperto con il sole caldo e con il vento e la pioggia freddi, su un mucchio di pietre aguzze ed affilate come coltelli,  brandendo in una mano un un pesante martello di oltre tre o quattro chili e nell’altra una grossa pietra che bisognava spaccare in molte altre più piccole, non è come riparare motori o saldare caldaie. E’ una terribile e massacrante maniera di trascorrere parte dell’esistenza, quasi si fosse ai lavori forzati. La sera, per i cazzapete, riusciva difficile pensare, ragionare, sui fatti della vita. L’obnubilamento delle coscienze della classe operaia stava procedendo a grandi passi. E’ bene che queste cose siano conosciute dalle nuove generazioni, nuove generazioni alle quali, così come ai cazzapète baresi di allora, si sta ora cancellando nelle loro menti lentamente e con pervicacia il senso della storia. Una analoga descrizione degli schiacciapietre la ritroverete in altra parte di questo libro. Non è un sintomo di sciatteria, ho preferito riscriverla perché sono arciconvinto che repetita iuvant. E poi perché vorrei che i nostri “cazzapète” non venissero mai dimenticati.

Cùndue. Imperativo del verbo “chendà” che significa contare. “Cùndue” sta per “raccontalo ad altri, a me non la dai a bere”.

Cùsse. “Questo”. Al femminile “chesse”. Durante una discussione animata, “cusse” può indicare anche il proprio sesso. “Attacchete accusse!” che molto soavemente significa “attaccati a questo berefatto” (vedi).

Damòdanànze. Damò. Ha solennità di promessa o, nei casi peggiori, di minaccia. Significa “Da questo momento……. “ I sottintesi si sprecano.

Dannadènze. E’ un’esortazione. Significa “non dargli retta”. Non dargli udienza. E’ importante l’accento sulla ultima “e”.

Ddà. Significa “là”. Ho esagerato scrivendo la doppia “d” ma l’ho fatto per evidenziare che la prima consonante va fatta sentire con molta decisione. Se però questa parola è pronunciata da una persona che vuole marcatamente far sentire la sua baresità, allora, per incanto, la doppia “d” scompare e l’unica rimasta viene fortemente strascicata. Lo stesso dicasi per “ddò”.  

Ddò. Significa “qui”. Anche qui vale la regoletta della doppia “d”. La “d” doppia però si perde quando è preceduta da “da”. “O da dò” che sta per “o da qui” (o da dà che sta per “o da lì”). Si dovrebbe perciò scrivere “dò”, ma allora si correrebbe il rischio di confondere questo termine con “dò” che significa “due” e che va pronunciato senza troppo insistere sulla “d” iniziale.

Deasìlvia. Nel Dies Irae c’è un verso in cui è presente “Dies Illa” donde “Deasìlvia”. Nelle litanie religiose, quasi mai il latino viene pronunciato regolarmente. Questo è un classico esempio.

Dèdàgghjie. Si legge facendo sentire i due accenti. Significa “dà di aglio” (puzza di aglio). Una persona dà di aglio quando è spocchiosa e inutilmente superba, o quando comincia a diventare antipatica su un certo argomento. Le persone che danno di aglio vanno evitate come la peste.

Defrìscke. Significa “rinfresca”. In realtà viene usato nella frase “ Defrìscke l’àneme dù priatòrie” che vuol dire “benedette siano le anime del purgatorio”.

Derrùtteppìpete. L’accento sulla i di pìpete. Significa “rutti e scorregge”. Come dire “andò a finire a tarallucci e vino”. Nel nostro caso ha una connotazione più vigorosa e sonora. Generalmente i pranzi di personaggi non esattamente laureati a Cambridge, finiscono tutti a derrùtte e pìpete. Tutti i salmi finiscono in gloria. Notare anche il bel ritmo da rapper che è contenuto nell’espressione, sia che la si scriva con i dovuti spazi, sia che la si scriva di seguito.

Dèsce. Pronunciato con la prima e stretta e un poco strascicata, significa “dieci”.

Descegnàte. Dicesi discignàta una donna che non è mai in ordine, che non cura per nulla la propria persona. Può essere pulitissima, ma “descegnàte”.

Diatèrze. Viene da “dies tertia”. Significa “tre giorni fa”.

Diauuìcchjie (U). Il “diavolìcchio” non è altro che il peperoncino piccante.

Dìscete (U). Chiara la sua origine latina “digitus”. “Di(gi)tus” “Di(sci)te”. Significa “dito”. Esiste un gioco (vedere la voce “zembarjìedde”) nel quale “si mena il dìscito” (si mena il dito). Inoltre nella Bari fra le due guerre, era praticato un ballo molto gagliardo ed estremamente signorile, che abbisognava di ballerini veramente all’altezza. Questo ballo si chiamava “U bàlle (potrei anche scrivere “ubbàlle”) de Petenghìne, scenùcchie nnànde e dìscete (potrei anche qui scrivere “eddìscete”) ngùle”. “Il ballo di Petenghino, ginocchio davanti (sulla figa) e dito nel culo”. Notare che abbiamo preferito il termine figa con la g (vedi contentezza). Ballo che poi non è altro che l’antichissimo “black bottom” “culo nero” irlandese, che consisteva, durante le piroette del ballo,  nel prendere vigorosamente per la vita la compagna e farla sedere imperiosamente sui  muretti di campagna (facendole quindi venire, alla lunga,  il culo nero) per poterle ammirare le gambe più da vicino, essendo peraltro gli uomini in posizione parecchio scostumata ancorchè sublime. Una visione edulcorata ed estremamente annacquata del ballo di Petenghino potrebbe, molto molto molto alla lontana, essere la recente lambada. Dico potrebbe. Tornando all’anatomia, il discitone, accrescitivo di discito, è, invece, solo e soltanto l’alluce del piede.

Dobbòtte (U). Significa letteralmente “dùe bòtte”. E’ il fucile da caccia a due canne affiancate oppure, come nei tempi andati, a canne sovrapposte.

Dògghjie (Le). E’ arcaica parola viene da doglianza. La “d” iniziale va quasi raddoppiata. Significa “dolore”. Rarissimamente si ascolta nel parlar comune. E’ stata una fortuna essere riuscito a ripescarla dal dimenticatoio. Grazie a Tonino Antonelli.

Donnànze. Immediatamente qui davanti a me, a noi.

Dù. Due. Interessante fatto, il numero due, come il solo numero uno “iune” (vedi) si scrive diversamente al maschile e al femminile. Al maschile “Dù uagnùne”, al femminile “dò uagnèdde. Gli altri numeri non sottostanno a questa regola.

Dùdù. Minima quantità di qualsiasi cosa. Significa “dùe dùe”. Per estensione, vuole anche dire “poco”.

Fà le pemmedùre. Appunto. Frase idiomatica barese. In italiano si direbbe “far flanella”. Negli anni sessanta in Italia si diceva “far petting”. Insomma significa appartarsi con la ciccina e divagarsi. Fare i pomodori non necessariamente significa l'esprimersi fino in fondo, anche se l’intera operazione preliminare è complessa e abbisogna di molta applicazione. Significa esprimersi al meglio, in condizioni logistiche leggermente precarie, lasciando il gran finale a tempi e luoghi migliori più appartati e discreti. Ci sono dei ragazzi che sono specializzati nel fare i pomodori volanti. Questo esercizio però è sconsigliabile, perchè si rischia di ritirarsi a casa con un terribile mal di coglioni.

Fà vettùre. Mestiere più antico del mondo. “Fàre vettùre” significa “esercitare la prostituzione” o, nel migliore dei casi, darla generosamente, talora anche “agratis”, come dire, per solo amore. Càpita, càpita!

Faccjiembrònde. Significa letteralmente “fàccia in frònte”. Sta per “di fronte”. La signora che abita di fronte. Il Petruzzelli che sta di fronte a via Putignani, l’Albania che sta di fronte alla Puglia e così via di seguito.

Fafellùse (U). In napoletano sarebbe il guappo di cartone. E’ lo spaccone sciocco che non fa paura a nessuno. A Napoli è appunto chiamato guappo di cartone. Suo sinonimo potrebbe essere il “fafuèche”, in italiano “fafuòco”. Attenzione a non confonderlo con l’ ”appicciafuòco” che è quello che si diverte a innescare liti fra gli altri, raccontando bugie, dicerie e quant’altro, per divertirsi a veder gli altri litigare.

Fafuèche (U). Il fafuèche, lo dice la parola stessa, è uno che fa fuoco. Ma con poca sostanza, Uno spaccone. Il classico smargiasso.

Fattìzze. Aggettivo, significa “robusto, grande e grosso”. Dicesi sia di una persona che di un armadio, in generale di una costruzione. Ardisco, potrebbe venire da “fattezze” “grosse fattezze”: La stranezza del dialetto barese è che alcune parole molto popolari sembra che provengano da particolari termini del lessico colto italiano. E un caso di parentela fra meccanismi e strutture molto lontane fra loro. Mi piace pensare un fatto del genere.

Fatuarìe (La). E’ una parola che non appartiene al lessico dialettale barese, esiste nel nord barese, ma vale la pena riportarla in questo elenco. Viene evidentemente da “fàtuo” ed indica tutte quelle situazioni caratteristiche del dopo festa, quando, dopo aver mangiato e ben bevuto ed magari essersi dedicati a qualche delizioso incontro di lotta con le compagne o con i compagni di giochi, il giorno dopo si sta sospesi a mezz’aria tra lo stremo delle forze e l’inizio della ricarica delle batterie. Il ventisei dicembre, il due gennaio, sono “fatuarìe” a tutti gli effetti.

Fecàzze (La). Si pronuncia f’---cazz’. E’ la sublime, bellissima a vedersi, saporosissima, ineguagliabile, adoratissima, particolarissima “focàccia”. La focaccia barese. L’unico vero grande amore della mia vita. Radice profondissima dalle infinite diramazioni culturali, etnologiche, coloristiche, dialettali. La focaccia è impareggiabile per una infinita infinità di occasioni di utilizzo. Per omaggio profondo e sentito ne elenco soltanto una: la focaccia dà allegria a chi la mangia e a chi  vede gli altri che la mangiano. Ma forse vale la pena raccontare un aneddoto vero nel quale il personaggio principale fu la focaccia. A Bari, in via Andrea da Bari, c’è stata per parecchi anni la libreria Sorrenti, il cui titolare era lo straordinario Pasquale Sorrenti, gran libraio e grande raccoglitore di talenti letterari della vita culturale barese. Tutte le mattine Pasquale arrivava in libreria, alzava la saracinesca, apriva la porta a vetri, lasciava il giornale e la borsa, richiudeva la porta a vetri e poi andava a far colazione con una gran fetta di focaccia comprata da Arciuli, alle spalle della libreria, in via Roberto da Bari. Rito ormai consolidato da decenni. Una bella mattina di primavera Pasquale arriva, come al solito alza la saracinesca, apre la porta a vetri e si accorge con rabbia che nella notte la solita banda del buco aveva praticato un grosso foro nel muro di destra (lavorando dal portone) aveva scaraventato per terra tutti i libri che stavano ordinati sui banconi di destra e di sinistra, aveva fatto un altro buco nel muro di fronte ed era penetrata nel negozio di abbigliamento del carissimo Pippo Somma. Pasquale rimase pietrificato per un attimo, poi richiuse la porta di vetro, andò come tutti i santi giorni da Arciuli, si mangiò con tenerezza la sua fetta di focaccia e tornò nella sua libreria dove dovette darsi da fare come si può ben immaginare per rimettere la propria attività di nuovo in movimento, partecipando ovviamente a tutte le incombenze che un furto con destrezza comporta. Se la focaccia non fosse esistita, Pasquale l’avrebbe presa molto peggio.    

Feldùre (U). Parola di difficilissima comprensione per i non nativi. Significa “turacciolo”. Ignota, per chi scrive,  l’origine. Forse viene da fòlgere (vedi). Esiste anche la versione “feletùre” (vedi).

Feleppìne (La). Sono contento di aver recuperato questa stranissima parola. “Filippina” significa un fresco vento che arriva da qualche fessura. E’ anche un vento abbastanza sostenuto e continuo. Micidiale per le schiene sudate. L’origine è sconosciuta. Almeno a me.

Felicità. Il termine non appartiene al lessico dialettale barese ma serve per introdurci in una situazione molto particolare: la pesca da terra delle anguille. I pescatori baresi dilettanti sono degli ottimi pescatori di anguille. Questi pesci si catturano stando sulla riva e utilizzando lenze senza la canna. Queste lenze particolari hanno all’estremità, vicino agli ami, un peso di piombo di circa cento grammi. Una volta che l’amo è stato innescato, si fa girare vorticosamente come una fionda la parte della lenza con il piombo e la si lancia molto lontano dalla riva.  Una lunga lenza del genere si chiama in dialetto “spèrtica”. L’altra estremità della lenza rimane ovviamente a riva, ancorata a un pezzo di legno, a una piccola pietra, o addirittura al pezzo di sughero intorno al quale è arrotolata la spèrtica medesima quando è riposta nel cestello da pesca.. Si lanciano a mare contemporaneamente diverse spertiche. E’ facile accorgersi quando l’anguilla abbocca, perché si vede il pezzetto di legno poggiato a terra muoversi verso il mare. L’anguilla ha abboccato e sta dimenandosi. Con sapienza il pescatore a piccoli strappi, facendo stancare la preda, la tira a terra. Che c’entra la felicità direte voi. C’entra, c’entra. La felicità è quel lasso di tempo che passa fra una cattura di un’anguilla e l’altra.

Felìscine (La). E’ la “fulìggine”.

Felòne (U). Il “felòne” non è altro che la normale baguette, il croccante filone di pane. In barese però filone indica un dritto, un gran figlio di buona madre.

Fercìne (La). Si tratta della “forchètta”. Quando si va a pranzo o a cena, generalmente si dice “andiamo a torcere le forchette” “mmèh! Sciàme attòrce la fercìne!”.

Fermenànde (U). Il fulminànte è il “fiammifero di legno”. Ormai in disuso. Usato anche in altri contesti dialettali.

Fernacèdde (La). La fornacèdda è un piccolo fornello, come quelli delle vecchie cucine economiche, dove si caricavano i tocchetti di legno, con i vari cerchi metallici sempre più piccoli. Questo antico termine è usato durante i matrimoni come squisitissimo modo di dire. Per dire che una fanciulla, sposandosi, perde la sua deliziosa verginità, si dice con raro esprit de finesse, “uagnùne! S’ava apèrte n’àlda fernacèdde” “ragazzi, si è aperto un altro fornello!”. I piedi ben piantati per terra dei baresi sono una caratteristica fondamentale della baresità.

Fernàre (U).E’ il “fornàio”.

Fernèsce. “Fernèsce” significa “finìre”, e anche “smèttere”. Anche con questo verbo possiamo provare l’ebbrezza della coniugazione. Vediamo un po’ il presente:
jì fernèsceche
tu fernjìsce
jìdde fernèsce
nu àma fernèsce (esistono altri modi? Comunicatemeli, please)
vu avìta fernèsce
chìde/llòre fernèscene
Passato remoto:
jì fernjìebbe
continuate voi prego, a me è venuto il mal di mare. Ultima chicca il participio passato: fernùte. Se volessimo italianizzarlo sarebbe “firnùto”.

Fèrve. Terza persona singolare del verbo “fèrve” che significa “bollìre”. Una persona che fèrve è una persona che non vede l’ora. Quando l’acqua fèrve si ammèna la pàsta. Ammenàre significa menare, buttare. In alcuni casi particolari significa addirittura far l’amore, amoreggiare. Quando un lui ha amoreggiato con una lei, in un sano linguaggio da caserma il giovanotto dice che glielo ha “menato”. Lo stesso meccanismo del menare la pasta. In un solo caso conosciuto, ho annotato una variazione sul tema che tempo fa ascoltai da un mio vecchio compagno di scuola, che, in un momento di confidenza e di languore, per dirmi che aveva voglia di farsi una bella scopata, ebbe a dire con rara finessa: “oggi mi piacerebbe menare il can per l’aia”. Molto molto elegònte. Elegònte scritto con la “o” mi raccomando. Appartiene a quelli che dicono Fièra del Levònte.

Fèsse (La). La fèssa è proprio quello che state pensando. Più elegante dire “chichì” (vedi). Questo termine è generalmente usato come prefisso nelle bestemmie. Ad esempio, “la fèsse de chèda zòcchele (alcuni dicono “zòcchene”) de màmete, chèda mbrattàte!”. Lasciamo l’ebbrezza della traduzione al lettore.

Fète. Significa “pùzza”, terza persona singolare del verbo puzzare. Donde “u pèsce fète dalla càpe”. A Venezia, sul gran cancello in ferro battuto del mercato del pesce che dà su Canal Grande, c’è scritto “Primum piscis a capite phoetet”. La prima “e” di fète, quella accentata, va pronunziata stretta.

Fetendarì (La). “Fetenzìa” si direbbe a Napoli. E’ la classica porcheria. Intesa più in senso morale che in senso materiale.

Fettùccie. Stranamente questo termine non indica la fettuccia, ma una persona estremamente permalosa e difficilmente trattabile. Indica insomma  una persona che bisogna trattare con le pinze. Vale sia al maschile che al femminile. Non so se è un aggettivo o un sostantivo.

Fichenìnne (U). E’ il comune, squisito “fico d’india”. Una leggenda metropolitana, alla quale mi piace moltissimo credere, narra che a Zapponeta, cittadina alle falde del Gargano, celeberrima per le sue magnifiche patate, il fico d'India venga chiamato “quant’èbbuène u fichenìnne mammucùle mammucùle!” che tradotto alla lettera significa “quant’è buono il fico d’india mamma il culo mamma il culo!”. “Mamma il culo” deriva dal fatto che se si mangiano molti fichi d’India e si beve contemporaneamente molto vino, una stitichezza solenne è assicurata. Non è certo se, per  evitare un fastidioso inconveniente del genere, sia consigliato bere birra in notevoli quantità. O acqua. Vale comunque la pena strafocarsi di fichi d’India perché il gioco vale la candela. Darei una cifra per ascoltare, al mercato della frutta, una giovanissima sposa chiedere al fruttivendolo di incartarle tre chili di “quant’èbbuene u fichheninne mammucule mammucule!”. Dimenticavo di dire che la frase deve essere sempre pronunciata per intero. A parte i fichi d’india, Zapponeta merita una visita. Ci sono nei dintorni, oltre al mare, alle saline di Margherita di Savoia, delle architetture romaniche di gran pregio. Inoltre si può capire a Zapponeta la magia della gran pianura, del Tavoliere delle Puglie. Se non ricordo male, il cantante Nicola di Bari è di Zapponeta. Un elegante quesito, la “i” di india è maiuscola o minuscola? Personalmente uso quella minuscola, ma non so perché.    

Finlecènza. Quando i ragazzini giocano, c’è un attimo in cui ci si ferma, per prendere fiato, rinfrescare le regole del gioco, un attimo di non belligeranza insomma. Il dito indice sotto il palmo della mano nel basket. Per ottenere questa pausa basta gridare “Finlecènza” e i giochi si fermano. Finlecènza significa “Fine della licenza!” Ha origini molto antiche “fiat licentiam”. Tornando ai tempi nostri, quando mai a un ragazzino contemporaneo (siamo nel 2005) durante il gioco gli verrebbe in mente di gridare “ehi, ragazzi, fine della licenza!” ? Fra le nuove generazioni, in omaggio alla velocità cybernetica, si può anche ascoltare “filecènza” dove la “enne” è generalmente sottintesa se non addirittura ignorata. Ma l’origine è sempre quella.

Fjìerrefelàte (U). E’ il “ferro filato” che, a sua volta, non è altro che il fil di ferro. Filato forse perché viene da “trafilato”.

Fjìete (U). Puzza. Fetore. Con sublime senso dell’eleganza quando qualche poveraccio ha l’alito un po’ pesante, si è usi dire “a cùde ngè fète la vòcche”. A quello gli puzza la bocca. Orrendo. Come anche si è usi dire a proposito di qualcuno che si mette di traverso a una situazione rischiando la pelle, “a cùde ngè fète de cambà”.

Fòdde (La). Sostantivo, significa “fòlla”. Ma, soprattutto, significa “fretta”. “Andàre di fòlla” sta per “andare di fretta”. Uso misterioso di un termine che significa tutt’altro. Attribuire alla parola “fòlla” il significato di fretta è fatto che mi sfugge. Folla viene anche indicata con il termine barese, ancorchè italianeggiante, “affollànza”.

Fòlge. “Otturàre”. Per cui sturare si dice “sfòlge”. Il filituro folge la bottiglia e il lavandino si sfolge quando è filgiuto. Se volete essere ricoverati alla neuro, immaginate di coniugare tutti i modi di folgere e sfolgere, usando contemporaneamente il filituro per folgere e lo sturalavandino per sfolgere. Basta! Non ne usciamo più se continuiamo con questi meccanismi.

Fràcede (U). Significa “fràdicio”. Con l’accento sulla “a” per favore.

Fràcetòne (U). Significa “infradiciatòne”. Viene usato nell’insulto “cùde fracetone!” “quel gran figlio di buona madre!”

Fragàgghjie (La). Anticamente, nei negozi di alimentari, la pasta veniva venduta sfusa. Era contenuta in grossi cassetti, il cui fondo piano piano, con il passar dei giorni si riempiva di frammenti di pasta spezzata di ogni tipo. Questo rimasuglio veniva poi recuperato dal pizzicagnolo e venduto a prezzo minore,  dando luogo a delle assolute prelibatezze culinarie. Si pensi alla frittata di fragàgghia, alla fragàgghia in brodo, alla fragàgghia al pomodoro, alla fragàgghia al forno. Per strana estensione viene anche chiamata fragàgghia, un’accozzaglia di persone incivili e chiassone che per i casi più vari si trovano momentaneamente insieme. Già che ci siamo vale la pena ricordare una piccola e preziosa abitudine delle nostre donne in cucina. Quando per caso, o per tenera intenzione della cuoca (che generalmente era la mamma), in un piatto di maccheroni si trovava un maccherone, dico uno, di qualità diversa dal resto della pasta cotta, chi lo trovava era salutato da tutti come un fortunato. In un piatto di spaghetti poteva capitare di trovare un tubettino, e così via. Chissà se c’è ancora questa gentile consuetudine!  

Frambellìcchjie (U). Il frambellìcchio è una persona magra e nervosetta anzichenò, che si trova presente in tutte le situazioni, dalla più lieve alla più greve/grave, dando fastidio agli astanti. Una specie di prezzemolino su ogni minestra, che gira, rompe, si intrufola, spettegola, in questo caso aiutato dalle sue dimensioni minimissime. Perdonatemi il superlativo del superlativo.

Frambùgghjie (U). Intraducibile. Sono i resti di qualche lavorazione, i trucioli del falegname, le parole senza senso che si biascicano durante la fine di una lite, quel che resta nel piatto.

Frànghe. Aggettivo. Significa "gratis". In buona parte della pianura padana si dice "agratis". Se lo volessimo italianizzare dovremmo scrivere “frànco”. E l’origine qual è?

Frascìne (La). Quando si fanno delle riparazioni in un appartamento, i tramezzi abbattuti, l’intonaco tagliato, la gran quantità di polvere che restano sul pavimento, rappresentano la “frascìna”. Generalmente significa le piccole macerie molto polverose di un lavoro.

Frastjìere (U). Il frastière è il “forestiero”. Al plurale frastièri, donde “Sànda Necòle jè amànde de le frastjìere” “San Nicola è amante dei forestieri”. Si dice che i baresi siano molto più ospitali e carucci con gli estranei (i forestieri) che con i loro concittadini. Si veda quanto scritto in giro sulla baresità. E’ sempre troppo poco. La baresità meriterebbe una trattazione a livello universitario, in un corso di Sociologia urbana.

Fràte (U). E’ il “fratèllo”. Sorella si traduce “sòre”. Vedi “sòre” per alcune considerazioni che riteniamo interessanti.

Frecà. Verbo.Nobilissima ed aristocratica parola. Va letta pronunciando la c dura (come in cazzo). Significa “fàre all'amòre”. Vedi "fàre", vedi "chiantèdda". Se si seguono i dovuti e naturali tempi tecnici, viene cronologicamente subito dopo l'abbracàrsi (vedi). Italianizzato “frecàre”. In valore assoluto significa “fregàre”. In certi contesti significa fregàre manualmente, per esempio con carta vetrata. A dimostrazione di quanto sia ricco il lessico barese e quanto sia multiforme, parlacchiamo per qualche rigo su questo verbo e sui suoi derivati. Da “frecà”, derivano “la frecàte”, “la frecatùre”, “frecatùcce”, “frecàte”, “frecàte a ciùcce”. Mentre “la frecàte”, inteso come sostantivo significa “la scopata”, “la frecatùre” significa “fregatura”. “Frecàte”, senza l’articolo, inteso invece come aggettivo sta per “messo male, malato”. Sue variazioni sono quindi “frecatùcce” “malato guaribilissimo”, “frecàte” “malato cronico”, “frecàte a ciùccie” “malato senza possibilità di scampo”. Ricapitoliamo perché il termine lo merita:
Frecà significa scopare.
Frecàte significa “messo male per quanto riguarda……” Esempio “Stà frecàto a dènti” vuol dire che è messo male a dentatura.
Frecatùcce significa, quanto meno, influenzato.
“Stà frecàte a derrùtte” “è fregàto a rùtti” significa che non è capace di fare artificialmente neanche un ruttino che sia uno.
Quando si dice la ricchezza lessicale!

Frecàte (La). Una “frecàta”, lo ripeto, non è altro che una sanissima scopata. Nulla di più, nulla di meno.

Frecatùcce. “Frecatùccio” è un aggettivo e contrariamente a quanto verrebbe fatto di pensare, significa “momentaneamente malandato”. Appartiene al lessico della salute. Una persona che è a letto con una noiosissima influenza, è momentaneamente “frecatùccia”. Ho ripetuto questo termine perché mi è simpatico, o forse perché mi fu simpatica chi me lo ricordò.

Frechenjìedde (U). Il frechinièddo è un ragazzo agile, piccolo e scattante che lo ritrovi da tutte le parti, agile e sgusciante come un’anguilla. In veneto si direbbe “fureghìno”. Si pensi all’andare su è giù della mano che sta usando la carta vetrata. Fureghìn, sempre in veneto, è anche quel filo di paglia che si trova in certi sigari per tenere libera la cannuccia inserita nell’asse del sigaro. Furegàre sta anche per allargare la ferita per tirar fuori la scheggia di legno. Quindi sia in barese che in pugliese che in veneto, si tiene presente questa caratteristica dell’andare ritmicamente su e giù, avanti e indietro, a destra e a sinistra, sopra e sotto. E smettetela di pensare ad altro!


Ultima modifica di Admin il Mar Ago 12, 2014 12:58 pm - modificato 1 volta.
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DIZIONARIO DI TERMINI BARESI SECONDO FRANZ FALANGA CONSISTENTE IN OTTO PARTI Empty DIZIONARIO DI TERMINI BARESI SECONDO FRANZ FALANGA QUARTA PARTE

Messaggio  Admin Lun Ago 11, 2014 6:57 pm

Frengjìedde (U). Significa “fringuèllo”. Un fringuèllo cecàto è quanto di peggio si posso trovare nel regno dei viventi. Dal punto di vista dell’aspetto, una persona magra, malandata, innocua, tutta rinsecchita, viene così definita.

Fresèdde (La). Le frisèlle sono delle squisitissime ciambelle schiacciate di pane biscottato fatto con farina integrale di orzo. Le frisèlle vanno bagnate con acqua, poi condite con una croce di olio di oliva e un pomodoro strazzato sopra. Possono anche essere di farina bianca o di farina integrale. Lecce, a buon diritto, può essere considerata la capitale della frìsa. Per la precisione, stiamo parlando di Poggiardo in provincia di Lecce. E’ in assoluto un boccone da re. Quando le cattedrali erano bianche e il mare era limpido come il cuore dei bambini, le frisèlle venivano bagnate senza preoccupazione alcuna nell’acqua di mare. I vecchi pescatori pugliesi sono vissuti a frisèlle e pòmodori. E qui vorrei ricordare le bellissime barche da pesca baresi, dette vuèzze, gòzzi in italiano. Queste barche sono caratterizzate da una specie di grossa forcella, simile a un paio di corna a prua, che serve per appoggiarvi i remi quando la barca è in secco. Le barche baresi non hanno poppa, nel senso che hanno poppa e prua che terminano ambedue a punta. I remi delle barche pugliesi sono caratterizzati da un rigonfiamento nella parte vicina all’impugnatura, un po’ come gli avambracci di Braccio di Ferro. Questo rigonfiamento serve per bilanciare il remo e per aumentare l’inerzia in avanti quando si rema. Si rema generalmente a remi incrociati, con il viso rivolto verso la direzione di marcia, cioè verso la prua. Nella barche baresi e pugliesi i remi, a differenza delle barche venete che hanno lo scalmo (che si chiama fòrcola) davanti al remo, hanno invece il remo davanti allo scalmo fissato ad esso da un legaccio. Nella parte di prua, e stiamo arrivando al problema,  tutte le barche da pesca baresi hanno una specie di ripiano dove si appoggia la rete quando la si tira su dall’acqua. Su questo ripiano, che è fornito di un bordo di circa quindici centimetri, si poggiano le reti appena tirate su dall’acqua dalle quali si dìstricano i pesci impigliati lanciandoli ancora vivi in una tinozza che si trova sul pavimento della barca. Questo piano deve ovviamente smaltire l’acqua e le alghe che rimangono attaccate alle reti; per questa ragione sono praticati nella murata della barca, sui fianchi cioè di questi ripiani, tre o quattro buchi su tutti e due i lati della barca, per permettere lo scolo dell’acqua tirata su con le reti e con i pesci. Come si può agevolmente immaginare, dopo qualche settimana, i buchi in questione presenterebbero sulle murate delle imbarcazioni tracce dello scolo delle acque che non sono per nulla gradevoli da vedere. Che cosa hanno escogitato dunque i geniali pescatori nel corso dei secoli?  Sulle murate esterne, usando i buchi come vertice, hanno dipinto dei triangoli con la base rivolta verso l’acqua e li hanno colorati con colori scuri come il marrone, il rosso scuro, il verde scuro, il blu, per mascherare le tracce delle acque di scolo. A ciò si aggiungano le fasce molto colorate che corrono orizzontalmente sui lati delle barche. Per questi motivi le barche pugliesi sono una festa di colori e di forme colorate. Blu, verdi smeraldo, marroni su fondo bianco rendono le barche pugliesi e baresi in particolare degli oggetti bellissimi. Però, ecco il problema, ho notato con molta malinconia che i triangoli colorati intorno ai buchi di deflusso dell’acqua da una ventina d’anni a questa parte vanno scomparendo. I giovani pescatori hanno sempre più fretta, hanno sempre più impegni a terra, hanno sempre meno tempo per abbellire e curare le loro barche. Fra qualche anno, questi esempi di manutenzione formale delle barche baresi saranno un bel ricordo, e fra qualche anno ancora nessuno ne conoscerà o ricorderà l’esistenza. Rimarranno i buchi nelle murate con la traccia delle acque e delle alghe .

Fressòle (La). La frissòla (italianizzata) è la “padella” con i bordi bassi, dove si friggono le frittate, le patatine fritte. Interessante notare l’assonanza con lo stesso termine veneto “farsòla” oppure “farsòea”. Siccome i baresi non si fanno mai mancare nulla, per estensione, la fressòle è anche il sesso femminile. E così, oltre a fornacèlla (vedi), il sesso femminile è anche chiamato padella. Per quanto riguarda il buon gusto la poesia e la capacità di astrazione, i baresi non vanno molto per il sottile.

Frìse (U). I frìsi sono i “gradi” che si mettono sulle divise militari. Quasi certamente viene da fregio. Al femminile “la frise” è la frisèlla (vedi).

Frònze (La).  Per essere annoverata fra le “frònze” deve essere grande e verde. Striamo parlando per l’esattezza della bella e fresca “foglia” di lattuga, di cavolfiore eccetera.

Frùgne (U). Il “foruncolo”. Viene anche usato per dire che una donna ha le tette molto piccole, piccole come un foruncolo. Quando invece viene usato per indicare il comune foruncolo e quindi entriamo nel lessico medicale, stranamente si indica un foruncolo particolarmente odioso, e cioè quello che qualche maligna volta nasce sulle natiche, il cosiddetto “frùgne ngùle”. “Forùncolo sul cùlo”.

Frùscie (U). Mi raccomando l’accento sulla “u”. Significa “diarrea”. Un bel frùscio si augura a chiunque ti faccia una piccola scortesia. Ti paga in ritardo? Ti rapina il parcheggio mentre lo stai occupando tu? Vince una mortadella a una lotteria benefica? Bene, a costoro è buona norma augurare un bel frùscio, preferibilmente per la strada quando si è in compagnia di ciccine. La frase di rito è “Agghjia fède ch’adavè nu frùscie mbrovvìse!!!” “Ho fede che avrai un frùscio improvviso”. Unica precauzione, non dirla ad alta voce, ma pensarla vigorosamente.

Frùsckue  (La). La classica fraschetta. Furbacchiona e pronta a tutto. Se volessimo italianizzare il termine diremmo “frùsckula”.

Gaddùse (U). Letteralmente sta per “callòso”. E’ quella parte di nervetti frammista a grasso quasi croccante che si trova in certi pezzi del bollito. Assolutamente delizioso.

Gàggie (U). Il gàggio è generalmente l’amante, il fidanzato gagliardo. Però indica anche il deus ex machina di una situazione, generalmente poco chiara.

Gaggiùle (U). E’ il diminutivo di gàggio ed ha gli stessi significati.

Galettòne (U). Il galettòne è l’accrescitivo di galètta che significa contenitore di acqua in legno molto simile alla tinozza. Viene usato molto in senso figurato. In italiano, per dire che qualcuno lavora (fatica) molto, si dice che si fa il mazzo come una casa. In barese si dice “farsi il culo a galettone”. Modo di dire che invece, quando è usato in modo non riflessivo (fare il culo a galettone), significa picchiare qualcuno in modo molto pesante oppure sconfiggere qualcuno in maniera totale. Nella galetta, o nel galettone, si faceva anticamente il bucato, usando la cenere come sbiancante. La miscela di cenere e liscivia (vedi lissìa) puliva la biancheria in modo assolutamente perfetto. E’ usato anche come metafora per altro caso. Si dice, per esempio “S’àva alzàte nù galettòne de maccarùne”. “Si è alzàto un galettòne di maccheròni”. Si è mangiato una quantità impressionante di pasta asciutta. Laddove “alzàrsi” sta per “fàrsi”.  

Gallièsce. Terza persona dell’indicativo presente. Viene da “galliàre” che, a sua volta, viene da gallo. Significa “si ringalluzzisce”, si comporta come un galletto impettito.

Gangàle (U). I gangàli sono i denti, per l’esattezza i molari.

Gargagnàne (U). Il gargagnàno è un furbacchine di tre cotte, uno che è difficilmente raggirabile. Stiamo parlando di una persona che sa il fatto suo. Tutti quelli che hanno esperienza, carisma e sanno vivere, appartengono alla nobile categoria dei gargagnàni. Ha affinità culturali con il chiàvico (vedi).

Gargànde (U). Significa gigànte. Quasi certamente viene da Gargantua. Quelli della Fiera del Levonte pronunziano “gigònte”.

Garzàle (U). E’ uno dei tanti sinonimi dello schiaffo. Questo, in particolare, è detto così perché indica con estrema esattezza in che punto del viso  è arrivato lo schiaffo. Vedi “gàrze”.

Gàrze (Le). Sostantivo femminile. Generalmente usato al plurale. Le gàrze sono praticamente le due parti interne della bocca, dietro le guance, che si trovano all'altezza dei denti del giudizio. Riempirsi le gàrze, significa abboffarsi senza ritegno. "Abbottàre (gonfiare) le gàrze a qualcuno” significa invece riempirgli la faccia di schiaffi fino a gonfiargliela abbondantemente. Nella boxe questo effetto si ottiene con i “jab”. Le garze evidentemente stanno anche nei pesci – è importante considerare questo particolare tipo di garze, visto che i pesci e il mare sono onnipresenti nella cultura della città – e sono sempre localizzate ai lati della testa sotto gli occhi. Quando sono di un bel rosso carico stanno ad indicare la freschezza del pesce. Capire quando un pesce è fresco appartiene al campo dell'Arte (con l'A maiuscola). Su mille apprezzatori di pesce, a Bari, novecentonovanta sono da cestinare. I restanti dieci vanno ascoltati in religioso silenzio e tenuti nella massima stima e considerazione. Per scivolare nel raffinato, quando si dice di qualcuna alla quale qualcun altro ha riservato una piacevole attenzione, si dice che “ngiuàve ammenàte jìndallegàrze”. Gliel’ha menàto nelle gàrze. Noblesse oblige.  

Gastème (La). La “bestemmia”. “Gastemà” bestemmiare, in beneto “biastemàr”.

Gaudiàne (U). Il gaudiàno è il mitico tegame di maccheroni al forno. Legittimi. Viene dal latino “gaudeamus”. Splendido termine.

Gebellère (U). Letteralmente “giubilèo”. Significa “confusione” totale e gioiosa. Anche usato per indicare una situazione complessa e molto movimentata.  

Gedè (U). Il giudeo.

Germanìse (Le). Il barivecchiano puro, anche sapendolo, non dirà mai tedeschi, dirà sempre e comunque germanèsi. Al singolare dicesi “germanèse”. Come pure gli americani saranno solo e soltanto “Le mericàne”, leggendo la ultima “a” aperta in modo esagerato, quasi una “e”.

Ghiasciòne (U). Al plurale “le ghiasciùne”. Viene da “giaciglio, giacere”. Significa “lenzuolo”.

Giargianèse (U). Al plurale “giargianìse”. I giargianèsi sono i forestieri, quelli che parlano una lingua incomprensibile. Sono giargianesi i tedeschi, i cinesi, i senegalesi, gli americani, i cinesi, i coreani, gli australiani e tutti quelli che non parlano italiano. Praticamente tutti. Così come per gli ebrei i non ebrei sono chiamati “gentili” così è per questo stranissimo termine dialettale barese. La parola in sé non ha assolutamente nulla di offensivo, indica solo diversi miliardi di persone, il resto dell’umanità. Mi viene in mente che un giorno di fortissima nebbia sul canale della Manica, “The Times” uscì con un titolo a piena pagina. Vi si leggeva: “L’Europa isolata dall’Inghilterra da un notevole nebbione”. Ecco questa è la splendida  mentalità che noi baresi abbiamo quando chiamiamo il resto del mondo “giargianesi”.  

Gìb Gìb (U). Il gìb gìb non è altro che il gagà che si atteggia, quello che ha un valore aggiunto di snobbaggine ma anche di stronzaggine. Il gagà verace è il vitazzuolo, il gib gib è odioso e malvisto. Vale anche al femminile e indica interi gruppi sociali.

Gioghedellòtte (U). Altrimenti detto “bonafeciàte” (vedi). E’ il gioco del lotto.

Gnemerjìedde (Le). Qui siamo all’università della cucina. Significa “gomitolìno”. Si prenda coratella di capretto,  sale, pepe, e la si avvolga in una foglia di alloro; quindi le si arrotoli intorno minimo una ventina di centimetri di interiora di capretto chiudendo il gomitolo con un nodo ben fatto. Questi gomitolini vanno arrostiti sulla brace, preferibilmente di legno di olivo, in subordine castagno. Quando di estate si passa per strade dove si arrostiscono e si vendono gli gnomerièddi, si sente un profumo delizioso. Da un po’ di tempo si legge in giro una versione moderna “glomerèlli” con la “gl” iniziale. Non perdiamo tempo, siamo fuori dell’ortodossia, il termine inizia con “gn” e “càzzi non ce ne vògliono” (vedi).  

Gneròne  (U). Viene da “gnùre”, nero. “U gneròne” è uno che ha una bruttissima cera.

Gnetùre (U). E’ la “brocca”. Viene da riempire, jiègne (vedi). Per l’esattezza è la brocchetta che contiene mezzo litro di vino.

Gnòtte. E qui lasciatemi divertire. “Gnòtte” è un verbo e significa “inghiottìre”. Se vogliamo diventare letteralmente pazzi, proviamo a coniugarlo:
Jì gnòtteche
Tu gnùtte
Jìdde gnòtte
Nù gnettìme
Vù gnettìte
Lore gnòttene
Il participo passato è “gnettùte”
Il passato remoto
Ji gnettjìebbe
Tu gnettjìeste
Jidde gnettì
Nu gnettèmme
Vu gnettjìeste
Loro gnettèrene
Se provate a scrivere un po’ di modi senza i pronomi e senza le virgole, e provate a leggerli uno di seguito all’altro, tutto d’un fiato, come un rapper, proverete delle emozioni linguistiche della forza di cento cavalli. Ecco qui: gnòtteche gnùtte gnòtt gnettìme gnettìte gnòttene gnettùte gnettjìebbe gnettjìeste gnettì gnettèmme gnettèrene. Li ho scritti di seguito, artatamente senza le virgole. Il miglior rapper della Martinica o lo stesso Eminem avrebbero difficoltà a cantarlo.
Un pomeriggio, mio padre si trovava in una nota farmacia del centro di Bari. Entrò un signore e chiese una pinua (vedi), per il mal di testa, da “ingoire”. Il dott. Loiacono disse: “Non te sì preoccupànne, puète dìsce gnòtte se capìsce u stèsse”. Facile da tradurre.

Gnùff gnùff. E’una delle tante definizioni dello schiaffo. In questo caso è totalmente onomatopeica. Si presuppone un ceffone talmente violento da far saltare diversi denti.

Gnùmmere (U). Il gomitolo. Donde “gnommerièddo” in italiano “gomitolino” che è invece il delizioso involtino di budella arrotolate intorno ad un fegatino con la fronza di alloro e cotto alla brace. La sua patria d’origine è Carbonara, piccola cittadina immediatamente a sud di Bari, dove si mangiano gli gnomerielli e l’agnello alla brace migliori di tutto il pianeta terra. Carbonara merita una deviazione. Provare per credere. Addirittura a Bari, nella parte sud della città, dopo la ferrovia e le varie tangenziali, esiste via Gnomerelli (o forse è Glomerelli?).  

Gnùre. Aggettivo. Al plurale “gnori” talvolta. Al femminile “gnòre”. Significa letteralmente “nero”.

Gnurequàte (U) (La). Da gnùre (vedi). Letteralmente significa “annerito”. In realtà viene usato con diverso significato. Serve ad indicare un briccone che ha compiuto un gesto che sarebbe difficile definire ortodosso. Viene per lo più usato in modo bonario tipo: quel bricconcello!

Gòcce! Viene usato come anatema. Significa “disgrazia”. “Gòcce adavè” significa “mi auguro che tu debba avere una disgrazia”. Gli è capitata una goccia, come dire che gli è capitata qualche cosa fra capo e collo. Così viene chiamato anche l’infarto, che vale la pena ricordarlo, in napoletano viene chiamato “sùbbeto” “subito”, nel senso di fulminante.

Grambèdde (La). E’ quel coltellino, quasi uguale a quello usato per tagliare il parmigiano reggiano, che serve ad aprire le cozze. L’apertura delle cozze è operazione che pochi privilegiati sanno fare con perizia. Riccardo della Bella Bari è uno di questi.

Grattacàse (La). E’ quell’attrezzo che serve per grattare il formaggio.

Grattàte (La). Non esiste purtroppo più. La grattata era un piccolo parallelepipedo di ghiaccio grattuggiato con un aggeggio di alluminio a forma di prisma rettangolare. Sul ghiaccio “grattàto” si versava un po’ di sciroppo di granatina o di lampone. Veniva venduta d’estate nelle strade di Bari vecchio da venditori ambulanti che portavano su un carrettino una grossa barra di ghiaccio, che veniva grattata con una specie di piccola pialletta metallica che si riempiva così di ghiaccio “grattato”. Assolutamente deliziosa ed ecologica. “Grattare” però in barese significa anche “rubare” e anche, udite udite, far flanella, limonare, fare i pomodori, fare petting.  Una bella grattata sta anche per una bella sveltina. Quanti significati!  

Gratùscie. Significa “gràtis”. Vedi “ndùne”. Vedi “sgròscie”.

Gràvete. Significa “incinta”, gràvida. Accento sulla prima “a”.

Greffuà. Verbo, significa “russare”. Italianizzandolo si direbbe groffolàre. Bella parola, forse viene dal “grufolare” dei maiali. Origine nobile nel senso che, a parte il maiale che notoriamente è un porco, il termine grufolare è un termine italiano, donde la “nobiltà” dell’etimo. Nella marca trevigiana si dice “ronchedàr”. Stranamente nel linguaggio fumettistico italiano si traduce con “ron” certamente da ronfare, mentre nei fumetti di origine anglosassone si usa “snore” (che significa russare in inglese) qualche volta soppiantato dal classico “zzzzz….” accompagnato dal fumetto di una sega che sta tagliando un tronco d’albero. E’ gradevole ed onomatopeico il suono iniziale di “greffuà” grrr…con diverse fff… La finale “a” accentata indica che è l’infinito di un  verbo.  

Gremòne (U). E’ il padre. Quelli più acculturati dicono anche “ubbòss”. Il grimòne è in realtà un vecchio vecchione saggio, ma dispotico. Con questo appellativo talvolta si indica il vecchio genitore. Questo termine è usato anche al di là della zona del  padreterno (zona ben precisa sulla via di Carbonara) che delimita più o meno il confine fra l’agro di Bari e quello di Carbonara/Ceglie del Campo.

Grìbbue (La). Significa “influenza”. E’ un raffinatissimo francesismo, viene da “grippe”.

Grùgne (U). Il grùgno è il padre per antonomasia. Lo si utilizza nelle occasioni in cui il padre nega qualche cosa al figlio. Il grùgno non vuole. Il grùgno non mi dà i soldi, il grùgno non mi dà il permesso. Viene usato quando si è incazzati con il grùgno medesimo. Al femminile la madre è “la grògne”.

Grùppe “C” (U). E’ una definizione tecno/anatomica di una particolare zona del corpo maschile. Il gruppo “c” ovverosia: “càzze, chegghiùne eccùle”. Vedi “chegnàme”.

GùGù. Questo è uno degli ultimi neologismi entrato di diritto nel dialetto barese. Mi spiego immediatamente. Negli anni sessanta a Bari furoreggiava uno straordinario gruppo rock che si chiamava “Hugu Tugu”. Il chitarrista di questo gruppo, il carissimo Gianni Giannotti, un giorno, mentre era in macchina, per sua distrazione non dette la precedenza ad un’auto che proveniva dalla sua destra. L’incidente fortunatamente non ci fu, ma colui il quale proveniva dalla destra di Giannotti si fermò ed uscì dalla macchina. Era un tipo “malamente” che però, fortunatamente per Giannotti, era amante della musica e conosceva gli “Hugu Tugu”. Anche Giannotti si era fermato ed era uscito anche lui dalla macchina, ma subito capì che era in grosse difficoltà. Il malamente, riconosciuto Giannotti, non poteva ormai andar via senza dir nulla, doveva pur far capire che lui in quel momento era padrone della situazione. Ed allora con un lampo di genio guardò in modo torvo Giannotti e profferì soltanto una frase in tono pesantemente volgare e minaccioso, poi si rimise in macchina e, tutto contento per aver mantenuto la sua supremazia, andò via. Volete sapere che cosa latrò all’atterrito Giannotti? “Ehi attè-----solita pesantissima pausa---GùGù-----altra pesantissima pausa---spòstisce la màchene!!!”. In questa frase c’era minaccia, ironia, disprezzo e senso di superiorità. Questa storia merita di essere ricordata, non foss’altro che per la straordinaria capacità di sintesi dei baresi. Naturalmente va detto che questa è la prima volta che questo termine viene messo per iscritto. E di questo me ne vanto moltissimo. Co-raccontatori di questa storia vera sono stati Armando De Cillis e Nico Esposito che qui ringrazio calorosamente.

Iàcche (La). La “iàcca”, ho italianizzato il termine, non è parola barese. Appartiene al lessico di Santeramo in Colle. Ho inserito in questo mio lessico questa parola ormai in disuso perché non vada persa e dimenticata. La iàcca è una crudele maniera di andare a caccia nelle Murge durante la notte. E’ una caccia proibita. Consiste nel girare per la campagna muniti di una fortissima lampada ad acetilene e di una paletta molto particolare che serve da arma. La paletta in questione è in tutto simile a quelle palette che i croupier usano nei casinò per maneggiare le carte e le puntate sopra il tavolo verde. E’ soltanto un poco più piccola e più pesante, essendo più spessa. Una volta individuato su qualche ramo l’uccello addormentato, il bracconiere si avvicina lentamente e gli pianta di colpo la luce negli occhi. L’uccello, che può essere una civetta, un corvo, una tortora, eccetera, rimane per qualche attimo fermo sul ramo come imbambolato, intontito dal fascio di luce che gli è capitato davanti all’improvviso. In quel momento il cacciatore di frodo, con la sua paletta dà un gran colpo sulla testa dell’animale e lo ammazza. E’ un modo vigliacco e incivile di andare a caccia.

Iàcquerrìccue. O, meglio, “iàcque e rìccue”. Significa “acqua e torsoli di cavolfiori” (cimedicòle). Sta ad indicare, nella scala di qualsiasi tipo di valori,  lo scalino più basso. È stretta parente dello zero assoluto. Una lite che è terminata ad àcqua e rìccue significa che tutto si è ridotto ad un’innocua bolla di sapone. Rappresenta, nella scala dello zero assoluto, il penultimo gradino. Deriva dal fatto che, se si fanno bollire in una pentola d’acqua dei torsoli di cavolfiori, il risultato di questa specie di leggerissimo brodino vegetale è quasi senza sapore, quasi senza odore e praticamente senza contenuti calorici.

Iàmme. Va subito detto che non è termine barese. E’ una parola napoletana. L’ho inserita in questo lessico perché è usata stranamente in un solo contesto. Viene cioè utilizzata nei mercatini rionali e ai mercati generali, per invitare la gente ad acquistare la merce. Ovviamente significa “andiamo”. E’ un esortativo ortofrutticolo mutuato dai nostri cari cugini napoletani.

Iangecòle. Chissà perché il nome proprio Angelo Nicola è sinonimo di uomo sciocco. Esisterà certamente nelle antiche narrazioni una vecchia storia nella quale un tale di nome Iangecòle faceva la parte dello stupido. Questo modo di indicare una persona sciocca è riscontrabile anche in certi paesi della Murgia, per esempio a Santeramo in Colle.

Iègne. Verbo, significa “riempire”. Anche qui vi consiglio un po’ di coniugazioni. Tanto per non perdere l’abitudine il participio passato riempito si traduce “agnùte”. Non male vero? Sempre a proposito della coniugazione ecco qui ancora alcuni esempi. Chi vorrà, potrà continuarli ed integrarli. Come esercizio mi pare interessante. Jiègneche,  agnjìebbe, agnènne. Però!                                                                

Ièsse. Terza persona indicativo presente del verbo assì (uscire). Significa “èsce”.

Iò (U). La “o” va pronunciata stretta e prolungandone il suono in modo volgare. E’ uno stranissimo termine che pronunciato allo stesso modo, assume due significati totalmente diversi. Infatti “jò” da solo vuol dire “sì”, “certo che sì”. Con l’articolo “u” significa “il culo”. O, meglio ancora, “il buco del culo”.

Iòsce. Significa “oggi”. Pronunziare la “o” stretta e lunga.

Iòse (La). La “iosa” è il chiasso ingiustificato. In barese si dice anche “cavaiòla”. Ricordando che le “cavaiole” erano farse teatrali settecentesche nate a Cava dei Tirreni. In queste farse il chiasso prodotto dagli attori era volutamente notevole e rappresentava una delle caratteristiche di questo tipo di teatro. A Bari questo chiasso spesso esercitato per strada, è, a modo suo, una forma di spettacolo, sebbene non supportato da copioni e da scritture teatrali, ma certamente espressione della melodrammaticità che caratterizza le popolazioni meridionali, quando devono esternare i loro sentimenti, qualunque essi siano.

Irre e òrre. E’ un suono praticamente intraducibile. Chi fa ìrre e òrre non è altro che un indeciso della più bell’acqua.

Iùne. Il numero uno. Insieme al “dù” “due” (vedi), è l’unico numero declinabile. “Nu uagnòne” “na uagnèdde”.
“M’ada dà na bottìglie de bìrre, dò zzòle, du becchenòtte e nu chìle de patàne”

Iùrme. Significa letteralmente “a bocca asciutta”. Vedi “zembariedde”.

Iùscke. Vedi “asckuante”. Pochi sanno che i gran bevitori, quelli che cioè sanno saggiamente bere da soli, hanno una loro liturgia un attimo prima di imbarcarsi in una sbronza colossale. Riempiono il bicchiere, lo guardano con amore, poi facendo finta di fare la conta con il bicchiere medesimo, dicono “per te” e lanciano il due con le dita. Poi contano, iniziando dal bicchiere, uno e due. Il due evidentemente tocca al bevitore. Il bevitore dice “dùammè” e si scola il bicchiere d’un fiato. Oppure esiste un altro rito. Il bevitore beve un bicchiere d'un fiato e poi molto seriamente pronuncia “Iùscke!” quasi fosse una parola magica. E continua così fino all’esaurimento. Ma qui entriamo nella leggenda personale del bevitore. Ma, siccome siamo profondamente rispettosi della libertà altrui, lo lasciamo ai suoi riti e alle sue liturgie e non riveliamo neanche uno degli innumerevoli esempi di cui noi abbiamo contezza.

Jì. “Io”. Di difficile pronunzia. Anche di difficile scrittura. Per pronunziarlo bene, io consiglio di pronunziare la parola jìddish, ciò fatto, togliere “ddish”, quel che rimane è “io” in dialetto barese. Tutte le persone che pronuziano jì per la prima volta non riescono a fare a meno di far sentire una “e” finale che non esiste assolutamente nel suono di questa parola. La vocale ultima “ì” (mi raccomando accentata) si deve sentire forte e chiara, con la piccola difficoltà di far sentire il suono gutturale che la precede che è “j”. Insomma suono gutturale.

Jìdde. “Lui”. Di difficile pronunzia.

Jièdde. “Lei”. Di difficile pronunzia.

Kacì! E’ un’esclamazione che va detta con una leggera spocchia. Significa più o meno questo: “Ma certamente sì, cosa credi che chi ti sta parlando non abbia compreso l’importanza del fatto in questione?” Oppure “Certo che sì, con chi credi di stare a parlare, con uno come te?”  Oppure “Non ti impicciare, la cosa è stata fatta a regola d’arte, solo a chiedere hai perso del tempo ma soprattutto lo hai fatto perdere a me, brutto stronzone!”. Questo condensato di linguaggio è assolutamente mirabile. Va profferito con vigoria e scegliendo il tempo giusto. Non è da tutti saperlo utilizzare.

Kecìne (La). La cucina. Pronunciare la k iniziale dura.

Kekkevàsce (La). La “coccovascia o la coccovagia” non è altro che “la civetta”. A nord di Bari si usa anche “kekkhevascjiùle”. Questo termine viene generalmente affibbiato ai menagramo.

Keppòne (U). Mi raccomando far sentire la kappa dura. Il keppone non è altro che il “debito”. Viene dal francese “coupon”. Che poi non è altro che un “pagherò” scritto su un fogliettino. Insomma ragazzi, stiamo parlando della cambiale.

La cìnghe. Schiaffo dato con una mano.

La dèsce. Schiaffo dato con due mani contemporaneamente, una per guancia.

Ladrecjìedde (U). E’ il piccolo ladruncolo, quello che magari ruba una mela. Generalmente usato in senso non dispregiativo. Al femminile “ladrecèdde”.

Laganàre (U). E’ il semplicissimo matterello. Così chiamato perché usato per tirare la pasta per fare le tagliatelle. La tagliatella in barese si dice “làgane” oppure “làneche”.

Lallà. Verbo appartenente al lessico famigliare, al lessico usato con i bambini. Andare “a lallà” significa andare “a passeggio”. Per cui “lallà” potrebbe significare “passeggiàre”. Altra parola onomatopeica appartenente allo stesso lessico è “tottò”. Le “tottò” sono gli “sculacciòni sul culetto”. Con un po’ di buona volontà si può scrivere una frase assolutamente incomprensibile ai più ma facilmente traducibile: “non ngè ngòzze ascì allallà, ngiàma dà le tottò”. A voi la traduzione.

Lambasciùne (Le). L’ho italianizzato un pochettino. Al singolare lampascione o lampagione. Va bene sia la “b” che la “p”. Si dice “le lampasciùne se zàppene” (vedi zappuglia), nel senso che bisogna farsi il culo a galettone (vedi) zappando per raccogliere i lampasciuni. Infatti i lambasciuni o lampasciuni crescono a una trentina di centimetri di profondità e per scapparli (sradicarli) bisogna zappare parecchio. Dimenticavo, le lampasciùne sono i cipollacci col fiocco, e la sua morte sono lessi, scazzati con la forcina (ricordate? Quella che si torce quando si mangiano gli spaghetti) nel piatto e conditi con una croce d’ègghjie (olio). Sale e pepe quanto basta. Il termine croce è utilizzato figurativamente.

Làmbe (U). Significa “lampo”.  Indica però un dolore acuto che ti viene all’improvviso. In dialetto non si dice “ti viène” ma “ti spàra”. “Mi è sparàto un làmbo nèlla spàlla”.

Lanzètte (La). Anche la “lanzètta” è un dolore lancinante che ti viene all’improvviso. “Lanzètta”, infatti, significa piccola lancia.

Làrme (La). La lacrima. Generalmente si usa in ben altro lessico totalmente diverso da quello del dolore. Fammi assaggiare una “làrme” di parmigiano. Sta per scaglia di formaggio insomma.

Lassà. “Lasciare”. In barese, per dire, “ebbene sì, ho capito tutto, ciò nonostante non contare su di me, anzi da ora in poi non ne parliamo più!”, si dice “làssame ammè!”. Notevole sintesi! Significa “làsciami a mè”.

Lassàbbe. Terza persona singolare del passato remoto di lasciare. Letteralmente significa “lasciài”. In realtà significa “restai impietrito dalla stupore”, “rimasi di stucco”.

Làtte d’acjièdde (U). Va subito detto che significa “latte di uccello”. Ha due significati assolutamente opposti. Trattare qualcuno a latte di uccello significa trattare qualcuno con un essenza prelibatissima, ai confini del reale, visto che il latte di uccello non esiste e se dovesse esistere, sarebbe talmente confinato nelle microquantità da diventare un nutrimento assolutamente prezioso. A fronte di un così poetico significato, c’è un significato altrettanto particolare ma assolutamente pesante. In questo secondo caso il latte di uccello potrebbe essere anche lo sperma. Non fatemi dare ulteriori spiegazioni, vista la sua totale evidenza.  

Lavadjìende (U). Un altro tipo di schiaffone. “Lavadènti”.

Lavamusse (U). Siamo sempre nel ampo dei ceffoni. “Làva mùso”.

Lecchètte (A). A lucchètto significa che una cosa è stata eseguita alla perfezione. Come anche assume il significato di “giùsto!” quando si è d’accordo con un provvedimento preso nei riguardi di qualcuno.
 
Leggìtteme. E’ uno strano termine. Non significa legittimo. Nel corso di una conversazione, assume il significato di “alla via così”. Per esempio, per dire che in un palazzo i costruttori avevano costruito un primo piano ricco di decorazioni e di fregi, ma, avendo terminato i soldi, dal secondo piano in su hanno “tirato dritto”, evitando inutili abbellimenti, si dice: “hànne (oppure jònne) fàtte u prìme piàne bèlle rìcche, po’ sò fernùte le terrìse e se ne sò sciùte leggìttime” “hanno fatto un bel primo piano, poi, avendo finito i soldi,  se ne sono andati su legittimi”. Come dire hanno continuato a lavorare “pulito, senza tanti fronzoli”.

Lepòmene (U). Il “lupomannaro”. Che poi significa letteralmente “il lùpo uòmo”.

Lessìe (La). Accento sulla “i”. Significa letteralmente “liscìvia”. La lissìa è una specie di impasto formato da acqua e cenere che si spargeva sul colmo del galettone dove erano stati in precedenza sistemati i panni freschi di bucato, per poi farli riposare per qualche ora sotto questo impasto. La cenere che veniva sparsa su questa superificie funzionava da sbiancante e da blando disinfettante era chiamata “lessìe”. Vedi “cenarùle”. Lo stesso sistema veniva usato anche in Veneto. E’ straordinaria la somiglianza dei termini. In dialetto barese italianizzato si scrive “Lissìa” nell’alta Marca trevigiana si scrive “Lìssia”. Sempre a proposito delle comuni origini adriatiche.  

Liùne (Le). Nulla di quello che si potrebbe pensare. Il leone al singolare vuol dire “leone”, mentre i liùni al plurale significano “legnàme” grezzo, buono per accendere il fuoco. I liùni in napoletano sono detti genericamente “lignàmme”. Mi raccomando, non legno. Molti credono che il vecchio detto napoletano sia “chiàcchiere e tabbacchère e’ lègno o Bànco e’ Nàpule nun ne impègna” “chiacchiere e tabacchiere di legno il Banco di Napoli non ne impegna”. No, il detto originale è ” Chiàcchiere e tabacchère e’ lignàmme o Bànco e’ Nàpule nun ne impègna”. Esiste un detto barese, indirettamente mutuato dal latino “Labor necat leonem” che così recita. “La fatìche accìde u liòne”.  Il lavoro ammazza il leone.

Llòse (U). Significa “còlpa”. Responsabilità in un fatto negativo. Vedi cane mazzo.

Lòffe (La). Attenzione, senza la i di lòffia! E’ il contrario di calcàssa. E’ una scorreggia micidiale, silenziosa e traditora. In italiano gentile si direbbe puzzetta. Si sconsiglia di mollare lòffe in ascensore. Per concludere la trattazione, consultare la voce “pèpito” ampiamente argomentata.

Loffiànde o Loffiandìne. Sta per lòffio, scadente. Una persona loffiànte è anche una rifàlda. La rifàlda è un tessuto non tessuto, molto scadente, che si mette nell’interno delle tasche degli  abiti, dietro la fodera, per dare un minimo di rigidità.

Lost bread. Venivano così affettuosamente indicati, negli anni sessanta, i giovani vitelloni intelligenti e simpatici. Erano per lo più i diretti discendenti dei vitazzuoli degli anni cinquanta. Lost bread appartiene all’inglese maccheronico e significa “pane perso”. Le persone meno acculturate dicevano e dicono in barese  “pàne pèrse” non conoscendo l’inglese. Ma fra i pani persi e i lost bread in realtà l’unica differenza era il censo di quelli che usavano questo modo di dire. A questa raffinatissima categoria va aggiunta la categoria degli squagliasòle. “Le squagghjiasòle “. Erano costoro i lost bread proletari, i gagliardi figli del popolo barivecchiano. Uno squagliasole quasi sempre raggiungeva dei traguardi da far impallidire gli ozi di Capua. Un vitellone quando arriva ai cinquant’anni, viene comunemente definito “giovanotto antico”. Sull’argomento a Bari si potrebbe scrivere all’infinito.

Lùrde (U). Significa “lùrido”. Al femminile “la lòrde” ahimè significa “puttana”. Sempre per quell’orrendo retaggio maschilista che è ancora duro a morire.

Lùzze (U). E’ la guardia municipale barese. Viene dall’urlo “allùzze!” lanciato dagli scugnizzi baresi quando vedevano all’orizzonte una guardia in bicicletta che stava avvicinandosi al luogo di qualche loro piccolo misfatto.

Maccànne. Secondo un’altra corrente di pensiero si dovrebbe scrivere con la doppia emme iniziale “mmaccànne”. Di questo intraducibile verbo esiste solo il gerundio. “Checcàzz và maccànne?” Che diavolo stai facendo, che diavolo vai almanaccando, che diavolo vai pensando? Forse forse viene da almanaccare, ma non ci metterei la mano sul fuoco.

Maccarùne (Le). Scritto al plurale indica la pasta, al singolare “u maccaròne” è anche una persona stupida che non fa male a nessuno. Le varie paste in genere, dagli anellini dell’asilo ai gagliardi cannelloni fino ad arrivare alle larghe lasagne fatte in casa, per i baresi rientrano nella categoria dei maccheroni. Ininfluente classificarli, conoscere le varie forme con i vari nomi, l’importante è mangiarseli. Ancora una volta i baresi vanno al sodo. E’ inutile perdere tempo con classificazioni che non servono a niente. L’importante è il mangiarli. Antico retaggio di momenti storici in cui la fame era un personaggio importante della vita della comunità. Il piatto reale che allieta in moltissime occasioni le tavole dei baresi, è costituito dai maccheroni al forno. In dialetto mi piace scriverlo con una parola unica “maccarùnofùrne”. Che meraviglia! Che meravigliosa meraviglia!

Madàme (La). Nel linguaggio degli scapricciatelli, della malavita, dei malacarne, dei malamente, la “madàma” è la “polizia”.

Mafìsh felùss. Pochissime persone conoscono questa espressione. E’ stata ripresa paro paro dalla lingua araba. Si pronunzia “mafìsc flùss” con la sc come “sciare” e significa “niente denari”, “bambole, non c’è una lira”. “Mafìsh” presa da solo, significa “nulla”. E’ arrivata nel dialetto barese durante la seconda guerra mondiale, con l’arrivo in Italia delle truppe marocchine al seguito degli alleati.

Magghjiàte (U). E’ il caprone. Generalmente si indica con questa parola una persona dalla testa dura e generalmente poco intelligente. Tornando al mondo animale, credo voglia anche dire “castrato”, ma non ne sono sicuro. Sarebbe molto interessante sapere quanto di effettiva cultura contadina sia presente nella mentalità dei barivecchiani veraci. Così come sarebbe molto interessante sapere se la cultura della città, intesa esclusivamente come Bari vecchio, sia stata nei tempi passati più vicina ad una mentalità da città (oggi si direbbe cultura metropolitana) oppure sia stata anche impastata di vera, ancorchè arcaica, cultura contadina. E la cultura marinara in che percentuale è presente in questo sistema? I baresi veraci vivono sul mare o nel mare? Ma in realtà quanti baresi veraci esistono? Una ricerca del genere potrebbe iniziare analizzando i cognomi degli abitanti del centro storico. Mi vien fatto di pensare, per esempio, che il cognome “Colajanni” sia uno dei più antichi cognomi baresi, antico almeno di mille anni. Infatti si può agevolmente dire che è formato dall’unione di due nomi propri Nicola e Giovanni, “Nicolaus” e “Joannes”. Nicola sappiamo quando è arrivato a Bari, quindi l’età di questo cognome potrebbe essere facilmente individuata in mille anni circa. Più passano i giorni scrivendo queste note, e più ci accorgiamo che di Bari sappiamo poco o nulla. E’ un vero peccato. Questa città meriterebbe ben altri studi. La struttura di Bari vecchio, a parere di chi scrive, è un insieme di relazioni complesse all’interno di un modello. Con l’aggravante ulteriore che lo stesso modello di cui parlo è anch’esso poco chiaro e poco studiato. Mi pare un argomento molto molto interessante. Quale dipartimento universitario dovrebbe sviscerare un argomento del genere? All’interno della Facoltà di lettere? Di Architettura? O tutte e due insieme? Con l’ausilio di quale altra struttura universitaria/culturale presente sul territorio? Penso agli storici, ai geografi, agli studiosi di merceologia, ai sociologi eccetera eccetera. Mi fermo qui sennò coinvolgerei molte persone. Sognare, però, non ha mai fatto male. Pensando poi che tutto quello che ho dianzi scritto mi è stato suggerito dalla parola “magghjiàte”.  
 
Malacàrne (U). Antichissimo termine. Ha un suono antico e nobile, da un certo punto di vista. Significa esattamente “malacàrne”. Il malacàrne è il delinquente incallito. Una brutta pellaccia si direbbe in italiano.

Malachjìedde (U). E’ il bambino vispo, acuto, intelligente. Il cosiddetto monellaccio. Da grande un malachièddo, potrebbe, dico potrebbe, diventare un malamente.

Malamènde (U). Il malamènde è generalmente una persona che si muove fuori della legge. E’ usato come sostantivo. Il malamènde è la trasposizione in barese del guappo napoletano. L’origine della parola è controversa. C’è chi dice che viene dal sostantivo “male” e c’è chi invece dice che l’origine della parola risieda nel termine “malavita”.

Malàndre (Le). Le malandre sono un organo interno della seppia dentro il quale è contenuto il nero della seppia medesima. Far riscaldare in un tegamino dell’olio con uno spicchio d’aglio. Quando l’aglio è diventato biondo, tirarlo via e mettere nell’olio bollente le malandre. Dopo qualche minuto condire un piatto di fumanti spaghetti con questo nero di seppia soffritto. Un boccone da re.

Mallatròne (U). Il mallatròne che significa “mal ladrone” è un bandito da strada, quello con il tabarro e il trombone. Vecchissimo modo di dire.

Malòmbre. Viene generalmente usato senza articolo. Significa “malòmbra”. Assume talora anche significato di iettatore. Dicesi di persona solitaria, sfuggente, che preferisce starsene in un angolo senza farsi notare troppo. Gli angoli bui sono il suo habitat naturale.

Malzionànde (U). Letteralmente e realmente significa “malintenzionàto”.

Mambròne (U). Il mambròne è un macigno. Dicesi di persona notoriamente pesante e uggiosa.

Mandellìne (U). Alla lettera significa mandolino, ma in realtà indica un particolare tipo di culo, quello “a mandolìno” per l’esattezza. Ha infatti la forma di un mandolino ma rischia qualche volta di essere un culo basso.

Mannà. Significa “mandàre”. Vedi “affangùle”.

Mannàre (La). E’ la “mannaia” del muratore quella con la quale si “tàglia” la vecchia “tònaca” (vedi).

Mannìle (U). E’ “l’asciugamàni” per le mani.

Mappine (U). Al maschile è un particolare tipo di schiaffo, mentre al femminile è lo straccio per asciugare, comunemente usato in cucina.

Martemè. Difficile da comprendere, ma si tratta di un nome proprio. E’ la traduzione letterale del nome Bartolomeo.

Mascèlle (La). E’ un pezzo di legno di circa venti centimetri per quindici dello spessore di tre centimetri circa. Viene usato come spessore, specialmente nelle impalcature.

Masciàre (La). Con l’accento sulla seconda “a” mi raccomando. Per capire meglio l’esatta pronunzia val la pena sillabare il termine: ma----sci----à----ra. E’ parola preso dall’italiano, significa “megera”.

Maulòne (U). Il maulone è un coglionaccio un po’ calasciòne (vedi).

Mbà. “Compàre”. “Chemmàre” (al femminile) e “chembàre” (al maschile). Mbà si riferisce al termine al maschile. Mbà non richiede l’articolo, mentre i due termini scritti per esteso, subiscono i rispettivi articoli. “Mbà Cicce” compare Cìccio (Francesco) ha assonanza con il genovese “bacìccia”. Al femminile esiste una lieve abbreviazione, “kema” “kema Ròse”. Ho usato la kappa perché la prima “e” non è accentata perché è muta, allora sarebbe difficile “pensare/guardare” chmà ròse”. Meglio kmà rose. O, ancora meglio, kmaròse, strascicando leggermente la “o” di Ròse, che significa Ròsa, ovviamente.  

Mbamòne (U). Vuol dire “infamòne”. “U mbamòne” è chiamato generalmente il delatore. Delatore, in primis, della polizia. Ma anche se si fa una soffiata su una marachella fatta in casa, si è considerati mbamòni a tutti gli effetti. Questo marchio, una volta preso,  non te lo togli più di dosso. Viene, ovviamente, da “mbàme” “infame”. Le espressioni “alla mbàme” oppure “alla mbamòne” (quest’ultima meno usata) significano “a tradimento” “all’improvviso”.

Mbarà. Verbo. Significa “imparare”.

Mbègne (U). Significa “impegno”. Un contratto fra gentiluomini siglato esclusivamente da una stretta di mano. Vedi “sfrasciare” dove si parla di un famoso (almeno per chi scrive) contratto in campo artistico.

Mberchià. Verbo. Viene da “pèrchia” (vedi). “Imperchiàre” dunque significa cuccare, andare in porto, concludere bene un incontro amoroso. Le labiali “p” ed “f” precedute da una emme diventano ambedue “b”.

Mbònne. Verbo. Significa “bagnàre”. Verbo stranissimo di incerta origine. Se vogliamo fare il solito gioco della coniugazione ci accorgiamo immediatamente che precipitiamo in abissi senza fondo. Per gli amanti delle coniugazioni dirò che il participio passato maschile è “mbùsse” o “mbùss” termine difficilissimo da classificare, addirittura non c’è nemmeno bisogno di scrivere la e finale muta. Mentre al femminile la “e” muta va scritta. “Mbòsse” “bagnàta” per l’appunto.

Mbrattàte (La). Quando si dipinge una porta può capitare che si imbrattino le mani di pittura. “Mbrattàte” (vedi mmòcc) vuol dunque dire “imbrattata”. A Bari vecchio è invece usato per indicare e insultare contemporaneamente una donna, affibbiandole il marchio di fottutissima sporcacciona.  

Mbregenèdde. Significa “pulcinèlla”. Il significato però è lievemente diverso dall’italiano. Dare a uno del “Pulcinella” è come dirgli che è un pagliaccio con l’aggravante dell’inaffidabilità. Si potrebbe anche scrivere “precenèdde”. In napoletano si aggiunge una “o” dopo la prima lettera, la erre diventa elle e la doppia  “d” diventa una doppia elle. Finale in “a”. “Polecenella”. Mio padre ha sempre considerato Pulcinella un grande filosofo. Mi ha raccontato una volta un aneddoto che mi piace riportare. Un giorno, a via Toledo, a Napoli, Pulcinella che stava portando sulle spalle un grosso canestro, inavvertitamente urtò un gran signore che stava entrando in un negozio. Il signore, seccato apostrofò Pulcinella con un “lurido servo, guarda dove metti i piedi!”. E Pulcinella, da gran maestro di vita, gli rispose: “Ascusate, i’ sèrve, tu non sjìerve!” “Scusate, io servo, tu non servi!”. Sublime.  

Mbresciàrse. Viene da “prjìesce” (vedi) e significa predisporsi alla festa.

Mbrezzellìte. Significa  “ringalluzzito”. Fresco di doccia, pronto alla battaglia, e pieno di prièscio (vedi). Il contrario di imbrizzillìto è “appassuàto” (vedi).

Mbriàche. Aggettivo. Sta per “ubriàco”. Donde “mbriacà” “ubriacàre”. Dalle parti di Terlizzi, ridente cittadina a nord ovest di Bari, gli alberi di corbezzolo che hanno frutti di un bel colore rosso, sono chiamati “mbriachjìedde” “piccoli ubriachi”. Sapendo che la “e” muta non si pronunzia, non so se è meglio scrivere “mbriake” oppure “mbriache”. Una decisione prima o poi bisogneà prenderla, e dovrà essere fondatamente fondata.

Mbrusà. Verbo. Italianizzandolo “imbrusàre” che significa “raggirare, imbrogliare”. Interessante la terza persona singolare dell’indicativo presente “mbrusèsce”.

Meddèsche (La). Non è altro che la mandorla molto fresca, appena colta dall’albero. Viene evidentemente da “molle”. Un attimo prima che il frutto diventi bianco, quando è ancora deliziosamente gelatinoso.

Megnjìette (Le). Usato al plurale. I minietti sono quelle piccolissime alici, che, fritte e messe sottaceto, vengono mangiate durante le feste di Natale, insieme al “comàcchio” (capitone) e al grèngo, e al “sopatàua”. Il sopatàua non è altro che il sopratavola e cioè tutta la frutta secca che si mangia generalmente a Natale. Fichi secchi, nocedde, arachidi, semenza di mellone, olive salate. Una vera leccornia.

Melòne (U). E’ il mellone bianco, quello con la scorza di un bel colore giallo e dalla forma affusolata. In barese si scrive “u melòne” e, come ormai sappiamo fino alla nausea, si pronuncia “ u m’lon’ ”. Il bello è che in arabo, questo tipo di frutto si traduce “m’lòn”.

Melòppe (La). Ecco qui un’altra bella traccia della lingua francese. La “melòppe” non è altro che la busta. E viene, come si è detto, dal francese “envelòppe”. Fortunatamente queste tracce presenti nel dialetto (vedi grìbbue) la stupidità umana non è riuscita a cancellarle dal nobile dialetto barese. Così come invece, negli anni sessanta, fu cancellata la parola “rua” dalla toponomastica barese. Parlo qui dell’attuale “via Fragìgena” ex “rua fragìgena”. Bah!

Menduà. E’ una delle parole più intraducibili del lessico barese. E’ la forma infinita di un verbo, sempre in barese, che non ha il corrispondente nella lingua italiana. “E’ stàto menduàto” significa “e’ stato cacciato via in malo modo, sbattuto fuori dall’uscio, dalla comitiva, dal gruppo, dalla moglie, dall’associazione” Significa anche essere mandato al diavolo da una ciccina a cui l’incauto si è dichiarato. Parola bellissima e densa di significati.

Mène! E’ un’esortazione a far presto. Significa “sù dài sbrìgati”,  “allora? Non battiamo la fiacca!”. In certi casi, per aumentare il peso dell’esortazione medesima si usa dire “mèna mène!”. In quest’ultimo caso la prima parola diventa “mèna” con la “a” finale, che ovviamente va pronunciata.

Mennavàcche (La). Alla lettera significa “mammella di vacca”. In realtà è una specie di uva molto grossa e saporita, con la pelle più spessa delle altre qualità d’uva. Somiglia all’uva moscata come forma e dimensione, ma non ha lo stesso sapore. E’ gradevolmente dolce, come l’uva regina, tanto per intenderci. L’unica differenza è la grossolanità della pelle.

Mènne (La).  Significa alla lettera “mammella”. Usato al singolare riconduce all’allattamento dal seno materno per cui l’espressione “piccinìnno della mènna” significa bambinetto a cui la bocca odora ancora di latte. Usato al plurale, menne, (ah! quante me ne ricordo!) va per tette gagliarde, arroganti, all’insù, significa insomma una festa erotica per tutti i maschietti di qualunque età. Donde la frase nella nota canzone: “Matalène ce ttjìene mbjìette non zò mènne ma sò sajìtte”. Maddalena perbacco! Che hai in petto? Non sono tette ma sono due saette di quelle lanciate da Giove! Anche negli altri dialetti, il termine è sempre formato da due sillabe: tètte, zzìnne, zìzze, mènne, eccetera eccetera.  

Mennòscie (La). Aggettivo dispregiativo usato nei confronti delle tette. Significa “tetta cascante”. Nasce dalla fusione di mènna(vedi) e mòscia. Povere donne! Hanno tutta la nostra simpatia e solidarietà, a fronte di questa cultura grammaticale di arcistrafottuto stampo maschilista, cultura/mentalità con la quale non abbiamo in comune nemmeno il respiro.

Menuìcchjie (Le). E’ un particolare tipo di pasta fatta in casa, parente strettissima dei cavatelli. Si tratta di un piccolo gnocchetto cavato con un dito. Somiglia alla lontana a “is mallorèddus” sardi.

Mequàte. Aggettivo, significa “fràdicio”, va bene anche “completamente tarlato”. Un dente “mequàte” è un dente cariàto, caruàte. Un vero disastro insomma.

Mestàzze (Le). I baffi. E’ chiaramente un francesismo da “moustàche”.

Mèste allandrète (U). Letteralmente “il maestro all’indietro”. Dagli inizi del 900, fino agli  anni cinquanta a Corso Cavour, nei larghissimi marciapiedi che fronteggiavano il Petruzzelli, la Camera di commercio e il Cinema Margherita, si potevano notare degli uomini che fabbricavano funi. Erano in due. Uno era l’aiutante che con una manovella fissata su una ruota del diametro di circa un metro e settanta badava a far girare la ruota con un movimento lento, uguale e continuo. Nel mozzo di questa ruota erano fissati i trefoli che venivano tenuti sapientemente dalla mano del maestro all’indietro (il secondo uomo, il cordaio vero e proprio) che, allontanandosi lentamente all’indietro dalla ruota, permetteva così alla corda di formarsi, lasciando che i trefoli si intrecciassero fra loro con continuità e sempre con la stessa velocità. Quest’uomo abilissimo nel fare in modo che i trefoli si intrecciassero in modo ottimale fra loro (i trefoli sono i componenti primari della fune stessa) si allontanava dunque dalla ruota camminando all’indietro con passi misurati e solenni, facendo in modo che la fune non cambiasse mai diametro. La fune poi veniva lubrificata con un’ulteriore passeggiata all’indietro con una mistura, composta soprattutto da sapone e olio, che lubrificava la fune stessa e la proteggeva dal rinsecchimento dovuto a lunghe esposizioni all’aria aperta. Questo lento procedere in silenzio all’indietro, era uno spettacolo di rara bellezza. Tutti i giorni, con qualunque tempo, su questi grandi spazi, per anni e anni.
In veneziano i trefoli sono detti “nomboli”. A Venezia, vicino a Calle del nombolo c’è Calle dei saoneri. Saòn in veneziano vuol dire sapone. I saoneri erano quelli che insaponavano le funi delle galere veneziane.  

Mèste (U). Sostantivo maschile. Significa “Maestro”. Qui vale la pena usare la M maiuscola. Vanno ricordati un paio di proverbi:
"U mèste jè mèstè e ù càpe jè capemèste ".
“Il maestro è maestro e il capo è capo maestro”.
Parrebbe una tautologia, ma non lo è, nel senso che ribadisce la superiorità del capo ma(e)stro sul ma(e)stro semplice.
Nell'ebanisteria e nell'arte del ferro, il martello viene considerato gia “mezzo maestro”: "u martjìdde jè mjìenze mèste ". Il martello è mezzo maestro. Un po’ come il mezzo marinaio; dove non arriva un marinaio arriva un marinaio e mezzo.

Mèste d’àsce (U). Il maestro d’ascia è il falegname.

Mestepànne (U). Il maestro dei panni, cioè il sarto. A Bari c’è stata  e c’è grande tradizione sartoriale. Mi piace ricordare una persona squisita e di alto livello professionale. Era nato a Grumo Appula ed era amico ed estimatore dei grandi pittori pugliesi e nazionali. Era un piacere vederlo all’opera mentre “progettava” un abito. Si chiamava Santino Sabatino e mi onorava della sua amicizia. La sua vita è stata virtuosamente intrecciata con la vita civile politica e artistica di Bari.

Mezzòne (U). C’è una piccola storia dietro questa parola che ormai non è quasi più usata nel lessico dialettale barese. Significa “mozzòne” ed indica la cicca, il mozzicone della sigaretta. Subito dopo la 2ndWW molte persone si sono guadagnate da vivere raccogliendo cicche per le strade e nei luoghi frequentati specialmente dalle truppe alleate. Ogni sera svuotavano le cicche dalla borsa o dalla bisaccia e, pazientemente, le aprivano tutte, buttando via la carta e recuperando quindi il tabacco, che loro rivendevano a quelli che erano capaci di farsi manualmente una sigaretta. Il tabacco era ambitissimo e richiestissimo perché i fumatori italiani venivano da lunghissimi periodi di carestia. Ricordo che molti, negli ultimi mesi della guerra, fumavano addirittura foglie secche tritate e mescolate con altre foglie. L’arrivo del ben di Dio che portavano con sé le truppe alleate rivoluzionò le abitudini degli italiani che fino ad allora avevano trascorso giorni pesanti in tutti i campi. A chi starà leggendo queste righe apparirà impensabile un fatto del genere. Si pensa che in quel periodo siano state riciclate centinaia e centinaia di tonnellate di tabacco. Va da sé che venivano ri-ri-cuperate anche le cicche delle sigarette fatte a mano, e così via all’infinito. Un caso di riciclaggio assolutamente perfetto e senza precedenti.  

Miàme. Quando ho scritto che in barese la parola “amare” non esiste, da un certo punto di vista sbagliavo. Esiste eccome! Solo che è usata nella maniera più personale che si possa immaginare. Con la solita  feroce e solida real politik, in barese, il pronome “io” si traduce “miàme” che significa letteralmente “mi amo”. Non so come dar torto ai baresi.

Mmàne. Significa “in màno”. In realtà significa “ai tempi di…” “quando viveva…”. E’ un’espressione usata spesso dagli anziani o dalle persone che si interessano alla storia. Per esempio “mmàne a Giacchìne” “mmàne orrè” “mmàne a Messelline” “mmàne a tagrànne” significa “ai tempi di Gioacchino Murat” “ai tempi del re” “ai tempi di Mussolini” “ai tempi del nostro bisnonno o del nostro avo”.

Mmjìere (U). Sostantivo maschile. Viene dal latino "merum" e significa “vino”. Far sentire bene la doppia emme. Ubriaco si dice “càreche à mmjìere “. Carico a vino. Personalmente io scriverei  ”càregammjìere”.

Mmòcc! Letteralmente significa “in bòcca!”. In realtà significa “accidènti!”. Suoi sinonimi in italiano sarebbero “all’anima! All’animaccia!”. Va immediatamente detto che codesto termine è importantissimo e assolutamente basilare nella raffinata arte della costruzione dell’invettiva e dell’insulto. Va usato sempre come prefisso. I suffissi che di volta in volta lo accompagnano sono praticamente infiniti. Elenchiamo qui i più comunemente usati: “attè, ammàmete, assòrete, acchitemmùrte” oppure, rafforzando ulteriormente la frase, “acchitestramùrte”. Altri importanti suffissi sono: “opecciònedemàmete, opecciònedesòrete” che possono essere arricchiti con l’ulteriore suffisso “chedachiàveche” al femminile “cudechiàveche” al maschile, “chìde chiàveche” al plurale maschile, “chède chiàveche” al plurale femminile, sempre scritti in unica parola. Esiste un suffisso usato soltanto al femminile singolare che è “chedambrattàte”. In alcuni casi molto pregnanti il termine “pecciòne” viene sostituito dal nobilissimo termine “fèsse”. Per esempio “mmòccallafèssedemàmetechedachiàveche” va letto e profferito con sapienza e con sottile piacere senza frapporre assolutamente alcuno spazio.
Nella stessa maniera va profferito l’insulto “mmòccopecciònedechedachiàvechedesòretechedambrattàte”. Le combinazioni, o le combinazioni con ripetizione sono frequentissime e danno luogo ad una sterminata varietà di insulti, che come tutti sanno, rendono assolutamente più preziosa e colorita una discussione fra sodali. E’ fondamentale sapere che nelle varie articolazioni combinatorie, “mmòc” può essere tranquillamente sostituito da “ngùle” (vedi), che ovviamente significa “in cùlo”.
Valga per tutti l’esempio “ngùlopecciònedechèdachiàvechedesòretechedambrattàtechiènachiènedepuppù”. Come si può agevolmente notare, si aprono scenari maestosi e pregni di significati e di infinite varietà combinatorie. La componente volgare, peraltro ininfluente, scompare di fronte a tale potenza espressiva dovuta, giova ripeterlo, a raffinatissimi meccanismi mutuati dal calcolo combinatorio e da teorie che si rifanno alla prefabbricazione.
A conclusione di questa dottissima dissertazione va ricordato che “mmòcc” e “ngùle” sono ambedue delle contrazioni delle ripettive parole originarie “vaffammòcc” e “vaffangùle”, che qualche volta sono anche pronunziate con una sola effe, tipo “vafammòcc” “vafangùle”. Questa perdita della effe dà una certa qual signorilità all’insulto in questione. Signorilità che si può evincere appunto dalla perdita della doppia effe che, proprio a causa del suo essere doppia, rafforza l’epressione stessa.

Mmòlafùerbece (U). E’ l’arrotino vecchio stampo, quello che aveva tutta la sua bottega su un carrettino ad una ruota, ruota che, facendo mutare posizione all’accrocco, diventava uno straordinario volano fatto ruotare con una stecca di legno orizzontale parallela al suolo e fatta andare su e giù con il piede. Un miracolo dell’ingegnosità umana. Poi si passò alla bicicletta, ma, ahimè, ormai l’intelligenza creativa e costruttiva si andava sempre più raffreddando. Se qualcuno dovesse avere in qualche ripostiglio un attrezzo del genere lo custodisca con assoluta gelosia e cura. Basterebbe anche una vecchia fotografia. Pensateci.

Mò. Significa “adesso”,  “in questo momento”.

Mofallànne. Esattamente un anno fa.

Momò. Significa “esattamente adesso”, “proprio in quest’istante”.

Moscie (La). La “Mòscia” e la “Sòcia” (vedi) erano due quartieri molto malfamati che esistevano a Bari fino a circa quarant’anni fa. La “Moscia” era localizzata alla periferia nord di Bari, verso la Fiera del Levante, grosso modo all’incrocio fra l’Estramurale e la via che conduce a Napoli, mentre la Socia era situata al centro della Bari murattiana, di fronte alla Caserma Picca in piazza Sant’Antonio. Queste due realtà urbane erano guardate con diffidenza e sospetto dalla buona borghesia barese. Finchè un giorno le famiglie che abitavano questi due mini insediamenti non furono “deportate” al CEP, quartiere residenziale popolare nei pressi dell’aeroporto di Bari. Il risultato di questa deportazione di massa (di questo trasferimento di abitanti si direbbe in linguaggio urbanistico) è che da un giorno all’altro in questi gruppi sociali diseredati e strappati dalla loro naturale residenza, ancorchè inadeguata e mal distribuita dal punto di vista fisico, la microcriminalità fece un balzo abnorme in avanti. Nella condizione iniziale si trattava di un sottoproletariato confinato in vecchi caseggiati/ghetto ma che aveva grandi ed evidenti connotazioni di familiarità, di interdipendenza, di vicinato, di grande solidarietà fra i componenti lo stesso gruppo sociale. Nella nuova condizione invece, il sottoproletariato, al quale erano state tagliate sotto i piedi le proprie radici, si trovò a dover fare i conti con una terribile solitudine e con un orrendo ambiente urbano, sebbene più “contemporaneo”, ma per nulla “moderno”. Il risultato, come ho detto, fu quello di far diventare questi gruppi sociali un serbatoio senza fine di microcriminalità che non accenna a diminuire. Non c’è paragone fra il grande senso di appartenenza alla propria comunità e la solitudine sopravvenuta in seguito al trasferimento. Impressionante la rapidità con la quale questi nostri concittadini, nostri fratelli, intelligenze di prim’ordine, si siano deteriorati e si siano spostati verso meccanisimi incivili che erano sconosciuti ai loro genitori e ai loro nonni. Una tragedia annunziata. Della quale, chissà perché, non se ne parla mai volentieri. Una cosa è certa: io, da bambino passavo tutti i giorni davanti alla “Socia” e non ne traevo nessun turbamento. Va detto che mio padre e mia madre erano dei normalissimi piccolo borghesi che conoscevano benissimo l’esistenza e il significato di tali microcosmi sociologici. Mai sentito da parte loro commenti sull’argomento. Non so oggi se i cari buoni borghesi baresi farebbero andare a spasso i loro cari virgulti da soli nel CEP o in periferie urbane similari. Queste due enormi differenze comportamentali ed educative basterebbero per impiantarci su una tesi di laurea sulla qualità della vita. A proposito di periferie urbane degradate, i nodi stanno venendo al pettine, vedi quello che sta accadendo in Francia, anche se in questo caso particolare nei protagonisti gioca un ruolo fondamentale il ricordo delle colonie francesi dell’altra parte del mediterraneo.
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DIZIONARIO DI TERMINI BARESI SECONDO FRANZ FALANGA CONSISTENTE IN OTTO PARTI Empty DIZIONARIO DI TERMINI BARESI SECONDO FRANZ FALANGA QUINTA PARTE

Messaggio  Admin Mar Ago 12, 2014 9:52 am

Mossìste (La). E’ una deliziosa parola che viene certamente da “mossa”. Dicesi mossìsta una ragazza che accentua più del normale le sue caratteristiche femminili. Nel senso che è più sbarazzina del solito, che è fin troppo incline a capricci e frivolezze varie, che si fa notare molto per i suoi atteggiamenti sopra le righe.

Motedesànghe (U). Gagliardo modo di dire. Letteralmente significa "mòto di sàngue". Sta a significare un' emozione violentissima in negativo o in positivo, un sommovimento di sangue. Generalmente chi sta scrivendo queste noterelle  ha un moto di sangue tutte le volte in cui gli capita di incontrare sulla sua rotta un paio di tette sublimi. Al moto di sangue subentra la "furia di sangue" che indica il passaggio dalla contemplazione alla scrittura. Quando si passa dalla teoria alla pratica, quando si passa, insomma, alle vie di fatto. Va subito detto che l'autore del detto "furia di sangue" è Tonino, la chitarra dell’Ensemble,  che a sua volta l’ha mutuato dal fratello Angelo. Si deve anche a Tonino la nascita del neologismo "scrivere" che, con grande e superbo spirito di finezza, sostituisca icasticamente il verbo "scopare". C’è stato un tempo in cui la gioventù barese, non essendo afflitta da certe preoccupazioni di ordine medicale presenti all’oggi sulla scena mondiale, in primis l’AIDS, scriveva moltissimo senza tante paure. Ricapitolando, si ha un sommovimento di sangue quando, all’improvviso, ci si trova in presenza di una strafiga siderale, di una donna dalla assoluta  bellezza mediterranea. Tutti i sensi immediatamente si rimettono in discussione e l’attenzione si concentra in modo assoluto sull’oggetto del desiderio. Auguro ai miei cortesissimi quattro lettori un moto di sangue al giorno. Ancor meglio sarebbe se poi al suddetto moto seguisse una corretta e giusta soluzione del problema.

Mudù. Esclamazione. Sta per “Madònna!”.

Muèrte (Le). Viene usato solo al plurale, quando si tratta di insultare qualcuno. Significa “morti”. E’ usato in modo estremamente raffinato nell'insulto, che, come tutti sanno, appartiene di diritto alle categorie dell'Arte. La parola "mòrti" viene generalmente preceduta dall'invito "affancùlo" o "affangùlo" e viene rafforzata dal termine "stramòrti" che ha in sè qualcosa di tenero. “Chitèmmùuurte” oppure “Chitèstramùuurte”. Questi due termini vanno pronunziati tutti insieme prolungando convenientemente  la “u”. Per la costruzione dell’insulto, con tutte le varie combinazioni, vai a consultare “mmòcc”. Ripeto che la “u” deve sentirsi oltre ogni misura.
Potrebbe accadere che qualche bestemmiatore non avesse inclinazione nel bestemmiare i morti. Nessuna paura, i baresi, come detto, non si fanno mancare niente. Basta sostituire i morti con i vivi. Per cui avremo “chitèbbìve” e “chitèstravìve”. Nei vivi semplici permane la “b” al posto della “v”. Negli stravivi la “v” riprende il suo posto.
Le combinazioni sono infinite. Un esempio per tutti “Vaffangùle a chitèbbìve e stravìve, chjìde chjìne chjìne de puppù”. Oppure “de sìve”.
Nei territori di Taranto si tocca il sublime quando si manda qualcuno affanculo ai propri morti e stramorti con l'avvertenza per il destinatario dell’insulto, che il cortesissimo invito non è valido se non lo si pronuncia tre volte di seguito con le mani alzate e con i palmi aperti verso il malcapitato interlocutore.

Mùezze (U). Jìnde o mùezze, letteralmente “nel mucchio”. A mùzzo, ad occhio, a spanne. Una maniera grossolana di misurare qualche cosa

Mulacchjìedde (U). Letteralmente “piccolo mulo”. Un mulacchjièddo o un mulacchiòne, indicano una persona (nel primo caso molto giovane, nel secondo caso avanti con gli anni)) dalla testa estremamente dura. Difficile da manipolare. Un testardo.

Mùsse (U). La bocca. Generalmente questo termine viene usato nel lessico famigliare quando si ordina ai bambini di non sporcarsi il muso con la frutta, con il cibo in genere.

Nàche (La). E’ la culla.

Nàsche (Le). Sono le narici.

Naschètte (Le). Generalmente si usa questo termine per indicare il nasino dei bambini.

Nascònne. Verbo. Infinito. Significa “nascondere”. E’ anche un gioco, il comunissimo nasconderello.  

Natìcchjie (U). Il natìcchio è quel piccolo nottolino che, ruotando su stesso, permette di chiudere approssimativamente un piccolo sportello, nei mobiletti di cucina per esempio.

Nàzze nàzze. E’ uno stranissimo e splendido modo di dire. Modo dire che viene usato anche fuori del territorio barese. Farsi “nàzzo nàzzo” significa farsi una mangiata pantagruelica di rara magnificenza. Per estensione, anche farsi una gita bellissima, una scopata faraonica, ascoltarsi un concerto di rara bellezza. Insomma farsi nàzzo nàzzo di qualsiasi cosa significa saziarsi fino all’inverosimile di cose belle e benfatte. La peculiarità di questo modo di dire è che non esiste il termine “nàzze” usato singolarmente. Viaggia sempre in coppia con il suo gemello.

Ndàcche (La). Oppure “ndàkk”. Volgarissima parola. In italiano significa “tàcca”. Un bastone di legno con un graffio profondo ha una ndàkk. In realtà significa l’organo sessuale femminile.

Ndaratànde. Significa “nel frattempo”.

Ndestà. Verbo, significa “indurire”, usato in modo riflessivo. Viene generalmente usato quasi sempre nel lessico erotico. “U acjìedde se ndòste”. Avete capito tutti.

Ndràmalònghe (La) (Nu) (U) . Viene chiamata così una persona molto magra e molto alta. Letteralmente significa “lungo pezzo di interiora” Bah!

Ndràme (Le) (La). Al singolare e al plurale significano sempre “interiòra”.

Ndrasàtte (Alla). “All’improvviso”,  “nel frattempo”. Vedi anche il quasi sinonimo “secherdùne”.

Ndrattjìene (U). E’ esattamente “l’intrattenimento”. Appartiene al lessico familiare, alle complicità benevoli fra grandi nei riguardi dei ragazzini. Quando una madre vuol fare un lavoretto in casa e non riesce a farlo perché il Pierino di turno è lì che va su e giù mettendo la mamma nell’impossibilità di fare qualche cosa, la madre medesima dice al figlio vivace “vai giù al negozio della Carmela e fatti dare quattro soldi (adesso si direbbe venti centesimi) di ndrattjìene”. La Carmela comprende benissimo l’esigenza della mamma e con varie scuse riesce a trattenere il ragazzino in negozio per un certo tempo permettendo così alla mamma di completare la sua faccenda domestica. Chissà se oggi nel 2005 questa usanza esiste ancora. Mi augurerei di sì.
 
Ndreppequà. Magnifico verbo onomatopeico la cui coniugazione è complessa e difficile come la risoluzione di un integrale triplo. Significa “incespicare”.

Ndrevegghjià. Verbo. Viene da “ndràme” (vedi). Praticamente intraducibile. Grosso modo sta per “aggrovigliare di interiora”. Più chiaro se lo traduco in romanesco “intorcinarsi le budella”. Insomma quando si è in presenza di una situazione improvvisa molto negativamente coinvolgente, quello è il momento in cui, in preda a fortissime emozioni, ti si aggrovigliano dentro le budella.

Ndrezzuàte. Significa “arrotolato” in modo molto confuso e inestricabile. Per cui “ndrezzuà” significa arrotolare e “strezzuà” significa srotolare.

Ndùne. Significa “gratis”. In alcune regioni italiane si usa “àgratis”.

Nervatùre (La). Termine complesso. Usato particolarmente dalle donne quando devono dire che qualcuno o qualche cosa ha fatto loro saltare i nervi. Sta per l’intero sistema nervoso. “Mariteme, quando deve darmi i soldi, mi fa venire la nervatùra” “Mio marito ogni volta che deve scucire dei soldi mi fa “venire” i nervi” Già perché la nervatura, come caratteristica, ha quella di venire. Quasi venisse dall’esterno. Mentre in Campania i nervi non “vengono” ma “vengono toccati”. “Chillu llà me tocca è nierve”, “quello lì mi fa diventare nervoso”.

Nestèrze. Significa “l’altro ieri”. Allora un piccolo ripassino. Crà, pescrà, pescrìdde, pescrùdde. Domani, dopodomani, dopo dopodomani, dopo dopo dopodomani. Jòsce, ajìere, nestèrze, diaterze (da dies tertia). Oggi, ieri, l’altroieri, l’altro altroieri. In tutto abbiamo la disponibilità di indicare ben otto giorni fra avanti e indietro.

Nevère (La). La nevèra era generalmente un ambiente sotterraneo dove si conservava per l’estate la neve che vi veniva depositata d’inverno. La trasportavano giù dalle Murge.  A Bari vecchio, vicino la cattedrale, c’è l’Arco della Neve. Si pensa che nei paraggi o addirittura sotto ci fosse un deposito di neve. Serviva per le bibite estive.
 
Ngànne. Avverbio di luogo. Letteralmente significa “in gòla”. In barese ngànne ha un suono e un significato dolce e diverso perchè è una delle parole più usate durante la buona stagione. Infatti d'estate si va “ngànne ammàre” (in gola al mare, cioè in riva al mare) per trattenersi dolcemente, per godersi il fresco venticello al tramontar del sole, per stare con gli amici, per fare i pomodori (vedi) con la ciccina, per utilizzare insomma nella maniera migliore il proprio tempo libero. Questo termine assume altro significato nella frase “ la vòle ngànne “ “la vuòle in gòla”, che in realtà significa “ non ha nessuna voglia di …”  Presa così com’è, senza aggiunte, la traduzione latina di “la vòle ngànne” è “labor necat leonem” che, a sua volta, ha anche una sua nobile traduzione in barese : “la fatìche accìde u liòne”,  cioè “il lavoro ammazza il leone”.

Ngappàte. E’ il participio passato di incappàre.

Ngaramàte. Participio passato di “ngaramà”. Appartiene al lessico dei pescatori. Quando un amo si impiglia negli scogli dei fondali si dice che si è “ingaramàto”.

Ngarecà. Alla lettera significa “incaricare”. Solo che in barese assume ben altro significato. “Non te sì ‘ngarecànne” “non andare ad incaricarti” significa “non preoccuparti, me la vedo io, me ne occupo io”. La solita capacità di sintesi dei baresi.

Ngarzà. Verbo. Vedi "gàrze". Al significato letterale di abboffarsi, va però aggiunto anche il significato piu esteso di "imbottire". Una focaccia ingarzàta di provolina (in Italia generalmente chiamata mozzarella). Un panino ingarzato di mortatella (ricordarsi la t!). Una brasciola ingarzàta di provolone piccante e prezzemolo, una cinquecento ingarzàta di tifosi che vanno a godersi una partita di calcio del Bari. Vedi “sgarzàre” che è il suo contrario.

Ngattùre. Tenere qualcuno “ngattùre” significa letteralmente tenere qualcuno in cattura. In realtà significa tenere qualcuno “sotto tensione” “sotto stress”. Indica una pesante situazione psicologica di sofferenza. Quando una persona, suo malgrado, è costretta a subire una sofferenza pesante molto vicina alla rottura totale dei coglioni. Un figlio che non ubbidisce e bisogna controllarlo in continuazione, una moglie isterica, un marito scansafatiche che preferisce andare al bar con gli amici, un problema di lavoro che non si risolve, ebbene tutte queste situazioni tengono la persona terribilmente in cattura. Sono, insomma,  una gran rottura di zebedei.

Ngegnà. Verbo. Se volessimo italianizzare diremmo ingignàre. Iniziare per primi qualunque cosa.

Ngenàgghjie (La) (Le). La parte interna del ginocchio, quella immediatamente sopra il polpaccio. Il termine deriva da uncino. “Dare nelle nginàgghie” a qualcuno, fa parte dell’attività calcistica. Non bisogna farsene accorgere dall’arbitro. Si rischia l’espulsione. Mentre il ginocchio vero e proprio si dice “scenùcchie”. A proposito di scenùcchie i baresi più grevi, diciamo quelli meno acculturati,  utilizzano il termine scenùcchie come sinonimo di ciòla (vedi).

Nghezzà. E’ uno stranissimo verbo, di cui è difficilissimo dare la traduzione. Mi spiego meglio. Viene rarissimamente usato da solo. Nella maggioranza dei casi è usato con la negazione “non”. Per cui “non me ngòzze” significa che non ne ho nessuna voglia. Per cui “ngòzze” significa aver voglia, se tanto mi dà tanto. Solo che chi scrive raramente ha sentito la frase “me ngòzze” che ovviamente, significherebbe “ne ho voglia”. Comunque ci siamo capiti. Da questo stranissimo verbo riflessivo, che italianizzandolo si potrebbe scrivere “incozzàre”, discende il detto “la fatìche se chiàme checòzze………… e qui una lunga pausa.  Spesso la frase non viene neanche terminata, perché si sottindende il resto e cioè “e ammè non me ngòzze”.  Mi son incartato in un ragionamento dal quale non riesco a venirne fuori. Non parliamo poi delle coniugazioni. Ecco il presente del verbo nghezzà. Me ngòzze, te ngòzze, a jìdde nge ngòzze, annù nge ngòzze, avvù ve ngòzze, acchìde nge ngòzze. E così ci troviamo per la prima volta in presenza di un verbo che è inconiugabile al presente. Per estensione, possiamo pensare che esistono altri verbi che non si coniugano.

Nghianà. Verbo, significa “salire”. Anche qui la coniugazione porta a crisi di nervi, gironi di testa ed altre levità del genere. Se provo a declinarlo al passato remoto, italianizzandolo, vien fuori un ingorgo spaventoso di lettere e vocali che è paragonabile a una sbronza di birra. Jì nghianàbbe, tu nghianàste, jìdde nghianò, nù nghianàmme, vù nghianàste, chìde (llòre) nghianàrene. Il suo contrario è “ascènne” (vedi).  

Nghiavecàte. Aggettivo. Significa “inchiavicato”. E’ generalmente usato per indicare una persona che si è inguaiata, impegolato con un affare di soldi, con una donna, con un giro di amicizie “guastate”. Interessante sapere che impegolare viene da “pegola” che in veneziano significa “pece”. Sporcarsi di pece non è gradevole. A parte il fatto che è molto difficoltoso il pulirsi.

Nghjiemmòne (U). E’ qualcosa di molto ingombrante e pesante. Un filmone storico pieno di scene magniloquenti e prolisse, melodrammatico e proclive alla lacrimazione continua, è il classico “nghiummòne” o “imbiummòne”. Film da evitare come la peste dunque. Viene da “cchiùmme” che vuol dire “piombo”.

Nguàcchjie. Oggi si direbbe “inciucio”. Viene da inguacchiare che significa sporcare un oggetto con molti materiali, chessò sugo, olio, vino, pittura, inchiostro, eccetera eccetera. Significa “pasticcio”.

Nguèdde. Significa “addosso”.  

Nguèrpe. Significa “in corpo”. Ha un significato violento e volgare. Indica il luogo (le visceri) dove qualcosa entra con violenza e con tristezza. E’ usato sia dal punto di vista sessuale che dal punto di vista della fame. Sul significato sessuale, molto vicino allo stupro, meglio stendere un velo pietoso. A proposito della fame, esiste il detto “campare a pane in corpo” che sta per vivere con un tozzo di pane secco, ai limiti della sopravvivenza.

Ngùle! Forbitissima esclamazione barese. Letteralmente significa “in culo!”. Con il punto esclamativo a corredo. In barese assume ben altro significato. E’ utilizzato come forte negazione, per esempio al posto di “assolutamente no!” “certamente no!” Seguita da un pronome invece, per esempio “ngule a te!” significa “ellallà, ma non è possibile, ogni volta che ti chiedo un favore tu svicoli sempre!”. La stringatezza e, contemporaneamente, la ricchezza di termini, caratteristiche del lessico barese, sono assolutamente straordinarie. Vedasi anche “mmòcc!”. Non riesco a non citare anche un’altra variante di questo sofisticato modo di dire. La variante è “ndòcùle!”. Mi è rimasta impressa perché molti anni fa conobbi un giovane architetto che ogni cinque o sei parole del suo forbitissimo eloquio, qualunque fosse stato l’argomento intorno al quale si discuteva, ci inseriva inesorabilmente l’espressione “ndòcùle!”  

Nonònne (U). Il nononno è il “nonno”.

Nonùnne (U). Trattasi del “bisnonno”. Ho ascoltato anche la versione “nunùnne”.

Nòre (La). “Nuora”. Viene pronunciata quasi sempre con la stessa malagrazia con la quale vengono profferite le parole “sròche” o “seròche” (vedi). Eggià, ci sono delle parole condannate ad essere sempre pronunziate con malagrazia. Fateci caso.

Nòve. Significa quello che si legge, “nòve”. La “o” sempre rigorosamente stretta e un po’ strascicata.

Nùdde. Significa “nulla”.

Nùzze (U). E’ il “nocciolo”.

Nzemelà. Bel verbo, usato in quasi tutta la Puglia. Significa “racimolare”, mettere insieme centesimo dopo centesimo, raggranellare. In agro di Corato, ridente cittadina a nord ovest di Bari, “nzimilàre” significa anche il ritrovarsi in un certo luogo. Ci “nzimiliàmo” domani mattina alle sette in piazza. Ci “racimoliamo” domani mattina alle sette in piazza. Metafora di grande squisitezza. Il contrario di nzimilàre è il verbo “strùsce” (consumare). Uno strusciabène è un dissipatore di patrimoni familiari.

Nzeràrse. In italiano “sposarsi”.

Nzeràte. Significa “sposato/a”.

Nzetà. Significa “innestare” una pianta. L’innesto vero e proprio è detto “nzìte”. Viene usato anche per qualunque tipo di vaccinazione.

Nzevùse.  Significa “sporco”. Viene da sivo termine dialettale, che è il grasso sporco, sia animale che vegetale che minerale. Forse viene da “sego”. E qui, ancora una volta assistiamo alla ricchezza del dialetto barese consistente nella dovizia di diversi significati. Nzevùso vuol dire sporco, nel senso che una persona non si lava “mai”. Anche “nzevàto” vuol dire sporco, ma soltanto per un breve periodo, perché poi corre a lavarsi. Quindi “nzevàte” non è un insulto mentre “nzevùso” lo è. Al femminile fa “nzevòse”. Insomma “u nzevùse” è uno sporcaccione cronico, mentre “u nzevàte” è una persona momentaneamente sporca.  

Nzìne. Vuol dire “in grembo”. Nelle sale cinematografiche ben frequentate, quando si assiste a scene particolarmente erotiche c’è sempre qualche laureato ad Oxford che con la voce arrochita dalle sigarette invita l’attrice a sedersi “nzìne” a lui. I preliminari non sono contemplati. E’ usato anche nel linguaggio delle giovani madri. Il figlioletto, quando deve addormentarsi, generalmente lo si tiene “nzine”.  

Nzìste. Italianizzandolo diremmo “insìsto” che non ha nulla a che spartire con “insìstere”. Sta per “in gamba” “efficiente” “affidabile”. Forse viene dal termine “susta” (vedi), “in susta”. Cioè ben teso, pronto alla bisogna. Probabilmente. E’ solo una mia illazione.

Obbraccavàlle (L’). Questo termine è preziosissimo nel senso che l’uso si sta sempre più rarefacendo. Letteralmente significa “l’opera a cavallo”. Non è altro che la giostra per bambini formata da una serie di cavalli che i bambini sono felici di cavalcare. Molto belli sono i papà e le mamme che stanno in piedi a fianco del cavallo coloratissimo sul quale sta felice il bambino. Vedi anche “obbre”.

Obbre (L’). L’òbbre non è altro che “l’op(e)ra” lirica. Stranamente ha perso la prima “e” come in “oprah” che ha lo stesso significato. “Grand oprah” è il teatro più importante di Nashville Tennessee USA.

Ognatùre (L’). L’ognatura è un termine usato nel lessico degli ebanisti. Chiamasi ognatura qualunque tipo di leggerissima decorazione che si pratica unendo due pezzi di legno. Ognatura viene da unghia. “Unghiatùra” dunque, che non esiste in italiano. Ognatùra viene comunemente usato con il significato molto più alto di “caratteristica”, oserei dire “imprinting”. L’espressione “Quella è l’ognatura” sta a significare “Quello è il suo modo di fare, la sua caratteristica, inutile discuterne, non si può cambiare”. Come sinonimo di ognatura troviamo anche “sgùscio”. Anch’esso preso dal lessico degli ebanisti. Lo sguscio è parola italiana e indica la traccia che si fa sul legno quando lo si incava con uno scalpello a punta concava, simile a un grosso bulino.  

Ogne (L’). “L’unghia”.

Omòtte (oppure O’ mòtte).  Significa “per bugia”. E’ usato per indicare una innocua bugia. Può anche voler dire “per scherzo”.

Originàle!  Sempre seguito dal punto esclamativo. E’ un termine italiano entrato nel dialetto intorno agli anni sessanta. Viene generalmente detto alla fine di un discorso, di una frase, e significa “guardate che tutto quello che ho detto è la verità sacrosanta, non abbiate nessun dubbio, sono documentatissimo al riguardo!”. Stare alla larga di chi ti spara nei denti questo termine ogni venti parole. State parlando con un balordo da quattro soldi. All’espressione “originàle” si risponde generalmente “sìne sìne sìne” (sì sì va bene ho capito), guardando in un’altra direzione, con gran sufficienza. Così si fa capire al balordo che il suo gioco è stato scoperto.

Ottandòtte (U). L’ottantotto. E’ il numero civico di uno dei più celebrati casini di Bari. In realtà era il centottantotto, ma per comodità si diceva ottantotto. In una delle strade centrali di Bari, nel centro del centro di Bari. Non dico di più. E’ stato, insieme al trentasei e al villino delle rose, una delle grandi istituzioni del piacere barese. Se volessimo stilare una classifica metterei il villino (anche qui la dizione villino delle rose veniva contratta nel termine semplice ed affabile “villino”) al primo posto, al secondo a pari merito il trentasei (questo ancora più in centro) e l’ottantotto. In questi luoghi meravigliosi di delizie e di straordinaria umanità si facevano degli incontri straordinari. Non parlo tanto di quelli con le dozzinanti, quanto di quelli con i frequentatori.  

Pabbrescià. Verbo, usato generalmente al gerundio “pabbresciànne”. Letteralmente significa “papereggiàre”. Uno che se ne va in giro “pabbresciànne” sta “cazzeggiàndo”. Niente male come termine. Va letto pabberesciànno. Un po’ come beatles, letto bitols. Avrei anche potuto scriverlo “pabberescià”. Indica anche un’andatura molleggiata e disinvolta, talora anche voluta.  

Paberùsse (U). Il peperone. Significa anche schiaffo (vedi).

Paccòzze (La). La paccòzza è una manata data di taglio sull’attaccamento dell’orecchio con la testa. Va data con gusto. Chi la riceve non prova altrettanto gusto. Il termine paccòzza ha una sua profonda musicalità e suggestione. Vedi “rècchie”.

Pagghiòne (U). Il pagliòne è il pagliericcio. Stiamo parlando di un materasso riempito di foglie di granturco nei casi migliori, oppure di semplice paglia. In trevigiano si traduce “pajòn”. Esiste nel dialetto barese il colorito modo di dire “abbrescià u pagghiòne” (vedi). Come al solito in questo modo di dire è sottintesa la durezza tipica dei baresi. Bruciare il paglione a qualcuno è la maniera più diretta per descrivere un danno o una truffa fatta ad una terza persona.

Pagghiùse (U). “Pagliòso”. Viene, ovviamente, da paglia. Indica una persona che vuol sembrare quello che non è. Uno che si atteggia senza avere un minimo di sostanza. Al femminile fa “pagghiòse”.

Pàlde (La). Significa “tasca”. E’ anche sinonimo di “sàcche” (vedi).

Paliatòne (U). Il paliatòne significa un “fracco di legnate”.

Palùscene/Palanùscene (La). L’accento va sulla u. Due modi di dire comuni a buona parte del  territorio pugliese. Con “palanùscina” siamo arrivati addirittura in agro di Cerignola. Questa parola è usata per indicare le ragnatele che vengono fuori negli spigoli dei muri e nei soffitti di quegli ambienti dove c’è carenza di manutenzione. Per togliere dai soffitti delle camere la palùscina le nostre nonne utilizzavano una lunga canna di bambù all’estremità della quale era stato legato una specie di piccola scopa di saggina a forma di fuso. Quest’attrezzo era usato in primavera e in autunno quando si facevano le grandi pulizie della casa.  

Panepèrse (U). E’ la traduzione in barese di “lost bread” (vedi). Va da sé che “panepèrso” è nato molto tempo prima del neologismo in inglese.

Pannaiùne. Questa espressione formata da due parole indica la miseria nera. Il termine panno seguito da un numero indica la caratteristica di una dote data alla propria figlia. Pannadùdece, significa una dote composta da dodici esemplari di ogni capo. Dodici mutande, dodici camicie da notte, dodici lenzuola, dodici federe eccetera. Pannadù (Panni a due) è il minimo indispensabile per non annegare nella peggiore miseria. Una cambiata e basta. Pannaiùno, neanche la cambiata. Veramente una incresciosa situazione.

Pannèle (La). Sostantivo femminile. Forse viene  da bandiera. Le rècchie pannèla, sono le rècchie a svèntola.

Panòcchjie (La). La “panòcchia” (lo sappiamo che si scrive pannocchia, ma questa parola non c’entra con quella che stiamo analizzando) non è quella del granturco, ma una bella bozza, un bel bernoccolo in testa.  

Papàgne (La). Tantissimi anni fa esisteva uno sciroppo fatto con i papaveri che serviva, usato in dosi minime, a far addormentare i bambinetti che piangevano oltre ogni ragionevole modo. Si bagnava la punta del fazzoletto in questo sciroppo e la si faceva succhiare al fantolino che non voleva saperne di addormentarsi. L’effetto era sorprendente. Una materna maniera di narcotizzare i bambini quando i ciuccetti (o i ciucciotti?) erano ancora nel grembo di Giove. Attualmente la papagna è la sonnolenza che ti coglie di controra, l’estate.

Paparùele (Le). Sono i “peperoni”. Oltre al significato botanico i paparùli sono i soldi. Iùne ka tène le paparuèle tène nu sàcche de terrìsi, inzòmme jè sciàllate.

Papùnne (U). Il papùnno non è altro che l’uomo nero. Termine che veniva usato con i bambini per impaurirli e farli correre subito a letto, pena l’arrivo del papùnno.

Parabìss (U). E’ una parola stranissima, azzardo, viene da “parapiglia”. So soltanto che significa “gran confusione”. Una rissa in un mercato, produce un gran parabìss. E’ una delle pochissime parole che non si scrive con la e muta finale. Non chiedetemi il perché. Non lo so. La stranezza di questo termine è che significa anche “culo”. Nel senso che in un gran parapiglia, un barivecchiano doc una smanazzata su qualche bel culo feminile non se la fa mancare mai. Donde “ngè sò ammenàte la màne sopoparabbìss”. Le ho palpato il culo.

Parapàtteppàce. Parapàttepàce è una bella espressione utilizzata per indicare un affare, una contesa, un diverbio, che si sono conclusi in modo soddisfacente e onorevole per ambedue le parti. Come dire “pari, patta e in pace”. Notare anche qui il ritmo insito nella pronunzia. Tatatà tattà. Far sentire i due accenti.

Patàne (La). La “patàne” non è altro che la “patata”. Ha però un altro significato che purtroppo si è perso nelle secche del tempo passato. Significa anche “callo”. “Tène le patàne alle pjìede” si dice di una persona che “ha i calli ai piedi”. Mi piacerebbe fare una ricerca su quante persone all’oggi soffrino di calli e quante ne soffrissero un secolo fa. Sono convinto che ne vedremmo, si fa per dire, delle belle. La patàne era anche quel pezzo di camera d’aria che, come una bolla, usciva fuori dal copertone delle antiche biciclette. Una vera maledizione. Durante la guerra.  

Pecciòne (U). Sostantivo maschile.Vedi "chichì". Ebbene sì, ha lo stesso entusiasmante significato di chichì. Sono intercambiabili. I baresi che vanno a Venezia per la prima volta, sono sempre molto divertiti da quelli che dicono, ovviamente pensando ad altro, che Piazza San Marco è piena di piccioni. Come tutte le parole importanti, piene di storia, di plusvalori, va ricordato che il termine piccione è “anche” utilizzato nell’insulto. L’insulto principe è “U pecciòne de màmete” seguito a ruota da “U pecciòne de sòrete”. “Il piccione di tua madre”, “il piccione di tua sorella”. Insulti diretti e pesanti. Da non augurarsi di sentirseli fare. Ci sono variazioni sul tema con la pre-posizione di “mmòcc” (vedi) che significa “in bocca”. In altro e diverso contesto, un bel tipo di donna è considerata: “Un gran bel piccione”. Incerta l’origine. Forse dai piccioni nell’alta cucina. Ma nutro dei dubbi. Infatti il piccione commestibile, in barese è nomato “colombina/o”. Ritornando per un momento all’insulto, non posso fare a meno di non registrare una deliziosa variazione coniata dal prolifico Tonino Antonelli: “u pecciòne de màmete sop’ò piàtte”, “il piccione di tua madre sopra il piatto”. Per noi adepti del jazz questa frase si presta a infinite improvvisazioni sul tema.

Pecciùse. Sta per “intrattabile”. Nasce come aggettivazione data ai piccinìnni della mènna (vedi), ai bambini molto piccoli. Infatti essi diventano picciòsi, quando sono incapricciati, piangono in continuazione e non si tranquillizzano neanche davanti al ciucciotto. Dall’aggettivo picciòso nasce il sostantivo pìccio. Stamattina Giovanni ha il pìccio. Poi nel tempo anche i grandi si sono dimostrati picciòsi. L’origine del termine forse è nella parola capriccio. Un piccioso non più bambino, ma uomo fatto,  è un rompicoglioni della forza di cento cavalli, che è bene lasciar solo nel proprio sugo finchè non gli è passato il pìccio. Giova dire, inoltre, che si può essere picciòsi anche quando per un attimo soltanto si è insofferenti di tutto e di tutti. A chi non è accaduto ?

Pechèscjie (U) (La). E’ un termine riemerso faticosamente dalla memoria. Non credo venga più utilizzato. Chi scrive ricorda di averlo sentito sia al femminile che al maschile. Si tratta di un leggero soprabito, confezionato alla bell’e meglio. Forse viene da “pichè” un tipo di stoffa, duble face. Fra il perderlo definitivamente e l’annotarlo, anche se in maniera imprecisa, non c’è dubbio, lo registriamo,  qualunque sia il criterio di scrittura usato nel registrare questo termine ormai in disuso. Anche le parole rischiano l’estinzione, come del resto tutti gli esseri viventi, e, finchè è possibile, bisogna evitare che ciò accada. E, ove accadesse, bisogna conservarne la memoria. E’ un nostro dovere.  

Pechiòcche (La). La pechiòcca è un mento particolarmente pronunciato. La pechiòcca più celebrata d’Italia è il mento del principe Antonio de Curtis, in arte Totò. A Venezia la pechiòcca è detta “sbèssola”. Sinonimo di “pechiòcca” è “babbìscia”. Al maschile, babbìscio significa loffiantìno (vedi), sciocco, insulso. Quando il mento diventa  doppio, a Trani viene detto “varvazzàle”.  

Pedresìne (U). Oppure “petresìne” con la “t”. E’ nientemeno che il prezzemolo. Viene dal latino “petroselinum hortense”. Donde il comunissimo proverbio “Petresìne ògne menèstre”. Qui siamo in presenza di un eccezione: la “e” di “ogne” in questo caso particolare va pronunziata.

Pegnèle (Le). Le pignèle non sono altro che le “caccole”. Annovero fra i miei sodali, maestri raffinatissimi nell’arte antica del trattamento e dell’uso delle pignèle.  Quelli che mi leggeranno sanno di chi parlo e, soprattutto,  di che parlo.

Pemmò! Letteralmente “per ora !”. Importante la presenza del punto esclamativo. In effetti significa ben altro. E’ estremamente importante il tono con il quale viene pronunciata questa piccola parola. La tecnica consiste nel dire con voce apparentemente sterile “pemmò !” facendola seguire da un pesantissimo silenzio. Appartiene alla categoria del rimprovero o della promessa di punizioni corporali. Significa, per l’esattezza, ”e per ora accontentati di quello che ti è capitato. Ti è tutto sommato andata bene! Se per caso dovessi ripetere l’errore del quale stiamo parlando, allora aspettati una gragnuola di botte (o di rimproveri) che non dimenticherai mai più. E per ora, brutto stronzo,  cavati dai coglioni e vai in pace!”. Vuol dire tutto questo. Esempio della solita raffinata stringatezza dei baresi che non amano parlare al vento.

Pengòne (U). Sostantivo maschile. Dicesi anche pìnga (vedi). Termine di estrazione foggiana. Indica con molta discrezione il cazzo. Lo inserisco nel lessico perchè Flower Umberto me lo ha segnalato. E le segnalazioni di Flower Umberto hanno sempre una ragion d’essere. A Bari però c’è una variante che è “petengòne” che ha due significati: il primo è come “pengone”  gran cazzo in piedi, il secondo indica il gran palo di legno (una specie di capo bastone) che fa parte di una recinzione di pali in legno e che indica il più grosso, quello angolare che bada a due file di pali ortogonali fra loro.

Pèpete (U). Mi raccomando l’accento sulla prima sillaba. Il pèpito è la sonora, normale, inodore, gagliarda, virile, gradevolmente accordata sulle basse tonalità, salvifica “scorreggia”. Si raccomanda l’uso dell’esclamazione “ahhhhhhh sèhhhhhhh!” immediatamente dopo l’esecuzione. Il pepito ha come fratello degenerato “u pezzarùle” (vedi) e come sorella altrettanto degenerata la loffa (vedi). Un pèpito strazzapercàlle è un pèpito talmente forte, prolungato e gagliardo che è in grado di strazzare il percalle, di stracciare il lenzuolo. Altro modo di dire: quando si vuol significare che qualche cosa è andata per il verso giusto, si usa dire. “Appèpete”. Vedi anche “a lecchètte”.

Percè. “Perché”.

Pèrchjie (La). Sostantivo femminile intraducibile in italiano. Usato al singolare e al plurale ha lo stesso suono e la stessa scrittura. Rientra nel particolare lessico anatomico barese. La pèrchia è quella  meravigliosa piega, somigliante a un dolcissimo sorriso, che si forma all'unione della parte superiore posteriore della coscia femminile con il proprio gluteo. Insomma la curva generata dalla coscia quando incontra la chiappa. Come si può ben immaginare le pèrchie sono due. L'accrescitivo "perchiòne" al maschile indica una ciccina di rara sensualita. Esistono le variazioni sul tema: "perchiètte" italianizzata  in “perchiètta”e "perchietèdde" italianizzata in “perchitèdda”. Ambedue indicano una futura perchiona, ancora adolescente. Siccome i baresi non si fanno mancare nulla, sono riusciti a dare un altro significato a questa dolcissima parte del corpo femminile, utilizzandola in questo pesante modo di dire:
"Nge uàve ammenàte jìnde alle pèrchjie" letteralmente "glielo ha buttato nelle perchie". Questa frase esprime un giudizio spregiativo nei riguardi della fanciulla che ha subito tale avventura. Generalmente si parla qui di una scopata (comunque sempre con il di lei consenso) più fatta per disperazione/sfregio che per passione amorosa. Quando ho telefonato ai miei amici per avere ulteriori informazione sull'uso e sul significato della parola “pèrchia” sono rimasto letteralmente sommerso dall'entusiasmo con il quale veniva accolta la mia richiesta di delucidazioni. La conoscenza dell'argomento era a livelli stratosferici. Tutti comunque disapprovavano il modo di dire che ho esposto dianzi. Questo fatto faceva loro onore.

Permètte? Quando si riceve un invito del genere, è generalmente detto da un malamente. Bisogna prepararsi al peggio. Se il “permètte?” è accompagnato dall’indice alzato verso l’alto, allora sono cazzi amarissimi.

Perongìne (U). Nome di famiglia sostantivato. Significa “peroncino”. Viene da Peroni, la nota birra. E' la confezione in bottiglia più piccola di questa birra. Nel resto d'Italia si direbbe un birrino.

Perpedàgne (La). Trattasi di un locale a piano terra, oppure seminterrato, costruito e voltato con il tufo disposto in filari a letto di cava. Terminata la spiegazione tecnica ci piace aggiungere un’ulteriore considerazione. Si può anche scrivere “preppedàgne”. In questo caso esiste una versione che ci dice che il significato potrebbe essere “a propri danni” nel senso che comunque tratterebbesi sempre di una costruzione in tufo, però precaria, abusiva, come tante superfetazioni in tufo costruite nei cortili, dove piove dentro, dove non esiste fognatura, costruzione caratterizzata dall’impossibilità del proprietario a chiedere danni per eventuali perdite di acqua e quant’altro. Donde “a propri danni” che avrebbe dato origine alla parola. E’ tutto quello che so sull’argomento.

Perrjìezze (Le). I perrièzzi sono una delle caratteristiche del culo. I perriezzi di culo sono equipollenti al “prurito di culo” (vedi). Anche se imbarazzante per me, sono costretto a descriverli. I perrièzzi sono per il culo, quelle che sono le càccole (vedi pignèle) per il nasino.

Pertèdde (La). Indica la patta, l’apertura dei pantaloni maschili. Sulla muraglia, esattamente a fianco di San Nicola, fino ai primi anni del novecento c’era una piccolissima chiesetta chiamata chiesa della Portella. Questa chiesa era adibita ai ringraziamenti per il santo patrono per il ritorno a terra delle imbarcazioni baresi dopo un fortunale. In barese “La chièssie de la Pertèdde”. Quando le paranze tornavano a terra sane e salve, facevano tre grandi giri in mare, proprio di fronte a questa piccolissima chiesa, che ora non esiste più. Ma sulle vecchie foto della muraglia, antecedenti gli anni trenta, è possibile vedere questa chiesetta. E’ un vero peccato che non ci sia traccia fisica di tale manufatto. Chissà se un giorno un sindaco illuminato farà tracciare sulla pavimentazione stradale della muraglia almeno il perimetro di questa piccola importante chiesetta. A memoria della profonda devozione  dei pescatori baresi, che si meritano questo ed altro!  

Pertùse (U). Viene dall’italiano “pertùgio”. E’ un buco. Esiste tal quale anche in napoletano. Un delizioso signore napoletano, tanti anni fa, rimproverando dolcemente un suo impiegato che non riusciva a comporre un numero telefonico, allora i telefoni avevano quel cerchio forato che serviva per comporre i numeri medesimi, gli disse dolcemente, “né guagliò, ce vulèsse a làurea pe mmètte o rète rìnd’ò pertùse!” non dirmi che è richiesta la laurea per mettere un dito nel pertugio!

Pesciàcchjie dù fernàre (U). Il pisciàcchio del fornaio non è altro che la parte inferiore del pane, quella che è a contatto con il pavimento del forno. Anticamente i forni a legna venivano lavati a mano quando il fuoco, una tantum, era spento per la manutenzione. Il pavimento di mattoni refrattari era lavato con acqua e sapone come si lava normalmente un pavimento. Solo che, ogni tanto, il fornaio, quando gli scappava, faceva pipì nella galetta (vedi) che conteneva l’acqua per le pulizie e poi riprendeva a lavare. Quindi la parte inferiore del pane, quella più piatta e più gustosa, fra le sue varie componenti organolettiche annoverava anche tracce residue della sana pipì del fornaio. Almeno nelle prime infornate dopo la pulizia. Tanto ragazzi, quel che non ammazza ingrassa.

Pestregghiàte. Aggettivo, significa “confuso/a”.

Pestrìgghjie (U). Indica una situazione estremamente confusa, senza né capo né coda. Una cosa pestrigghiàta o pistrigghiàta è caratterizzata da grande e confusa approssimazione. Un tipo pistrigghiòso è uno che riesce sempre a complicare la vita a sè stesso e agli altri.

Petèjie (La). Diciamolo subito, significa “bottega”. La difficoltà è nella scrittura e nella pronunzia. Qui le “e” mute (esclusa ovviamente quella accentata, che è la seconda) non si pronunziano per niente. Se volessimo scrivere questo termine come si pronuncia scriveremmo p’ tè. Alla fine della parola far sentire un leggerissimo “ei”, ma molto molto molto leggero. Insomma se volessimo italianizzarlo al massimo scriveremmo “petèja”.

Petìscene (La). L’impetigine, chè di questo si tratta, non è altro che un’infiammazione della cute.

Petovìe (La). Quando a Bari, sostituendo il tramway, arrivò la filovia, immediatamennte fu coniato un nuovo efficace neologismo. La pedovìa. Con questo termine si indicava un modo di locomozione, affidato ai piedi, mutuando il termine da filovia. Pedovìa appunto, “via fatta con i piedi”. La filovia giunse negli anni cinquanta. Questo termine dialettale si presume sia nato quando i baresi hanno inaugurato i primi trasporti pubblici. Fino ad allora, e anche oltre, generalmente si andava a piedi allo stadio, alla spiaggia, alla Fiera del Levante, si andava insomma con la pedovìa. Di soldi in quei tempi allora non ce n’erano poi tanti. Stranamente i giovani non ne facevano una malattia. Per quello che mi è dato sapere/ricordare, l’andare a piedi alla spiaggia era considerata una festa, un fatto positivo, così come, ovviamente, era considerata una festa lo "stare" sulla spiaggia. In altre parole. L’andare, lo stare e il ritornare, erano considerati un unico gradevolissimo fatto. Al contrario di adesso, visto che i percorsi di andata e ritorno sono diventati fonte di rotture di scatole. Traffico, divieti di sosta, macchine bollenti come forni al ritorno, ingorghi terribili. Ahimè.  

Pettenàte (La). Come in italiano, vuol dire “pettinata”. Solo che ha ben altro significato. Indica una “fregatura”, un bidone, una truffa, un raggiro. Donde il noto proverbio barese. “U mègghjie amìche, la mègghjia pettenàte”. Il meglio amico la meglio fregatura. Qualche volta hai un colpo basso da chi meno te l’aspetti. Nella Marca trevigiana “fregatura” si dice “pettenàda”.

Pezzacchelòre (La). La pezza a colore è una giustificazione poco credibile di una marachella. Significa letteralmente coprire un buco in un panno di un certo colore con una pezza di un colore simile ma non esattamente uguale. Bella forma espressiva. I veneziani dicono “xe pejo el tacòn del buso” “è peggio la riparazione del buco stesso.

Pezzacchìne (U). E’ il borsellino per le monetine. In veneto si dice “tacuìn”.

Pezzarùle (U).  Questa parola, come il pèpito, è stata debitamente italianizzata preferendo usare la “o” come finale anziché la “e”, per il semplice fatto che la parola merita un trattamento di favore. Il pezzarùlo dunque, è l’infame fratello del pèpito (vedi).E’ la pecora nera, si fa per dire, della famiglie delle trombette di culo di dantesca memoria. Si esprime in vari modi. La più micidiale e corriva è il pezzarùlo vestito, che sta ad indicare una sconfitta personale di dimensioni bibliche. Perché, oltre alla beffa del tradimento odoroso, ha anche il sapore del tradimento fisico. Tu pensi di esalare un pezzarùlo e l’infame esce alla ribalta vestito di tutto punto. Poche chiacchiere, quel che temevi si è avverato, ti sei cagato sotto. C’è poi il pezzarùlo “legittimo”, quello cioè che impesta l’ambiente e basta. Di qui è nato il detto popolare che va recitato ritmandolo, quasi fosse un rap, “ci ha fàtte u pezzarùle Sandandònie ngiabbrùscie u cùle, ci ha fàtte u pèpete fetènde Sandandònie ngiabbrùscie la vèndre”. I miei amici musicisti noteranno immediatamente che è una frase ben ritmata in sedici misure. Da cui la profonda musicalità del dialetto barese.

Pezzìnghe. Significa “fino a…” oppure “finanche…”

Pezzòtte (U). Il pezzotto, insieme alla mascella (vedi) è un pezzo di legno di circa dieci centimetri per dieci per venti di lunghezza che viene usato come correttivo per ben mettere a piombo gli elementi verticali delle impalcature.

Pezzuàte (La). E’ un termine difficilmente traducibile. Letteralmente è la beccata che ti dà un uccellino sul dito. In realtà “prendersi una pizzuàta” significa prendere simpaticamente in giro il proprio interlocutore. Come anche “dare una pizzuàta” significa piluccare qualche cosa da una tavola imbandita, oltre che prendere garbatamente in giro qualcuno.

Pìcc pìcc. Molto molto poco.

Pìcce (U). Il pìccio è il capriccio. Possono avere il pìccio sia i piccoli che i grandi.

Pidocchiètte (U). Il “pidocchiètto” altro non è che il più scalcagnato cinema di periferia, quello dove si paga di meno e dove si va soltanto per far chiasso o per fare i pomodori (vedi).

Pigghjiangùle (U).Contrariamente a quello che dice mastro Sciascia, in barese il piglianculo è un furbacchione di tre cotte, lesto con le donne, furbo come una faina e affascinante anche in tarda età. Mi voglio rovinare. Mi piacerebbe perdutamente essere ricordato come nù bbèlle pigghiangùle.

Pìnghe (La). Sostantivo femminile. Vedi “pengòne”. Le origini risalgono alla Daunia. La pìnga (o la pìnca) sono di uso comunissimo nella terra di Capitanata. Dimenticavo di dire che significa “cazzo”.

Pìnue (La). Pìnua è una deformazione dell’italiano pillola. Usata anche al maschile. U pìnue.

Pombòse (La). La pomposa è una che se la dà che se la dà. Come se indossasse sempre il vestito di gran pompa, quello delle grandi occasioni, per intenderci. Esiste anche al maschile “u pembùse”.

Pondìne (Le). Le pondìne sono quei piccoli chiodini usati per risuolare le scarpe. Letteralmente sta per “puntine”.

Potàme (La). E’ una parola che ha origini antichissime. Significa  “fiumana”. “Na potàme deggènte” significa, appunto, “una fiumana di gente”. Viene dal greco “potamòs” che vuol dire “fiume”.

Preciatjìedde (Le). Usato al plurale. Sono i bucatini, quei meravigliosi spaghettoni grassottelli con il buco. A Napoli li chiamano anche “maccarùne co’ sìsche”, maccheroni con il fischio. Anticamente si ricorda il termine in questione con la “mb” davanti, “mbreciatjìedde. La “mb” sostituisce la “p”. Vedi mbregenèdde.

Predìte (de cùle) (U). “Prurito di culo”. Stranissima e coloratissimo modo di indicare il momento in cui a qualcuno punge vaghezza di grattarsi il culo. Attenzione però, i pruriti di culo non sono dei volgari desideri di grattarsi, ma appartengono alla sfera dell’astrazione, nel senso che indicano delle particolari condizioni dello spirito. Sono chiamati pruriti di culo i desideri eccentrici, che, fatto molto importante, non vengono per nulla apprezzati dalla collettività, perché ritenuti dei capricci e null’altro. Spesso si sente dire all’incauta giovanotta che si è trovata impelagata in una gravidanza non voluta da nessuno dei due: ”Ma come ti è venuto quel prurito di culo!”. Chi invece si compra una macchina al di sopra delle proprie possibilità economiche si è voluto togliere un prurito di culo. Modo di dire che è un paio di gradini sopra lo sfizio vero e proprio. Con la differenza che lo sfizio ha connotazioni che lo predispongono alla benevolenza, mentre il prurito di culo non è mai visto di buon occhio, specialmente dagli anziani della tribù. Insomma il prurito di culo è quasi sempre considerato un desiderio realizzato, ma il cui prezzo è stato esagerato con l’aggiunta di risultati dannosi per quello che si è tolto il prurito e, talora, anche per tutta la collettività.

Pregamuèrte (U) oppure precamuèrte. Il precamuèrti è il “becchino”. Da “pruquàre” o “prequàre” che significa letteralmente seppellire. Questo termine viene usato anche per indicare persona triste antipatica e di brutto aspetto. Ma soprattutto triste e, per soprammercato, vestito di scuro. Uno jettatore, alla fin fine.

Preggessiòne (La). Sta per “processione”. A Bari le processioni non si contano. La processione per eccellenza è quella del patrono San Nicola. Celebre il bel proverbio che così recita (nel solito italiano maccheronico): “le  cannèle si strùscene e la pregessiòne nan gamìna”. “Le candele si consumano e la processione non va avanti neanche di un passo”. Come dire che siamo in una fottuta situazione di stallo. A bocce ferme consumando anche inutilmente preziose energie.

Prène. Aggettivo al femminile. La fèmena prèna è la donna incinta. Prena sta per “pregna”. Difficilmente viene usato al maschile.

Prequà. Significa “seppellire”.

Prequèque (U). Siamo nel campo della frutta. I prequèchi sono quelle pesche con la pasta gialla e dura che sono degli innesti e che a Bari sono chiamate percoche. Ma è anche termine che indica soprattutto errori grossolani, errori madornali. E’ stato mutuato, udite udite, dal latinissimo “qui pro quo”.

Presàte (La). La prisàta viene da “prìso” (vedi). Non è altro che la comunissima cacata. Solo che la parola è più nobile, nel senso che indica una cacata ben fatta, di notevoli dimensioni, con tutti i colori in regola e con le connotazioni tipiche della buona salute. Chi sfortunatamente dovesse trovarsi coinvolto in un episodio diarroico, avrà fatto una normalissima cacata. Di prisate, in questo caso particolare, non se ne parla nemmeno. Questo termine è usato anche in un orrendo, perché maschilista, proverbio barese che così recita: “La presàte duuòmene iènghjie u prise”. “(E’ soltanto) la cacata del maschietto che riempie il prìso”. Veramente orrendo.

Prìse (U). Sostantivo maschile. Una gentile signora (amica di famiglia durante lo “sfollamento” a Valenzano) soleva chiamarlo “paggetto con le mani al fianco”. E' il “vaso da notte” in ceramica che è stato  usato fino a qualche decennio fa in moltissime abitazioni dei nostri centri storici. Trattasi di un cilindro alto circa quarantacinque centimetri, diametro di trentacinque centimetri circa, con una fascia circolare orizzontale sulla sommità (per la seduta) larga dai dodici ai diciotto centimetri e con due manigliette sui fianchi. Sul fascione superiore veniva delicatamente poggiato un coperchio di legno. Si racconta che molti signori del secolo scorso, trasgressivi anzichenò, utilizzassero il priso, ovviamente mai usato, per un appetitosissimo piatto di cui voglio dare notizia. Si sbollentava per circa cinque minuti una ragionevole quantità di zitoni (maccheroni di zita). In parte si preparava un sugo di pomodori freschi al basilico, e qualche centinaio di polpettine di carne, fritte, del diametro di un centimetro circa. Una volta pronti gli ingredienti si oliava il priso (ripeto, nuovo di trinca) con olio di oliva preferibilmente di Bisceglie. Poi si versava, nel priso medesimo, una quantità di zitoni sbollentati. Si condivano con il sugo. Manciata generosa delle micropolpettine fritte. Di nuovo zitoni sbollentati. Si ricondivano con il sugo. Ri-manciata generosa delle micropolpettine. Si continuava così fino a riempire il priso fino all'orlo. Formaggio grattuggiato (si consiglia il pecorino) a coronamento dell'opera. Una croce d'olio e infornare. Quando la crosta era ben evidente si toglieva dal forno il priso e lo si poggiava delicatamente sul tavolo da pranzo per una mezz'oretta, valà anche per un'oretta, per far sedere la pasta.
Dopodichè ci si accomodava  a tavola con il priso al centro.
E lì il gran colpo di teatro!
Il padrone di casa con un martello d'argento dava un colpo ben assestato al priso, spaccandolo sapientemente in grossi pezzi. Il priso si rompeva e restava torreggiante sulla tavola un maestoso cilindro di maccheroni al forno ancora fumanti, ingarzati (ricordate?) di sugo e polpettine. Ogni volta che ho scritto e riscritto questa pagina mi è venuta una frenesia pari solo a quella che provo qualche minuto prima di suonare, o qualche minuto prima di fare i pomodori (vedi) con qualche ciccina. I conti tornano sempre.
Notare invece che l'espressione "si è rotto il priso" indica anche che una certa situazione ha degenerato. Quando un fatto segreto e intrigante degenera e viene messo in piazza a conoscenza di tutti, allora si dice che è "arrivato il quadro alla piazza" oppure, meglio ancora, che si è "rotto il priso". E, sempre a proposito di questo nobile oggetto, c’è un antico racconto amoroso in cui si racconta di un tale che essendo stato lasciato dalla moglie, con una poeticità assoluta le scrisse un biglietto così concepito: “Amore mio, pè scherdàrme il tuo sorrìse, so mìse u lùtte o prìse”. “Amore mio, per dimenticarmi del tuo sorriso, ho messo il lutto al priso”. Come dire che, alla fin fine, l’essere lasciato non aveva toccato più di tanto l’abbandonato. Non c’è male come maniera di esorcizzare un perduto amore e soprattutto come buona, creanza!
Ulteriore annotazione: il priso ha come sinonimi “ze pèppe” (vedi “ze”), zio Giuseppe, e “monzignòre” che vuol dire quello che si legge, “monsignore” per l’appunto. Questa, come dire, parentela molto particolare mi pare molto divertente.  

Prjìesce (U). Sostantivo maschile.Termine che non tramonterà mai. E’ il festino, la festa alla quale si partecipa volentierissimo, il momento in cui si sta con le amiche e con gli amici in totale serenità. Una delle caratteristiche del prièscio è che viene pregustato con larghissimo anticipo. Stare impriesciàto, per l’appunto, significa essere gioiosamente in attesa. Si può anche essere impresciàti in attesa delle prossime vacanze.

Puèrche (U). Significa “porco”. La bellezza di questa parola sta nel piacere immenso che si prova quando la si pronunzia, usandola nei riguardi di una persona altra da sé. Generalmente è l’affettuoso epiteto con cui una moglie chiama il marito: “Ehi attttè! U puèrche!” Provare per credere. E’ una parola che ti riempie la bocca il cuore e il basso ventre. Mi raccomando il numero imprecisato di “t” da usare, ad libitum, nell’espressione “atttttè”! Prolungare anche il suono della “e” di “ehi” addirittura modulandola con minaccia. Su queste finesse si potrebbe organizzare agevolmente un corso di recitazione e, ovviamente, di regìa.

Purchecjìedde (U). Il porcellino. Generalmente ci si riferisce ai bambini quando si sporcano con il gelato o con l’anguria più del solito


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DIZIONARIO DI TERMINI BARESI SECONDO FRANZ FALANGA CONSISTENTE IN OTTO PARTI Empty DIZIONARIO DI TERMINI BARESI SECONDO FRANZ FALANGA SESTA PARTE

Messaggio  Admin Mar Ago 12, 2014 10:01 am

Pulìmme (U). E’ il vecchio lustrascarpe. Quel signore che lustrava le scarpe ai passanti avendo una sua poltroncina sulla strada che la notte ricopriva con una tela cerata e che toglieva la mattina seguente. Forse l’esercizio pubblico più minuscolo dei tempi andati. Chi scrive ne ricorda due a Bari, uno alle spalle dell’Ateneo e l’altro più celebre per il suo cane Fiorino, al Corso Vittorio Emanuele, se non sbagliamo all’angolo con Via Andrea da Bari. A Napoli all’arrivo degli americani vennero alla ribalta gli sciuscià (da shoe shine). Al posto del vecchio lustrascarpe di Corso Vittorio Emanuele c’è una targa in ricordo di Fiorino che era il cane del nostro pulìmme. Arrivato alla fine della carriera e avendo pochi soldi in scarsella, il povero lustrascarpe fu costretto a vendere Fiorino ad un camionista di passaggio che aveva avuto gran simpatia per questo piccolo cagnolino. Fiorino arrivò quindi alla sua nuova casa nel Nord Italia. Ma non reggeva alla nostalgia del vecchio padrone e fuggì, e riuscì, incredibile a dirsi, a tornare indietro al Sud traversando tutta l’Italia. Una bellissima storia.

Pùtre (U). E’ il sonnellino pomeridiano, specialmente quello estivo.  E’ da considerarsi un poco più importante della comune pennichella. Mentre la pennichella prevede solo l’adagiarsi su una poltrona, u pùtre (qualcuno preferisce dire la pùtre, la putrìne) prevede il mettersi in pigiama e coricarsi a letto regolarmente. Viene da “putrì” che a sua volta viene da “poltrire”. Il pùtro ha con sé anche l’aggravante, se così si può dire, della magnifica pigrizia congenita. Non dimentichiamoci che certe pigrizie appartengono alla sfera del sublime. Non è da tutti concedersi con classe al pùtro. Altra annotazione a margine, questo termine è usato solamente da persone raffinatissime, quali i gìb gìb, i pigròtti, i pàni pèrsi, i ricigliòni, gli stangachiàzze. A una normale persona non verrebbe mai in mente di addentrarsi in una finezza verbale di sì ampio respiro. Credo che questa parola sia scomparsa totalmente nelle nuove generazioni. Un vero peccato perdere queste cartine di tornasole indicatrici di spirito di grande finezza. Sarei felice se qualcuno mi smentisse. Farei volentieri ammenda.  

Quàndre (U). Forse è usato anche al femminile. E’ quel grosso contenitore tronco conico in terracotta di colore avana chiaro cosparso di piccole macchioline verdine, con il bordo arrotondato, che generalmente contiene le olive all’acqua e quelle alla calce che vengono vendute a Bari, agli angoli delle strade, ancora ai nostri tempi.

Quànne. Significa “quando”.  Avverbio nobilitato dalla bella e gentile espressione “Quànne u càzze ammène l’ògne”. “Quando all’uccello spunterà l’unghia”……. allora avverrà che…..eccetera eccetera. Espressione di immediata e fulminea sintesi. Usato anche con il prefisso della lettera “a” in  “aqquànne”, generalmente in “aqquànne mà!” “ma quando mai!” altro bel modo di dire.

Quaquìgghjie (U). Gran “confusione”. Carlo Emilio Gadda lo definì “Quer pasticciaccio….”. Ci siamo capiti.

Quarandòtte (Nu). E’ un numero, significa quarantotto. In realtà, il quarantotto in barese è un gran caos, una gran confusione, addirittura un terremoto. Ha nella sua genesi un preciso riferimento al 1848. Come peraltro in italiano.

Quàtte. Significa “quattro”.

Quattòdici. Significa “quattordici”. Ho inserito questo termine nel lessico perché ha una strana caratteristica. Si noterà immediatamente la mancanza delle erre. Ma lo strano è che anche quando un barese doc di Bari vecchio dovesse parlare in italiano corrente, continuerà a dire quattodici senza la erre.

Quicquiriquì (U). Con questo strano ed elegantissimo termine molto stranamente vengono chiamate le due estremità della baguette. In parole facili “u quicquiriquì” non è altro che il “culetto” del normale filone di pane. Dicesi anche “cheggherùzze” (vedi), oppure “ quiggrichì ”.

Quinecìne (La). Su questa parola, quindicina, comune sia al popolo barese che alle genti italiche, hanno sognato intere generazioni di frequentatori di casino. Era consuetudine che le ospiti, tutte insieme, cambiassero di casino e di città ogni quindici giorni. Ecco quindi il termine, appropriatissimo, la quindicina. Mi ricorda la parola italiana “dozzinante” che indicava un tempo le persone che erano “a dozzina”, in pensione cioè, e che pagavano la retta per la pensione stessa ogni dodici giorni. Le quindicine dei casini erano un po’ come le compagnie teatrali di giro. Va ricordato che gli esperti di quindicine erano sia i vitazzuoli (vedi) che gli sfasulati (vedi). A lampante dimostrazione che, come diceva il Flower Umberto, “quànne abbòtte abbòtte a tutte”. Il Flower non si accontentava del barese ma si esibiva anche in una traduzione in  inglese: “When abbott abbott to all the people”. Mi spiego meglio, la frase sibillina di suo significa “quando abbotta abbotta a tutti”. In questo caso particolare significa “quando tira, tira a tutti”. Per l’appunto, in questo caso “abbottare” è inteso come “gonfiare, ingrandirsi”. (Vedi abbottare). Spero di essermi spiegato a sufficienza. Va ulteriormente ricordato che i vitazzuoli andavano in casino per dei gradevolissimi incontri di lotta libera con le ciccine, mentre gli sfasulati andavano nei casini soltanto per lucidarsi gli occhi. Erano conosciutissimi dalle maitresse che li sopportavano qualche minuto più per carità cristiana che per altro, salvo poi menduàrli (vedi “menduà”) dopo pochi minuti. Gli sfasulati hanno sempre avuto tutta la mia simpatia. Pensateci un attimo e mi darete ragione.  

Ramèdde (La). La ramèdda è il tappo metallico a corona delle bottiglie che è stato completamente schiacciato per renderlo il più possibile simile a una moneta. Con le ramèdde molte generazioni si sono trastullate giocando, per esempio, a chi lanciava la ramèdda più vicino a un muro.

Rànghetànghe (U). E’ l’orango. Da orangutan.

Ranògne (La). La carissima “ranocchia”, quella che nasce “nguerpe”, nella pancia, quando si beve sempre acqua e si disdegna il nobile vino.

Rasùle (U). Oltre che “rasoio” questa parola significa “orzaiolo”. E’ un termine ormai caduto in totale disuso, ed è bene che ne rimanga traccia nella memoria storica. Anche qui l’etimo è sconosciuto. Certo che chiamare l’orzaiolo “rasoio” avrà pure una sua importante origine storica. Attendiamo informazioni sull’argomento da qualche cortese lettore.

Rattùse (U). Il rattùso è “l’arrapàto” cronico. E’ una persona capacissima di arraparsi anche guardando un semplice tergicristalli.

Recchiàle (U). Tipo di schiaffo, dato sulle rècchie.

Recchiòne (U). Fin troppo facile la traduzione. Mi interessa segnalare che al diminutivo, “u recchienjìedde” perde la sua connotazione sessuale perché indica un simpatico gaglioffo, una simpatica canaglia. Anche qui si ripete il meccanismo che dà al diminutivo connotazioni molto positive.

Rècchjie (La). La rècchia è l’orecchio. Bella espressione collegata a questo termine è “Jìnde à le rècchie” che sta ad indicare un fracco di legnate date con piacere a qualcuno. Bella anche l’espressione “paccòzze sòpe a le rècchie” “paccòzze (vedi) sulle orecchie”. Rècchia è anche uno degli angoli superiori delle carte da giuoco. Quando al poker si scoprono lentamente le carte per leggere i punti (in italiano si dice “stillare”) in barese si dice “terziàre” (vedi “terzià”), oppure in modo molto più figurato “tirare l’orecchio alle carte”. “Stasère sciàme attrà le rècchjie alle càrte”. Stasera si va giocare a poker.

Recchjietèdde (Le). Le orecchiette. Le superbe, magnifiche e salvifiche orecchiette. Salvifiche per intere generazioni di ragazze di Bari vecchio che si sono fatte la dote vendendo le orecchiette fatte dalle loro madri e dalle loro nonne. Una lunghissima tradizione.

Recòtte (La). Oltre al significato caseario la ricotta rientra nel target di quegli uomini che per mestiere fanno i protettori delle passeggiatrici. Stiamo parlando dei papponi insomma, che vengono chiamati anche ricottari. Vanno considerati alla stregua dei padroni di schiavi, padroni che si sperava fossero scomparsi definitivamente, sia come persone che come parola.

Reduìne (U). E’ un particolare tipo di schiaffo.

Refàlde (La). La rifàlda è un panno scadente che si mette in certe imbottiture dell’abito. Lo ripeto, panno scadente e di scarsa qualità. Per estensione dunque, quando si vuol dire di qualcuno che non è un granchè come persona, si dice che “è una rifàlda”.

Regghiamatèrne (La). E’ la traduzione dal latino di “requiem aeternam”. Un po’ come Deasìlvia (vedi).

Remmàte (U). Il rummàto è la “spazzatura”. L’immondizia.

Remmatjìere (U). Ovviamente il rummatière è lo “spazzino”. “O’ scupatòre” in napoletano. In veneto, l’immondizia è la “scoàssa” e gli spazzini sono “i scoassèri”. Notare l’articolo i al posto de “gli”. L’articolo plurale “gli” nel veneto è sostituito da “i”. Quando in una casa veneta c’è un matrimonio, si festeggia come in tutte le altri parti del mondo, ma in più si scrive con la calce bianca davanti l’uscio della casa dove si sta svolgendo la festa “W i sposi!”. Sempre immancabilmente con la “i”.

Remmòdde (La). La remmòdde è tutto sommato un mollusco, somigliante alle lumache senza guscio. Generalmente le rimmòdde crescono e si sviluppano in grandi serbatoi d’acqua stagnante. Viene usato per indicare una persona senza spina dorsale, una persona inaffidabile. Un mollacchione.

Repelòne (U). Un bel rupelòne è una gagliarda punizione corporale.

Resedià. Verbo, significa risarcire una fessura nel muro con la cazzuola sottile.

Restùcce (U). Il restuccio (si badi bene, usato solo al singolare) indica le “stoppie” del grano nella campagna pugliese. Stoppie che nel mese di agosto vengono bruciate per preparare il terreno alla prossima semina. Passare da San Severo in provincia di Foggia, per l’autostrada, durante il solleone alle due di pomeriggio, alla controra, con il tavoliere delle Puglie in fiamme è un’esperienza assolutamente indimenticabile. Manca come sottofondo la Sagra della Primavera, anche se lo spettacolo non è per nulla primaverile. Ma come colonna sonora val la pena di ascoltarla in quel contesto. Si rimedia con un buon lettore di CD portatile. Poi fermarsi a San Severo, pranzare bene e, al meglio, berci su del gran bianco di San Severo fresco quanto basta. Merita una deviazione dall’autostrada.

Rezzuà. Verbo quasi impossibile da coniugare, perché viene usato in modo impersonale alla terza persona dell’indicativo: “E rùzzue!”. Significa “girare intorno a un argomento ripetendosi all’infinito, procurando una terrificante rottura di palle all’interlocutore”. Sta per rimuginare continuamente ad alta voce. “E rùzzue!” significa quindi “E dalli, continua ad insistere!” Se volete avventurarvi in avventure linguistiche di rara intensità provate a declinarlo, così tanto per gradire, al presente indicativo. Per quanto mi riguarda ci rinuncio.

Rìccue (U). E’ il torsolo dei cavolfiori. Termine usato nella frase “àcquerriccue” che indica un pranzo da poveracci, Quando in dispensa non c’era assolutamente nulla, si lasciavano bollire per un po’ di tempo i torsoli di cavolfiori. Quell’acqua calda aveva parvenze di brodo vegetale. Così anche accadeva con altri ingredienti durante i tempi di carestia. Per esempio, per dare nobiltà marina ad un sughetto di pomodori, si metteva nel sugo, un paio di minuti prima di toglierlo dal fuoco, una pietra presa dal mare, che in gioventù aveva ospitato dei datteri. La presenza della pietra dava un leggero e delicato profumo di mare al sughetto, che acquistava così un fascino discreto. Stiamo parlando del mesozoico, quando i mari non erano inquinati.

Ricigliòne (U). Generalmente usato in compagnia dell’aggettivo “vecchio”. Un vecchio ricigliòne è un gagà attempato che fa tenerezza, ma che mostra sulla propria pelle e soprattutto sui propri vestiti, ancorchè curatissimi e ben stirati, l’implacabile segno del passare degli anni. Si riconosce al vecchio riciglione immensa esperienza e agilissima mano lesta nel palpare il culo alle ciccine. Va sempre rispettato. Uomini con siffatte esperienze sulle spalle sono sempre più rari. Oltre che meritevoli di stima, va loro tributata molta tenerezza.

Rigonètte (La). O anche “l’arigonètte”. E’ la fisarmonica, l’organetto. Nel nostro caso però sta ad indicare un portafogli ben ingarzato (vedi) di fruscianti banconote.

Ròcchie (La). La ròcchia è un mazzetto di qualche cosa, generalmente di ortaggi, di carciofi, di funghi.

Ròdde (La). La ròdda è un piccolissimo orticello di un po’ più di un metro quadrato, di forma generalmente rettangolare,  che si organizza nel giardino. E’ caratterizzata dai bordi di terreno sopraelevati di una ventina di centimetri, per poter contenere meglio l’acqua usata per irrigarla. In veneto sarebbe “l’ortesèl” donde Ortisei (orticelli).

Ròsue (Le). Chi si ricorda più dei gelòni? Ebbene le “ròsue” sono i “gelòni”. Ormai definitivamente scomparsi. Debellati dalle moderne forme di riscaldamento. Prima quando il riscaldamento era fornito dai bracieri o dai caminetti, era facile farsi venire i gelòni. Passando con rapidità dal molto freddo al molto caldo. i gelòni venivano alle mani e ai piedi. Le estremità si gonfiavano e si ricoprivano di macchie rosse circolari. A proposito dei tempi che furono, non sono assolutamente un ottuso lodatore del tempo passato, ma mi piace qui ricordare una bellissima frase ascoltata dall’amico Remo alla locanda alla Posta. La frase, apparentemente assurda, era la seguente: “non ci sono più i cani di una volta”. Incuriosito chiesi la spiegazione che mi intrigò moltissimo e che riporto qui. Bisogna dunque sapere che fino a una cinquantina di anni fa, se lanciavi ad un cane una scorza di pane vecchio, il cane non la faceva nemmeno arrivare per terra, la addentava al volo. Adesso, se a un qualunque cane lanci anche un pezzo di squisito wurstel, il cane in questione non lo degna di uno sguardo né di una leccatina. I cani moderni sono ormai abituati a leccornie e a bocconcini assolutamente prelibati. Non perdono più il tempo a mangiare cose che non siano assolutamente sopraffine. Mai avrei immaginato che il bieco consumismo avesse rovinato anche la sana e gagliarda cultura canina!

Rottadòsse (La). La rottadòsse, lo dice la parola stessa, indica un fracco di botte.

Rùcc rùcc (U). E’ estremamente difficile tradurre in italiano questo modo di dire. Si tratta di una parola ripetuta due volte difficilmente traducibile in italiano. Sta a significare una persona drittona, furbacchiona, malandrina, inaffidabile, affascinante e contemporaneamente senza scrupoli, disinvolta e senza freni, capace di tramare nell’ombra qualsivoglia truffa o scherzo, simpaticamente e canagliescamente simpatica, prevaricatrice ma non troppo, quel tanto che basta a far dire: ”si lo so, ma è una persona così simpatica!”. E una persona insomma alla quale si perdona quello che ad altri non si perdonerebbe mai. Più fortunato di così!  

Ruscelìzze (U). Intraducibile parola. Indica il suono gutturale di qualcuno che sta borbottando qualche cosa senza farsi capire per bene. Il ruscilìzzo equivale al rumore del bollore di una pentola sul fuoco. Significa anche il borbottio delle visceri. Non garantisco la baresità totale di questo termine, usatissimo anche nell’alta Murgia.

Ruzzulàne (U). Un ruzzulàno è un tipo grossolano, cafone, che non ha modi urbani. Generalmente viene dalla campagna (vedi cozzàlo). Parola che non ha parentele con il lessico italiano, per quel che ne so. Potrebbe venire dal verbo “rezzuà” che significa girare e rotolarsi. Rotolarsi nel fango o nel letame come i porcelli? Mah!

Sàcche (La). La sacca è un antichissima parola che indica la tasca. Interessante anche il termine equivalente in siciliano che è “sacchètta”. Ha dato origine a quattro personaggi  delle favole. Sàcche, Sacchètte, Saccòne e Mataràzze.

Sajiètte (La). Letteralmente “saette”. Ha due significati ben distinti. “Maledizioni” inviate da qualche iettatore (lo iettatore è, per estensione, chiamato anche saettòne) oppure notevole paio di “tette”. In un celebre mottetto del settecento barese si canta “Matalène ce ttjìene mbjìette non zò mmènne ma sò sajìtte”. “Accidenti Maddalena! Che cosa hai sul petto! Non sono tette, sono saette! ”. Notare il plurale sajìtte, dove è scomparsa la “e”. Per cui va privilegiata la “i”.

Salatjìedde (U). Il salatièllo è una divertente punizione corporale. A chi perde una gara di scherma, di pallone e di quant’altro, viene applicata questa punizione consistente nello spogliare completamente il malcapitato perdente e nell’esporlo al ludibrio degli amici. Molto, ma molto signorile.

Salzìzze (La). Significa, ovviamente, “salsìccia”. Molti, anche quando pronunziano in italiano questo termine, soffrono della persistenza della “zeta” che si tramuta in “c”. Infatti un gran numero di persone, magari anche  luminari della scienza, dicono “salcìccia”. È un gradevole e microscopico peccatuccio, che il più delle volte  permette di identificare le antichissime origini molto popolari del premio Nobel di turno con il quale stai parlando, magari anche a Timbuctu. Dimenticavo, con l’accento esclamativo significa “salute!”.

Sandandònie (U). Il santantònio non è altro che un gran nervoso. Non c’è niente di peggio quando a qualcuno gli viene il santantònio.

Sanghellàtte. Bellissimo aggettivo, sangue e latte, che indica, per lo più il colore della carnagione di una bella ragazza nel fiore della gioventù, acqua e sapone, si direbbe. Alzarsi una ciccina sanghellàtte è il desiderio di ogni maschietto che si rispetti. Se poi degenerasse in matrimonio, andrebbe bene lo stesso.

Sangiuannjìedde (Alla). Gli spaghetti alla sangiovannèlla sono uno dei monumenti della cucina barese. Sono un boccone da re. Ancorchè facilissimi da fare sono di rara difficoltà per quanto riguarda la riuscita. Basta aggiungere al sugo di pomodoro fresco un po’ di tonno. Ma il problema è “come” aggiungerlo e “quando” aggiungerlo. Maestro indiscusso è il mio amico Mino gran cuoco alla mitica “Bella Bari”. Vale la pena ricordare qui la Bella Bari del mio amico Riccardo, che, insieme ai figli Salvatore, Angelo, Nicola, in ordine di età, onora la grande tradizione della straordinaria cucina popolare barese a base di pesce assolutamente freschissimo. Se abitassi solo a duecento chilometri da Bari ci andrei almeno una volta la settimana. Ottocentotrentaquattro chilometri sono troppi, ahimè.

Sanguètte (La). La sanguètta è la “sanguisuga”. Una persona che non riesci a togliertela di dosso. A Venezia queste persone sono chiamate “pìttime”. Nei secoli scorsi le “pittime veneziane” utilizzavano le loro caratteristiche per guadagnarsi da vivere. Un ricco signore che stava aspettando la restituzione di una certa somma di danaro, dopo aver atteso invano la restituzione, assoldava una pittima la quale si metteva subito ai fianchi del debitore e, specialmente quando costui si trovava in compagnia di belle signore, ad alta voce e in maniera sgradevole ricordava al malcapitato che aveva un pesante sospeso con il signore tal dei tali. Il debitore era tampinato dovunque giorno a notte,  da questa pittima che prima o poi, riusciva a farsi pagare. Una sanguetta che si rispetti è, ovviamente, un cacacazzo (vedi) della più bell’acqua.
                           
Saverròne (U). Il saverròne è un grosso ciottolo molto piatto che si lancia radente alla superficie del mare per vederlo rimbalzare diverse volte.  

Savòia. E’ un gioco. Consisteva in una guerra a sassate fra due bande rivali. Chi attaccava, sferrava l’attacco, lanciando saverròni, al grido di “Savoia!”. Di questo gioco si son perse le tracce da oltre cinquant’anni. I signori della mia generazione hanno fior di cicatrici sul cranio. Come gioco era abbastanza cruento, ma la cosa strana era che nessuno mai si è lamentato. Altre tempre d’uomini di sei sette anni!

Sbagugliàte (U) (La). Lo/a sbagugliato/a è la persona che veste in maniera quanto mai estemporanea e improbabile. Vestiti troppo larghi, improbabili, usati in maniera irrazionale. Oggi si direbbe casual.

Sbrefùme (U). Lo spròfumo è il classico “suffumigio”, l’inalazione di vapori d’acqua bollente nella quale si sono messe delle foglie di piante con proprietà balsamiche.

Sbrùffe (U). Significa “sigaretta”. Al maschile. Viene certamente da sbuffare, sbuffi di fumo.

Sbùco!. Sostantivo maschile. Senza articolo. E’ un’esclamazione. Significa letteralmente “goal!”, con in più un’aggiunta di sana cattiveria. Espressione nata nel calcio balilla.
         
Sbulinàte (U) (La). Lo/a sbulinato/a è una persona assolutamente inelegante, che sa di esserlo e che se ne strafotte altamente di esserlo.

Sburràre. Verbo. In italiano si dice “eiaculare”. Per estensione, lo sperma in barese è chiamato sburro o sburrata. Anche qui particolari parentele con il veneziano “sborar”. A questo proposito, a Venezia per esprimere stupore si dice “ghe sbòro mi” oppure più gentilmente (quando l’esclamazione è profferita dalle donne) “ghe sbìro mi” fino ad arrivare al “ghe sbòcio mi” leggermente variato anche in “ghe sbìcio mi”. Questa “elegante” esclamazione viene usata, sempre a Venezia, anche per indicare il massimo del rifiuto disprezzoso di qualsiasi cosa. Un po’ come l’hemingwaiano “Io piscio sopra il sugo delle tue affermazioni”. Tornando a Bari, ricordo con molto affetto e molta tenerezza il soprannome di un giovanotto che notoriamente era in continuazione allupato ed arrapato. Se poi questo giovanotto riuscisse ogni tanto a togliersi gli sfizi canonici lo ignoro. So solo che per questa sua continua situazione di arrapato cronico  lo chiamavano (il nome proprio è fittizio, per evitare un qualsivoglia tipo di riconoscimento) Mimì Sburrone. Mi pare assolutamente delizioso.

Scabbuà. Verbo. Italianizzandolo scabbuàre. Significa terminare di lavorare. La sera gli operai “scabbuèscene”. Forse viene da “scapolàre”. Mah!

Scacchiatjìedde (U). Lo scacchiatèllo è il ragazzino birichino e vispo. Al femminile fa “scacchiatèdde”.

Scannacavàdde / Scannapuèrche (U). Con tutto il rispetto per qualsiasi tipo di lavoro purchè legittimo e onesto, questi due termini stanno ad indicare quelli che nei macelli macellano i cavalli e i maiali. Si presume che difficilmente chi scanna maiali o cavalli possa essere considerato alla stregua di un raffinato traduttore di Omero. Ma non è detto, infatti giorni fa ho visto a Venezia un gigantesco facchino, con la faccia da bulldog, che, mentre trainava un carrello carico alla morte di mercanzia, fischiettava Mozart. Da un po’ di tempo a questa parte, però,  gli scannacavalli e i loro colleghi scannaporci stanno facendo la figura delle educande rispetto a certi personaggi pubblici che sono riusciti con molta facilità a scalzare dai primi posti dei mestieri socialmente utili questi due onestissimi e rispettabilissimi lavoratori.

Scapacepòdde (U). E’ un attrezzo agricolo usato per svellere le cipolle dal terreno. In legno duro, lungo circa una trentina di centimetri, di forma cilindrica del diametro di circa tre quattro centimetri, leggermente ricurvo, con un’estremità leggermente tagliata a becco d’anatra, per poter meglio entrare nel terreno. Viene anche chiamato così, per simpatia, il cazzo. La sua origine è chiaramente contadina. Nelle Murge infatti, il termine  “svellere”  dal terreno si dice “scappà” “scappàre”. Mi raccomando con due “p” in questo caso.

Scapecerràte (U). E’ il classico “scapestrato”.

Scapricciatjìedde (U). Significa “scapricciatello”. Lo scapricciatello è qualcuno che entra ed esce dalla patrie galere per piccolissimi reati. E’ generalmente persona generosa e disponibile. Ha una certa andatura da guappo, ma non ha cattiverie di fondo. Gli scapricciatelli sono generalmente soli, perché parecchio individualisti, ma sono amati dalla collettività. Si tratta di piccoli Robin Hood in sedicesimo.

Scapucchiòne (U). Arriviamo subito al nocciolo del significato. Lo scapocchiòne è, generalmente,  una persona inaffidabile. Attenzione però, uno può essere un magnifico architetto, un bravissimo avvocato, un eccellente albergatore, un magnifico camionista, ma, per quanto riguarda la gestione della propria posta su InterNet, può essere uno scapocchione notevole. Il mio amico Armando, per esempio è un magnifico architetto, ma è uno scapocchione notevole nella posta elettronica. Quindi, ricapitolando, uno scapocchione può essere tale anche in una minima parte della propria vita, nel resto potrebbe addirittura essere papa re o cardinale. In altre parole stiamo parlando qui di un tipo distratto.

Scarcèdde (La). La scarcella è un dolce barese pasquale. Consiste in una grossa ciambella del diametro di venti/trenta centimetri, sulla quale sono sistemate in piedi uno o due uova sode. Il termine viene anche usato in senso figurato in altre situazioni. “Fare il culo a scarcèlla” a qualcuno è frase facilmente comprensibile, per cui non mi dilungo.

Scarciòffe (La). E’ il carciofo. Ma può essere usato con altri significati. Due sono i più usati: “fare il culo a qualcuno come una scarciòffa” e “un gran bel pezzo di scarciòffa”. In quest’ultimo caso siamo nel campo delle belle ciccine, delle belle gnocche, tanto per intenderci.

Scarpàre (U). E’ il “ciabattino”. Stranamente quando un qualsiasi lavoro è eseguito male, a pene di molosso, si dice che è stato fatto da uno scarpàro. A differenza dei ciabattini veri e propri che sono fior di artigiani. Chissà per quale strano accostamento questo lavoro riferito ad altre categorie diventa dispregiativo. Per esempio “il mio muratore mi ha fatto un lavoro da scarparo”. Si racconta che il protettore degli scarpàri sia San Crispino.

Scarràsse o Sgarràsse (La). “Fessura”. Va pronunciata con la “c” o con la “g” a seconda di certe zone di Bari vecchio. Generalmente nelle porte e nelle finestre si trovano le sgarrasse. Indica anche l’organo sessuale femminile, ma viene poco usato, perché è considerato un termine poco elegante, anche dai meno raffinati. Chi usa la “g”, generalmente la usa per rafforzare la volgarità della parola in questione. Scarrassa è molto più “signorile” di sgarrassa. E la ragione, volgare anch’essa, sta nel fatto che il semantema “scar”  non ha dirette parentele con altri vocaboli, mentre “sgar” ha buona familiarità con la parola “sgarrare” che sia in dialetto sia in italiano ha lunga dimestichezza con violazioni di ogni tipo. La solita ferocia e il solito pragmatismo dei baresi, sui quali prima o poi bisognerà scrivere un ampio trattato.

Scarvettà. Verbo. “Scaravettàre” italianizzandolo. In veneto si direbbe “furegàr”. Significa “frugare con insistenza” in qualsivoglia cavità. Con la punta di un chiodo in un buco pieno di trucioli, con il dito indice nella narice agli stop dei semafori. I fuoriclasse arrivano ad usare addirittura il pollice. A mio parere è più volgare l’uso dell’indice, mentre quello del pollice è più rustico. Siamo nel campo della perfezione assoluta.

Scassacàzze (U) (La). Lo scassacàzzo è il “rompicoglioni” per antonomasia. Esistono dei bravi ragazzi, ma un poco scassacàzzi. Generalmente appartengono alla categoria dei primi della classe.

Scazzecà. Verbo stranissimo. Significa “stuzzicare”. Generalmente l’appetito. Anche qui se volete provare le vertigini e l’ebbrezza della coniugazione, provate a coniugare l’indicativo presente.

Scazzìme (La). In italiano si traduce “smegma”. Chi vorrà saperne di più è pregato di rivolgersi al maialone della sua comitiva. Suo sinonimo potrebbe essere “zipipàgna” (vedi). Un noto professionista barese arrivò a tradurre/nobilitare questo termine in improbabile francese: “sciascème”. Non chiedetemi il nome del raffinato traduttore. Non ve lo rivelerò mai. Posso solo dirvi che è un professore universitario che, in compagnia di un notissimo odontotecnico, ama tirare a far tardi la notte e che ama la buona tavola e la raffinata cantina. Una persona di tutto rispetto evidentemente. Caratteristica la sua sonora risata. Quando mi leggerà si riconoscerà certamente. Se proprio volete qualche ulteriore dritta, vi dirò che è nato in una gloriosa via dove, qualche decennio fa c’era un mercato della frutta.  

Scelesciàte. Una persona scelesciàta è una persona “disordinata”, senza cura di se stessa. Sciatta.

Scenùcchjie (U). E’ il “ginocchio”. Spesso a letto la moglie di un marito gagliardo, prende lucciole per lanterne, nel senso che, dando le spalle al marito mandrillone, confonde il creapòpoli (vedi) con il ginocchio. Sono attimi però. Poi tutto, come si conviene in tutte le belle storie, si conclude nel migliore dei modi, vivendo essi felici e contenti. A proposito, vedi  “contendèzze”.

Sceruècchjie (Le). Vocabolo intraducibile. In italiano diremmo “frivolezze”, oppure “robetta da niente”.

Scesciàcchjie (U). Lo scisciàcchio è una parola onomatopeica. Significa  “pasticcio”.

Scèse (La). Significa “discesa”. Stranamente, a Bari vecchio non esistono salite ma discese, ancorchè leggerissime e rarissime. C’è per esempio la “scèse de sanda Mechèle”. Alla parola salita invece, stranamente  non corrisponde un termine dialettale dedicato. A Valenzano, sulla unica porzione di strada in salita e in discesa, che poi non è altro che il ponte che dà sul canalone sulla via che conduce a Montrone, la rampa in discesa  viene detta “bascìna” mentre non esiste la parola dedicata alla rampa in salita. Già che ci stiamo avventurando in spiegazioni abbastanza poco fondate su fatti razionali, facciamo notare che anche Sànda Mechèle è al femminile come Sànda Necòle. Vale la pena riportare anche qui la micronotizia che il “sànda” (al femminile) di San Nicola è certamente (pensiamo noi) dovuto al fatto che San Nicola sia stato il primo sacerdote cristiano a portare gli abiti da prete, abiti che avevano in comune con quelli femminili la forma e la lunghezza. Avventurandoci su ipotesi molto opinabili, ci piace pensare che “Santa” Klaus provenga dalla stessa fonte/categoria/situazione. Quanti altri santi oltre Nicola e Michele hanno l’aggettivo al femminile, e perché?

Scettà. Verbo, significa gettare. Spesso usato anche con il significato di “vomitare”. La coniugazione del tempo presente è di rara difficoltà. Provo a scriverla di getto. Jì scètteche, tu scjìette, jidde scètte, nu scettàme, vu scettàte, chìde/llòre scèttene. Jì scettàbbe è la prima persona singolare del passato remoto. L’imperativo “getta!” si traduce “scjìette!”. Donde “scjìette u sànghe da ngànne” (che significa “datti da fare”). Letteralmente sta per “butta il sangue dalla gola!”. Mamma mia!  

Scettatùre (U). Letteralmente “gettatòio”. Il gettatòio era una utility presente in tutti i palazzi del borgo murattiano di Bari. Sui balconi che davano nei cortili interni di questi palazzi, c’erano degli sportelloni di circa ottanta centimetri per ottanta che davano tutti in una specie di grande canna fumaria che partiva dall’ultimo piano e arrivava fin giù nel cortile in una stanzetta chiusa e senza finestre. In questa specie di grossa canna fumaria venivano buttati tutti i rifiuti che venivano quotidianamente prodotti dalla famiglia. Ogni mattina passavano poi gli addetti che provvedevano a svuotare al piano terra il piccolo ambiente chiuso dove si ammucchiavano i rifiuti della giornata precedente. Questo avveniva fino a una cinquantina di anni fa. Anno più anno meno.  

Scettùsciue (La). (Con l’accento sulla prima u). Pronunziare le due “sc” dolci come scendere. Un premio a chi riesce a indovinarne il significato senza leggere nel prosieguo. E’ la “tartaruga”. O, meglio, la testuggine.

Scevelèzze (La). Detta anche “gevolèzza” da agevolare. E’ il piatto particolare che si mangia durante una “uascèzza” (vedi).  Possono essere, per esempio, i dolci finali.

Schecchiàte (U) (La). Intraducibile in italiano. Forse scoppiato, nel senso di sparigliato, forse, chissà. Letteralmente significa “scombinato”, ma è napoletano quest’ultimo termine. Termine con il quale chi sta scrivendo fu “simpaticamente” apostrofato da un rettore napoletano dell’Università di Bari, quando in una conferenza sulla città, tantissimi anni fa, fece candidamente (mica tanto candidamente però) notare agli astanti le speculazioni edilizie che stavano distruggendo dalle basi l’immagine della città murattiana. Mi viene in mente un altro bel modo di dire che mi riguarda e rimando il lettore all’espressione “tomo tomo” (vedi). Usato al femminile il termine “scocchiàta” si potrebbe tradurre “svampita”. Una cosa è comunque certa, una persona scocchiàta potrebbe essere una persona geniale. Mentre un guanto spaiato è semplicemente scocchiàto e basta lì.  

Schegnàte (U) (La). “Schegnàte senza djìente mòstre u cùle à le pezzjìente”. E’ una filastrocca che si canta ai bambini quando cominciano a perdere i denti di latte. Fra la perdita e la crescita il bambino esibisce una bocca schegnata in maniera imbarazzante. Schegnàto viene da senza cuneo. Il cugno, che poi sarebbe il dentino. Se un paio di forbici cade di punta per terra e le punte si ammaccano, ebbene allora le forbici sono schegnàte. Così come sono schegnàte le seghe da ebanista, alle quali manca qualche dente. Potrebbe tradursi con “sdentato”.

Schenecchià. Schinocchiàre significa “piegarsi rapidamente sulle ginocchia, quasi fossero diventate di burro”. Generalmente si schinòcchia per fame o dopo un uppercut bene assestato, o dopo una sveltina fatta velocemente in piedi con molto furore. Capitò a un mio amico il quale dopo essersi esibito in una rapidissima e intrigante performance sessuale con una ciccina, dalle parti del lungomare, dopo l’Istituto Industriale, facendo due passi indietro per prendere fiato, di colpo assaporò il fenomeno delle ginocchia che di colpo gli diventarono di burro. Il mio amico comprendendo all’istante la tragicità del momento non potè fare altro che sedersi molto elegantemente per terra. Ma questo avveniva molti anni fa, quando le cattedrali erano bianche, i mari pulti, e la periferia di Bari era sicura.

Schennùtte. Esiste anche la versione scherrùtte. Insaziabile. Pozzo senza fondo.

Schenzàte. Senza condimento. Mangiarsi un piatto di vermicelli sconzàti è di una infinita malinconia.

Scheresciùte. Scuro, molto scuro in volto. Generalmente è il cuore ad essere scurisciùto. In napoletano scurisciuto si dice “scùro scùro”. Ricordarsi  “Munastèrio e’ Sànta Chiàra, tengo o’ còre scùro scùro, pènze a Nàpule cumm’era, pènze a Nàpule cumm’è”. Parole profetiche, ahimè.

Schernacchiàte. Scurnacchiàte (Ehi attè!). Bellissimo quest’insulto! Viene riservato agli automobilisti che passano veloci sulle strisce pedonali. Uno “scornacchiàto!” non glielo toglie mai nessuno. Generalmente fa parte di una frase più complessa tipo “Auuuànde à cùde scurnacchiàte!” “Guarda un po’ quel grandissimo supercornutazzo!”, laddove cornutazzo, preceduto da “grandissimo” appartiene al lessico siciliano. Cunnutàzzo grandìssimo, per l’appunto.

Schetuà. Stranissimo verbo, ha lo stesso significato di “chetuà” (vedi). Se lo volessimo italianizzare diremmo “scotolàre”. Il prefisso (sc) viene certamente da (sc)uotere.

Scì. Verbo. Significa “andare”. E’ un termine stranissimo di antichissime origini. “Scire” viene dal latino “ire” al quale è stato aggiunto “sc” come prefisso. La sua stranezza sta nella coniugazione e nel prefisso “sc”. Prendiamo il presente indicativo:
Jì me ne vògghe
Tu te ne và
Jìdde se ne và
Nu nge ne sciàme
Vu ve ne sciàte
Chìde, llòre se ne vònne.
Il participio passato è “sciùte”. Il gerundio è “scènne”. L’imperativo è “vattinne!”. Ripetuto due volte “scènne scènne” significa “mentre te ne stai andando, mentre ce ne stiamo andando”. Se girelliamo nell'arcipelago delle coniugazioni di questo verbo, troviamo sciùto, scjìebbe, sciamanìnne oppure sciamangìnne, scènne, scèsse, scèrene. Amici baresi, provate a tradurre qualcuna di queste voci.

Sciabbècche (U). Lo sciabbècco indica una persona distratta, frivola, che cammina con andatura ciondolante. Questo paragone viene preso dall’imbarcazione di origine mediterranea chiamata per l’appunto sciabècco. Navigava i mari nel 1700, ed era un naviglio da guerra lungo e stretto, con tre alberi (il più alto al centro) con vele latine. La sua andatura di corsa e la sua snellezza erano tipicamente caratterizzati da un’andatura molto mossa e beccheggiante, dovuta al suo notevole coefficiente di snellezza.

Sciacquadjìende (U). Altro tipo di schiaffo. “Sciacquadènti”.

Sciacquètte (U) (La).  Usato al maschile significa piccolo rinfresco, festicciola in piedi fra amici per festeggiare chessò la macchina nuova. Usato al femminile invece sta ad indicare una fraschetta, una ragazzina abbastanza disinvolta nei comportamenti con l’altro sesso. Anche qui viene fuori una fottuta cultura maschilista dura a morire. Anche se questo termine al femminile mi è capitato di sentirlo dire più spesso da brave donne timorate di Dio e ottime madri di famiglia, che generalmente non si facevano i cazzi loro.

Scialappà. Significa tartagliare, balbettare nel peggiore dei casi. Uno che parla “sciàlpo”, per esempio è quello che al posto di pronunziare la esse di signora, la pronuncia come  “the” inglese. Volendo dire “Pasquale” pronuncia invece  “Pathquale”.

Sciallàte. Aggettivo, viene da “sciàlle”. Tutt’altro significato che quello italiano. Sciallàto è colui che ha molto “sciàlle”, che significa “danaro”. Persona estremamente ricca. Forse si dice sciallàto, perché nei passati tempi solo le persone ricche potevano permettersi il lusso di coprirsi le spalle con ricchi scialli di preziosissime stoffe.

Sciàlle (U). Danaro, terrisi, schei, pittura, pecore, danè, pezzi, rinare e chi più ne ha più ne metta.

Sciàlpe. Aggettivo. Quelli che non pronunziano bene la esse, pronunciandola invece quasi una “effe”, sono, per l’appunto, “sciàlpi”.

Sciamarrèdde (La). E’ quel piccolo martello da muratori che somiglia a un piccolo piccone con due tagli, uno verticale e l’altro orizzontale.

Sciambagnòne (U). Il compagnone di gita, sempre senza pensieri, buono per tutte le stagioni. Viene evidentemente da sciampàgna. Esiste anche lo “sciampagnìno” che non è altro che la sublime, proletaria gazosa.

Sciammèreche. Alcuni pronunziano “sciammèrghe”. La sciammèrica in realtà è una specie di pastrano abbastanza scalcinato, un po’ fuori misura. Ha però un altro significato. Significa “scopata”. Per cui “farsi una sciammèrica” è operazione altamente educativa, oltre che piacevole. Penso abbia origini dal napoletano.

Sciaràpp! Non è un termine barese. Proviene dall’inglese ed è stato mutuato nel dialetto durante la seconda guerra mondiale. Viene dall’inglese “shaddup!” che significa “stai zitto!”, che è poi quello che significa anche in barese.

Scimmiatòre (U). Uno scimmiatòre è un simpatico rompipalle che non prende mai nulla sul serio. Viene da scimmiottare penso, ma non ne sono molto sicuro.

Scìnire o Sciènere (U). Significa “gènero”. Accenti: sulla prima “i” di scìniro o sulla “e” di sciènero.

Sciò. E’ il nome dialettale di Gioia del Colle, mitica cittadina nota per i suoi latticini.

Sciònde (La). Alcuni dicono “sciòndue”. La sciònda è l’aggiunta, il buon peso, quella quantità in più che per civile ed antica costumanza si aggiunge quando si va ad acquistare il pane o qualche metro di stoffa. Termine poco usato ormai. Da qualche decennio è stato rivalutato nell’uso di una filastrocca (vedi) contro la cattiva sorte.

Sciòsciue (La). La sciòsciua è una donna che non ha cura della propria persona. Una donna disordinata, spettinata, con le calze spaiate, che non si cura nemmeno della propria casa. Ne ha addirittura cantato l’esistenza Charles Aznavour. Stranamente è usata sempre al femminile. Quasi come se uomini altrettanto sciòsciui non esistessero. Ma abbiamo parlato, in altre occasioni, del micidiale retaggio maschilista di certe culture. Qui non c’entra il dialetto barese, ma stiamo parlando degli anni bui caratterizzati da una cultura maschilista che, purtroppo, è ancora  comune a buona parte dell’umanità.  

Sciuè Sciuè. E’ un’espressione tipica di buona parte dell’Italia meridionale. Credo abbia origini in Campania. E’ un suono onomatopeico che deriva certamente da “scivolare”. Sciuè sciuè significa molte cose: un piatto di spaghetti può essere sciuè sciuè, una persona semplice  e senza pretese può essere sciuè sciuè, una canzoncina senza pretese e senza messaggi da inviare ai posteri può essere sciuè sciuè. In italiano come si potrebbe tradurre? La buttiamo lì, senza minimamente esserne sicuri: “a scottadito”.

Sciuliùso. Aggettivo. Non fa parte del lessico barese, in ogni caso vedi “sciuè sciuè”. Appartiene al lessico culinario napoletano. Lo inserisco soltanto per un piccolo omaggio a mio padre che era napoletano. Sciuliùso significa scivoloso. Per trasposizione, gli spaghetti sciuliùsi sciuliùsi sono spaghetti conditi con un leggerissimo sugo di pomodori e basilico che li fa “scivolare” agevolmente e con felicità nella famelica gola. E’ curioso notare come certe onomatopee siano presenti anche in zone parecchio distanti fra loro. Nel Sud Tyrol, per esempio, dei ravioloni praticamente uguali a quelli bolognesi, sono chiamati “Schlüpfkrapfen” parola composta da schlüpfrig, che significa scivoloso, e da Krapfen che significa fagottino, raviolo insomma. E’ agevole notare come “sciuè sciuè”, “sciuliuso”, e “schlüpfrig”, abbiano in comune lo stesso semantema/suono “sc”, che per l’appunto richiama la scivolosità.  

Scjieleppà. Verbo, donde “scialpe”, che indica un modo di parlare particolarmente scivoloso ed incomprensibile. Ma significa anche rivestire le ciambelle con un abbondante velo di “giulebbe” la cui materia prima è lo zucchero.  

Scjìette (U). Viene da “scettà” (vedi) che significa “gettare”. In realtà “u scjìette” è il vomito. Quello lì, quella situazione, quel tal onorevole, “me fàsce venì u scjìette” mi fa venire il vomito. In questo particolare periodo, siamo nel 2005, di questi politici che mi fanno tale effetto ce n’è sovrabbondanza.

Sckàffe (U). Sostantivo maschile. Significa “schiaffo”. La sc prima della kappa va letta con la "sc" morbida come in  “scegliere”. Notevole in questa parola la presenza della kappa. I vecchi barivecchiani dicono che lo schiaffo ha un centinaio di traduzioni. Proverò ad elencare tutte quelle poche che conosco:

U sckàffe
U mappìne
U mandellìne
U retuìne.
U recchiàle.
U lavamùsse
U stusciamùsse
U susessòtte
U lavadjìente
U sciacquadjìente
U gnùffe gnùffe
La cìnghe
La dèsce
U sdùmme
U cannàle
U garzàle
U chèchere (anche se è dato sulla càpa)
U serdellìne
U va evvjìene
U beffettòne
U cheppìne
U serchiàle
U paberùsse        

Qualche spiegazione ci vuole.
U sckàffe = lo schiaffo, evidente. Pronunciare sc dolce come in “scendere”.
U mappìne = il mappìno. L'origine è controversa. La mappina in barese è lo strofinaccio. Se lo strofinaccio/mappina è completamente bagnato, sbattendolo sul viso di qualcuno forse fa male. Potrebbe essere una spiegazione.
U mandellìne = il mandolìno. Non ho idea di che cosa si provi ad avere un mandolino nei denti.
U retuìne = il rotolìno. Forse significa l'effetto di rotolamento su se stesso quando si riceve  lo schiaffo.
U recchiàle = il recchiàle. Recchia è l'orecchio. La spiegazione è quindi uno schiaffo sull'orecchio. Dovrebbe far parecchio male.
U lavamùsse = il lavamùso. Facile spiegazione.
U stusciamùsse = lo stusciamùso. Stusciare in barese significa pulire con una certa forza. Quindi puliscimùso.
U susessòtte = il sopra e sotto. Indica uno schiaffo dato in due movimenti all'insù e all'ingiù, in due momenti ben distinti, ma dati di seguito.
U lavadjìente  = il lavadènti. Ovvio.
U sciacquadjìente = lo sciacquadènti. Altrettanto ovvio.
U gnùffe gnùffe = onomatopeico. Gnùff gnùff  è il suono del gargarismo che si fa dopo uno schiaffo, quando ti sono saltati diversi denti. Doloroso. Molto doloroso.
La cìnghe = la cìnque. Schiaffo dato con una mano, con tutte e cinque le dita aperte.
La dèsce = la dièci. Schiaffo dato con due mani, con tutte e dieci le dita aperte. Se si riesce a colpire contemporaneamente le due orecchie, la perfezione è raggiunta. Oltre al dolore si aggiunge al malcapitato un lungo ed odioso sibilo nelle orecchie. Questo sibilo si dice “surdellìne” “sordellino” italianizzato.
U sdùmme = lo sdùmmo. Onomatopeico. Se uno schiaffo quando arriva a segno fa sdùmm! allora sono cavoli amari.
U cannàle = il cannàle. Schiaffo vibrato di taglio sulla canna, sul pomo di Adamo insomma. E' uno di quegli accadimenti che ti fa andare via carico di meraviglia.
U garzàle = il garzàle. Schiaffo vibrato sulle guance esternamente. Esattamente in direzione delle garze (vedi) che si trovano dentro la bocca, in prossimita dei denti del giudizio.
U chèchere = il chèchero. Licenza poetica, come detto,  perchè il chechero non  è uno schiaffo ma un colpetto ben assestato con le nocche del pugno chiuso sul cranio del malcapitato. Così come la morte del polipo è l'acqua sua stessa, la morte del chechero è il carone. Carone in barese significa testa rapata.
U serdellìne = Il sordellìno. E’ un fischio acutissimo che ti viene nelle recchie (vedi) quando ti arriva sulle medesime un recchiàle (vedi).
U va evvjìene = Facile traduzione: va e vieni.
U beffettòne = Dall’italiano “buffetto”. Grande buffetto. Fa male in modo affettuoso.
U cheppìne = Il mestolo. Un mestolo nei denti, o meglio una mestolata nei denti, fate voi.
U serchiàle = Da sùrchio. Uno schiaffo che ti fa tirare su il fiato.
U paberùsse = Da paperùsso, peperone. Evidente l’accostamento delle dimensioni e del colore.

Sckaffòne (U). Al plurale “sckaffùne”. Non è lo schiaffone, ma il maestoso rigatone, quello liscio per l’esattezza. Per assonanza e per parentela culturale, il rigatone in napoletano è detto “pàcchero” che significa schiaffo, donde “paccariàta” che sta per “sculacciata” o una bella faccia riempita di schiaffi. In veneto si dice “sciaffonàda”. Pronunziare la “sc” come “scervellarsi”.

Sckandà. Verbo riflessivo. Significa “spaventarsi”. Stranissima parola, non ne conosco l’etimologia. Una persona sobbalza quando, standosene seduta in tinello a leggere un giornale, di colpo fuori nella strada esplode un petardo lanciato per terra da un ragazzino, con congruo anticipo sull’ultimo giorno dell’anno. Questo tipo di spavento viene detto  “u sckànde”. Quando siamo in presenza del gruppo “sck” la esse va sempre pronunziata molto dolce come fosse la “sc” di sciare. Divertente provare a coniugarlo. Il passato remoto, per esempio.  
Jì sckandàbbe
Tu sckandàste
Jìdde sckandò
Nù sckandàmme
Vù sckandàste
Llòre chìde sckandàrene
Il gerundio è "sckandùnne"
Il futuro (come del resto tutti i futuri in barese) è notevole per la sua complessità.
Ji m’èa sckandà
Tu t’àda sckandà
Jidde s’àva  sckandà
Nù ngiàma sckandà
Vù v’avìta sckandà
Llòre chìde s’ònna sckandà

Sckattùse (U). Al femminile “sckattose”. Mi raccomando “sc” va letto dolce come “scegliere”, mentre la kappa va naturalmente fatta sentire. Significa “dispettoso/a”. Viene da “sckattàre” che significa schiattare. Sckattòso è dunque chi ti fa volontariamente schiattare di rabbia.  

Sckène (La). La “schiena”. Fare il movimento alla ciccina mentre si balla, viene indicato con la frase  “massaggio alla schiena”.

Sckenjìedde (U). Intraducibile in italiano, si potrebbe azzardare sckinèllo. Significa “fannullone”. Il semantema è “sckena” (vedi). Quindi colui che non vuole usare la schiena per lavorare. Potrebbe essere?

Scketà, Sckùte, Scketàzze. Rispettivamente “sputare”, “sputo”, “sputazza”. Va ricordato che in “scketàzze” e “scketà” la “e” è muta e quindi non va pronunziata. Leggi quindi “sck’ tà”. Questa regoletta vale quasi sempre. Quando non vale è sempre indicato.

Sckìfe (U). Significa ovviamente “schifo”. Ma è rafforzato dalla presenza del gruppo di lettere “sck” di cui abbiamo parlato in precedenza. Inoltre questa è una di quelle parole dialettali baresi ( e anche napoletane) che è stata mutuata nella lingua italiana. Un mio amico dice “fa schifo con la sck”. Rammento costantemente che questo gruppo di tre lettere va letto pronunziandolo dolce come “strasse” in tedesco. Credo che l’inaugurazione ufficiale dell’ingresso della sck nella lingua italiana sia avvenuta quando Eduardo profferì la sua mitica frase “ la sckifezza r’à sckifezza r’à sckifezz r’à sckifezza e’ ll’uemmene”. “R’à significa “della”. Mi scuso con i miei fratelli napoletani se la scrittura non è fatta secondo le regole. L’importante è capirsi.

Sckìtte. Pronunciare solo la prima esse dolcissima come scivolare. Non è parola barese, ma la trovo bellissima e ve la fornisco. Appartiene al dialetto bitontino e a tutta quell’area che corre parallelamente fra il mare Adriatico e le Murge. Significa “soltanto”. Sckìtte il padreterno conosce la sua etimologia.
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DIZIONARIO DI TERMINI BARESI SECONDO FRANZ FALANGA CONSISTENTE IN OTTO PARTI Empty DIZIONARIO DI TERMINI BARESI SECONDO FRANZ FALANGA SETTIMA PARTE

Messaggio  Admin Mar Ago 12, 2014 1:08 pm

Scòla iàlde (La). La scòla iàlta non è altro che la scuola che viene dopo le elementari e le medie. Dal liceo fino all’università compresa. Va usata al plurale, le scuole alte. Per dire di qualcuno che, pur avendo frequentato le scuole alte, è rimasto rozzo e grossolano si usa ricordare la sua frequenza alle scuole alte. Vecchio e saggio modo di analizzare una persona. Si dice anche di qualcuno particolarmente antipatico, odioso, prepotente. L’espressione è “ Emmènu màle  k’ha fatte le scòle iàlde!” sottintendendo “chissà cosa avrebbe combinato se non avesse studiato”. Questa corrente di pensiero sta a dimostrare che non necessariamente i laureati sono delle persone civili come non necessariamente quelli che non hanno studiato sono degli incivili. Ho conosciuto fior di galantuomini e di gentildonne e di persone assolutamente straordinarie fra gli analfabeti, e fior di canaglie fra i cinti dell’alloro accademico. E qui mi fermo, non vorrei incorrere in qualche querela.

Scòrze (La). Dicesi anche “scherzòne”. La scorza o lo scorzone è l’avaro per antonomasia. Lo scorzone è ai massimi livelli dell’avarizia. Stranissimo modo di dire di cui ignoro l’origine. Ancora più strana è l’espressione “scòrze de prevelòne” che, pur significando “scorza di provolone”, in realtà sta ad indicare l’avaro. Forse perché, per non sprecare nulla,  si mangia anche la scorza dei vari formaggi? Saremo grati a chi vorrà segnalarcela. Questo termine viene anche utilizzato nella frase “me si fàtte venì le scòrze ngànne” “mi hai fatto venire le scorze in gola”, frase che la madre disperata dice al figlio disubbidiente, per fargli capire che a lei,  poverina, a forza di gridar dietro al figlio medesimo, son venute addirittura le scorze in gola. In questo caso le scorze sono dovute alle lacerazioni della gola a furia di gridare e gridare. Tornando all’avarizia, va detto che lo scorzone in barese è anche una specie di innocuo biscione. Detto così perché, trovandosi nelle campagne pugliesi in gran quantità, è facile imbattersi nella sua “muta”, nella sua scorza appunto. Nel veneto si chiama “carbonazz”. Segnalo che in ambedue le parole è presente la zeta.

Scriàle (U). U scriàle è la “frusta”, lo staffile. Ha una strana assonanza con la parola “scùria” che ha lo stesso significato, però nel Veneto. La scùria veneta è composta da elementi di legno filiformi e molto fibrosi, minimo tre, intrecciati fra loro, che provengono da un alto cespuglio chiamato “bessolàra”. La parentela fra “scriàle” e “scùria” è data dalle comuni consonanti “s, c, r”. Con buona pace dei secessionisti. E’ incredibile come certe parole nascano più o meno simili a distanza di otto novecento chilometri. Chissà quali sono i canali carsici che permettono alle parole di viaggiare su territori così vasti. Ascoltato anche “scriàte” con la “t”.

Scrùbbue (U). Significa “scrupolo”. Questo termine lo troviamo efficacemente descritto in un modo di dire che suona così “u scrùbbue du pastòre”. Narra di un pastore che dopo essersi strafocato più di una diecina di chili di ricotta fu invitato da un amico a prendersi il caffè. E il pastore rifiutò dicendogli che il caffè poteva forse fargli male.

Scrùmme (U). E’ lo “scombro”. Sissignori si dice scombro con la c e non sgombro come comunemente è scritto sulle scatolette. Affermazione questa, che viene confortata dalla denominazione zoologica in latino  che è ”scomber scomber”. Con la c dunque. Questo è uno dei casi in cui la parola in dialetto è più corretta della sua gemella in lingua.

Sdànghe (Le). Sostantivo femminile. Sono le assi che vengono fuori da un carro e che servono per legarvi in mezzo a loro il cavallo, il mulo, o l'asino. Una stangona però non è una gran stanga, ma una bonazza tremenda. Si badi bene “stangòna” appartiene al lessico italiano.  

Sdraittàte. Bellissima parola. Va pronunziata con malcelata cattiveria. Significa “tutto storto”. Un ragionamento, il fisico di una persona, un’azione di calcio, una maniera di muoversi, un modo di guardare in tralice, possono essere sdraettàti.

Sdrèuse. Aggettivo, significa “strano”. Si ignora l’etimologia.

Sdùmme (U). Particolare tipo di schiaffo.

Sè quìnde (La). Le frazioni si dividono in proprie improprie e apparenti. “Sei quinti” è una frazione impropria. Indica qualcosa che è superiore all’intero, che sarebbe cinque quinti. Bene ragazzi, la sei quinti (se’ quìnde), al femminile -m’ariccomanno!- indica orgogliosamente il sesso maschile. Facile comprenderne la  scontatissima presunzione.

Sé. Il numero sei.

Secherdùne (Alla). All’improvviso e all’insaputa di qualcuno. Vedi anche il quasi sinonimo “alla ndrasàtte”. Quest’ultimo termine confina con la Campania, mentre “alla secherdùne” è più squisitamente barese, con una grande diffusione territoriale che arriva dal mare fino alle Murge.

Seggetèdde (La). Questo termine mi sta nel cuore. Come credo a molti baresi di Bari vecchio. Vuol dire piccola sedia. Non stiamo parlando qui delle sedioline dei bambini, ma di una normale sedia per adulti con le gambe un po’ più corte. E’ la sedia sulla quale si sono sedute intere generazioni di mamme, nonne, zie, sull’uscio di casa, fuori nella strada, nei giorni di estate e in quelli ancora caldi di primavera e autunno. Su queste seggitedde si sono dipanate tutte le storie belle e meno belle di intere generazioni di barivecchiani. Se, ancora oggi, si va da qualche sediaio di Bari vecchio e gli si dice di voler acquistare una seggitedda, immancabilmente il sediaio, dopo avervela venduta vi augurerà buona salute per chi utilizzerà la seggitedda. Questo si chiama civiltà.  

Senàle (U). Il “grembiule”. La parannanza.

Sendènze (Le). Le “sentenze” non sono altro che degli “auguri” di malocchio. Insomma quando si scagliano anatemi verso qualcuno, si dice che gli si inviano delle “sendènze”.

Seppìgne (La). Piccolo ripostiglio nella parte alta della casa, Immediatamente sotto il terrazzo.

Seppùnde (U). U “seppùnde” non è altro che il “puntello”. Nel lessico dei muratori c’è una frase che è la traduzione dialettale del “carico di punta” che si trova nella scienza delle costruzioni. Eccola qui: “tràve de pònde mandène nu mònde”, “trave di punta mantiene una montagna”. Una trave di punta indica una trave messa di “puntello” “de seppùnde”.

Serchiàle (U). Altro tipo di schiaffo.

Sèrchie (Le). Sono le screpolature alle mani durante un gelido inverno. Ormai non esistono più, ma i più grandicelli dei lettori si ricorderanno le mani screpolate dall’acqua e dal freddo delle proprie nonne che non avevano la disponibilità dello scaldabagno. Ma qui il discorso si farebbe lunghissimo.

Serdellìne (U). Il sordellino, oltre che uno schiaffo sulle orecchie che già conosciamo, è un fischio molto acuto e sottile che si fa succhiando l’aria indietro con la bocca come se si stesse succhiando rumorosamente il brodo dal cucchiaio. Il sordellino è usato comunemente per chiamare le ciccine e per far loro contemporaneamente un complimento esagerato. Non credo che le giovani generazioni usino più questo richiamo amoroso. Vanno diritto al sodo.  

Seròche (La). La suocera.

Serracòlle o serracòlla (La). Stiamo parlando delle collane in oro che vanno dal più economico sottilissimo filo di maglie d’oro (filettino) che generalmente si regala ai neonati, fino ad arrivare alla pesante collama in oro massiccio. Mi raccomando collama con la emme. In alcune zone del centro storico ho anche sentito sarracòlla con la “a” iniziale.

Servìzie (U). Servizio è un termine italianissimo che per ragioni a me sconosciute è utilizzato nel dialetto barese con parecchi significati. Essi sono:
“fare la cacca”,
“fare la pipì”,
“fare le faccende di casa”,
“svolgere un’incombenza” tipo andare a fare un vaglia alla posta,
tutte definizioni alle  quali va aggiunto il feroce significato della affermazione tutta al maschile racchiusa nella frase: “quello lì le ha fatto il servizio”.
Fare il servizio a qualcuna significa portarsi a letto una donna per una sola volta e poi non degnarla più di uno sguardo. Far la cacca è il “servizio grande”, far la pipì è il “servizio piccolo”, restare “a casa per fare i servizi” significa rimanere in casa per lavare i piatti, stirare le camicie, rifare i letti. Uscire di casa per i servizi, sta a indicare tutte le quotidiane incombenze che si sbrigano quando si esce di casa come far la spesa, andare in Comune, pagare una multa, eccetera eccetera.
Questa complessità di significati comporta spesso che il termine servizio è considerato, si badi bene, un termine praticamente italiano. Succede dunque, che qualche volta ci sono delle persone che quando devono parlare in italiano (pensando loro in dialetto e parlando quasi sempre in dialetto) traslano il termine servizio dal dialetto alla lingua, senza curarsi dello strano significato dato alla frase da chi li sta ascoltando. Stamattina, per esempio, ho telefonato a un ufficio pubblico a Bari, chiedendo del dottor Tal dei Tali, alto funzionario, e la sua segretaria, in un empito di chiarezza mi ha risposto letteralmente:” No, mi dispiace, il dottor Tal dei Tali è sceso giù a fare un servizio”. Ho riso per tutta la mattinata.

Sètt. E’ il numero sette.

Sèzz. Aggettivo, significa “uguale”. Non viene mai utilizzato da solo. “Sèzz sèzz” significa “tutto completamente uguale e senza soluzioni di continuità”. In veneto si direbbe “gualìvo”, pronunciare guaìvo. Quando càpitano quelle giornate con tutto il cielo unoiformemente grigio e nelle quali piove per molte ore, allora si dice che il tempo (il cielo) “è sèzz sèzz”.

Sfaccìme. E’ un aggettivo intraducibile in italiano. Sta per “furbo, in gamba, gran figlio di…”. Forse questo termine è stato mutuato dal dialetto napoletano (sfaccimme) che ha lo stesso significato. Inoltre, in Campania indica lo sperma.  

Sfalzìne (U). Lo sfalzìno è una persona inaffidabile, traditora, banderuola, senza parola, bugiarda, truffaldina. Spero di essere stato chiaro.

Sfàlzo (U). E’ termine leggermente più elegante di sfalzino e potrebbe essere usato in italiano, con buone probabilità di essere compreso. Insomma è la italianizzazione voluta dai baresi del termine sfalzino. Evidentemente viene da “falso”.

Sfasulàte (U). Aggettivo. Bel termine colorito, che indica la totale mancanza di pittura, schei, terrisi, pecore, scialle. Significa, insomma, “senza il becco d'un quattrino”. Al verde. Letteralmente “sfagiolato”, senza fagioli. Generalmente gli sfasulati sono anche indicati come “ai piedi di Cristo”. Piccola divagazione: i soldi in barese si chiamano “terrìsi” dalla moneta napoletana “tornèse”. Nelle Murge (sistema orografico parallelo all’Adriatico) i soldi vengono detti invece “turnìsi”. A Bari è anche usato il modo di dire “lo scialle” per indicare gran quantità di soldi. Una persona sciallata è notoriamente una persona ricca. Per cui il contrario di sfasulato è sciallato.  

Sfelàzze (U). Qui siamo in presenza di un termine interessantissimo che sta scomparendo dal linguaggio parlato, perché ci stiamo malinconicamente avviando sulla china di un benessere non intelligente. Mi spiego immediatamente. Lo sfilazzo è lo studentino dai quindici anni ai diciotto, senza il becco di un quattrino in tasca, che quando va al bar vicino la scuola con gli altri amici sfilazzi ordina per tutti un bicchiere di acqua di rubinetto con una scorza di limone. Tasche sempre vuote, ma mente sempre in ebollizione e, comunque, in progettazione. Un vitellone ante litteram, con molta creatività, ma desolatamente al verde. Forse viene da filo sfilacciato. Un filo è già qualcosa di sottile, sfilacciato poi! Di sfilazzi di questo tipo ormai se ne è persa la semenza. Mi ricordo di una splendida ed istruttiva storia che un mio amico, con ascendenze grumesi (sto parlando di una piccola cittadina in provincia di Bari che si chiama Grumo Appula) mi ha raccontato a proposito degli sfilazzi grumesi. Negli anni trenta, qualche vitazzuolo di Grumo faceva ogni tanto una capatina a Bari per andarsi a tuffare per qualche oretta nella città tentacolare, il Petruzzelli, il varietà, le donnine, i “caffè sciandàn” con le orchestrine sciorinate sui larghissimi marciapiedi del centro murattiano, antesignane delle orchestrine che all’oggi si vedono e si ascoltano a Venezia. Gli sfilazzi grumesi, vedendo il loro amico “ricco” che si dirigeva verso la stazione ogni volta gli chiedevano: “Addò te ne va jòpp jòpp?” “Dove te ne vai tomo tomo, quatto quatto?”. La risposta fulminea era generalmente: “Abbàre, a pelzà u fecèile!” “a Bari, a pulirmi il fucile”. Ricordo che in dialetto barese la stessa espressione recita invece “a pelzà la cemenère” “a pulire la ciminiera”. Due elegantissimi modi per dire che si andava in città per sciacquarsi le ampolline. Questa storiella, con risvolti ipertestuali, narratami dall’amico Gino “Ipse” Paradiso ha un risvolto filologico di notevole importanza storica. Alludo all’espressione grumese “jòpp jòpp” che fa il paio con la corrispettiva barese “tràppeta tràppete” (vedi). Il modo dire “jòpp jòpp” viene da molto lontano. Significa “àppia àppia”. Il viaggiatore che per andare da un posto ad un altro del territorio, necessariamente doveva camminare lungo la via Appia, che quelle contrade attraversava e attraversa; se ne andava infatti appia appia. Mi pare una nobile e interessante discendenza culturale.

Sfennequàte. Aggettivo, significa sfondato, ridotto male. Dicesi anche di qualcuno evidentemente sciupato, con il viso incavato.

Sfessàte (La). E’ uno dei tanti sostantivi sinonimi con i quali si indica la gragnuola di botte. Usato come aggettivo invece, sia al maschile che al femminile, significa un/una poveraccio/a, uno a cui mancano gli occhi per piangere. Un po’ come in italiano.

Sfòlge. Sfòlgere italianizzandolo. Verbo di cui non conosco l’etimo. Significa “sturare”. Sturare il lavandino. Invito qualche lettore volenteroso di madrelingua barese a far la coniugazione di questo verbo. Tanto per gradire si potrebbe cominciare col modo presente indicativo, con una incursione nel congiuntivo. Senza parlare del gerundio e del participio passato. A mio modestissimo avviso un’impresa davvero titanica.

Sfolgiapìppe (U). E’ lo scovolino delle pipe.

Sfolgorànte (U). Significa “brillante” oppure tutto ciò che luccica, tipo lo strass. Il grosso diamante invece si chiama “berlòcco”. Fanno parte delle parole che vengono usate nel lessico famigliare femminile. Queste gemme poi possono essere appese alla “collama” (vedi serracolla).

Sfraganàte. E’ il participio passato del verbo “sfraganà” “sfraganare”, che significa “fare a pezzi”. Generalmente quando qualcuno viene picchiato, si dice che viene sfraganato di mazzate. E’ un termine abbastanza trucido, non c’è che dire.

Sfrascià. Verbo.Significa “uscire fuori dal seminato”, allargarsi, portare la discussione, l’evento, in un campo sbracato, in modo cialtronesco e palesemente dispregiativo. Una volta il Southern Jazz Ensemble ha sfrasciato in modo indegno. Si era stati invitati a una festa di compleanno, mi pare, nel nord della Puglia. Arrivammo puntuali la sera un paio di ore prima che si iniziasse il concerto (dovevamo preparare il set, fare il sound chek, riscaldare gli strumenti, trovare la disposizione ottimale). Va detto che “u mbègne” (vedi) (l’ingaggio) era stato trattato e portato a buon fine dal clarinetto, il carissimo Peppino Sciannamea. Mentre stavamo finendo di sistemare gli strumenti, ci accorgemmo che eravamo finiti in una faraonica villa di gente ingozzata fino agli occhi di soldi e di cattivo gusto. Eravamo capitati in un cosiddetto club, molto selezionato ed esclusivo, di persone ricche che istituzionalmente si erano date anche il compito di far beneficenza, organizzare borse di studio ed altre cose del genere. Il carissimo Peppino, leggendo nei nostri occhi un forsennato desiderio di mandare tutto in vacca, ci sussurrò incautamente “Mi raccomando ragazzi, non facciamoci conoscere”. Mai fare alla band una esortazione del genere! L’effetto generalmente va esattamente nella direzione opposta. Il concerto iniziò ma subito ci accorgemmo, compreso il carissimo Peppino, che suonare jazz in quell’ambiente di ricche e grasse signore pacchianamente ingioiellate e di obesi e straricchi mariti che in vita loro avevano letto sì e no solo l’elenco del telefono, era la stessa cosa che tenere una conferenza sull’allevamento delle cozze nel mar Piccolo a Taranto durante un’assemblea del Club Alpino Italiano. Suonavamo nell’indifferenza più totale. La nostra reazione fu immediata e indolore, ed ebbe un successo che mai più avremmo avuto negli altri concerti. Smettemmo di suonare Mood Indigo di Duke Ellington e passammo alla mazurca di Migliavacca e agli ultimi successi della Orietta Berti, spesso intervallando il tutto con la marcia dei bersaglieri. Il pubblico si animò, cominciò a sbracarsi, cominciarono tutti a dimenarsi e si lanciarono nel vorticoso giro delle danze. A quel punto anche noi, ci demmo dentro di brutto, con valzerini, polche, mazurche e qualche accenno a musichette marziali suonate a sfregio, tipo “faccetta nera”, “passano i sommergibili” e quant’altro. L’imitazione di Dallara in  “Come prima” fatta da Gianni Giannotti, titolare del bengio, si ebbe una standing ovation. Si raggiunse il massimo dell’orgasmo collettivo, quando in una specie di gioiosa macumba, essendoci noi completamente calati nell’atmosfera di malgusto che si poteva tagliare a fette, suonammo per quasi mezz’ora Brazil (Brasil) facendo fare ai nostri adorati ospiti un trenino di dimensioni gigantesche. Addirittura il nostro batterista Paoluccio Lepore, adescò il Presidente nazionale dell’organizzazione benefica, mentre contemporaneamente il titolare della chitarra, il buon Antonelli, usando la forchetta con infilata una polpetta al sugo furegava nelle parti basse e intime dell’abito in lino bianco nuovo di trinca del nostro presentatore al seguito Tonino De Candia. Tonino De Candia sul quale prima o poi qualcuno dovrà scrivere svariati tomi. Va detto, per la verità storica che quello che più si divertì e più sfrasciò fu il carissimo clarinettista Peppino Sciannamea.
Ecco, amici miei, questo significa sfrasciare.
Va detto che le coordinate del luogo dove ho descritto la sfrasciata, o lo sfrascio del Southern Jazz Ensemble non sono quelle vere, per evitare rappresaglie. Come piccola traccia posso dire che, allora, l’Armando che suonava il contrabasso, usava -beato lui- per gli spostamenti una Jaguar. Quando la serata che ho appena descritto terminò e ripartimmo per Bari, tutti i partecipanti alla festa, ormai sbronzi come vecchie maiale, uscirono fuori la villa, per darci un ultimo appassionato saluto. Una giovane e bella signora, tutta ingioiellata, con il trucco ormai disfatto dal festoso e legittimo sudore che le inondava il viso, vedendo che l’Armando stava infilando il contrabasso nella jaguar, esclamò nel suo dialetto (che qui non trascrivo alla perfezione per le sunnomate ragioni): “Càzz! U trètt bbuène u contrebbàsse! U pòrte chèmede u stremènde!” “Cazzo! Lo tratta bene il contrabasso! Lo porta comodo lo strumento!" Di più non posso dire.
Un’altra volta, nell’intervallo, durante un altro concerto, lanciammo sulla pedana un bùmcicabùmci bùmcicabùmci collettivo che però rientrò subito. L’ambiente non era totalmente inquinato da berlocchi (vedi sfolgoranti) e acque d’odore (vedi). Fra gli spettatori, c’era qualche intellettuale che, buon per noi, ci salvò con un’occhiataccia dalla vergogna di una seconda sfrasciatura.
Siccome i baresi non si fanno mancare nulla ci sono altri modi di dire che hanno lo stesso significato di sfrasciare. Essi sono: “rompere il priso” ed “è arrivato il quadro alla piazza”. Come si sa il priso è il vaso da notte. In questo caso usato proprio come tale. Si può immaginare il disastro nel momento in cui un priso, magari pieno, si dovesse rompere. La frase “è arrivato il quadro alla piazza” indica che un oggetto, nel nostro caso un quadro che ovviamente rappresenta qualche cosa (al tempo della nascita di questo antico proverbio, non era ancora apparsa all’orizzonte l’astrattismo) è stato messo in una posizione tale (la piazza appunto) da poter essere visto e osservato da tutti. Un po’ come il segreto di pulcinella, segreto che correva e si propalava sulla bocca e nelle coscienze di tutti.

Sfùse (U). E’ la classica persona spaiata, generalmente un maschietto senza donne. Generalmente viaggia da solo. In comitiva è il più sfigato. Visto che sei sfuso, per lo meno porta i dischi!

Sgagliòzze (Le). La sgagliozza è la fetta di polenta fritta nell’olio di oliva e immediatamente mangiata. Si trova dalle parti del porto. Ci sono delle signore che le friggono sulla porta di casa e le vendono immediatamente. E’ un boccone di rara bontà.

Sgamùffe (U). Lo sgamuffo, parola peraltro bellissima, non è altro che un imbroglio, un trucco, un espediente. Sotto sotto c’è uno sgamuffo. Nel linguaggio parlato barese, anche quando si parla in italiano viene usato questo termine. Primo passo per il suo trasferimento dal dialetto vero e proprio alla lingua italiana parlata. La cosa non può che farci piacere.

Sgarzà. Verbo. Italianizzandolo “sgarzàre”. Togliere le garze al pesce. Le garze sono praticamente le “guance”. Sgarzare il pesce, è un’operazione che fanno i pescivendoli. Prima di dare alla massaia il pesce, lo sgàrzano, nel senso che lo puliscono rapidamente, togliendo al pesce il grosso delle interiora. Sgarzàre qualcuno significa anche dargli un sacco di botte. Sgarzàre è il contrario di ingarzare, che vuol dire “imbottire” (vedi ngarzà).

Sghìne. Aggettivo. Era usato, raramente, da Umberto Flower, quando si riusciva ad eseguire un brano jazz in maniera decente (e a noi pareva di toccare il cielo con un dito). Quello era il classico caso in cui il brano era venuto fuori "sghìno". Ignoro il significato. Potrebbe voler dire "togo", ma non mi  azzardo più di tanto. Erano "sghine" anche le camicie estive a quadretti che si vendevano d'estate all'UPIM. A proposito dell'UPIM, a dimostrazione di quanto sia scientificamente esatto il titolo di un libro dello stesso autore “Nella terra dell’U”, va detto che molte signore che venivano dalla provincia barese per far compere all'UPIM, credendo che la parola UPIM fosse pronunciata e scritta in dialetto, quando raccontavano della loro temporanea trasferta a Bari, dicevano, toscaneggiando, che erano andate a far compere in un negozio che si chiamava "il Pimmo" (U Pimme). Dopo una telefonata chiarificatrice con Flower Umberto, posso aggiungere che "sghino" al limite, ma molto al limite, può tradursi con la parola "raffinato". Sghino è tutto ciò che è contemporaneamente eccentrico e fatto a regola d’arte. Oggi, forse, si direbbe che sghino è il termine corrispondente al modo dire “uno che fa tendenza”. Ma non c’è paragone fra la bellezza del suono “sghìne” e la stupida espressione “uno che fa tendenza”, che comunque, anche senza paragonarla a “sghìne” è abbastanza brutta e cretina di suo. In italiano si direbbe “togo”. Un abito alla moda leggermente vistoso è “sghino”.  

Sgròscie (alla). Significa gratis. Vedi “gratùscie”. Ma, a differenza dei suoi sinonimi, significa anche essersi procurato qualche cosa gratis usando mezzi poco leciti. Se per esempio si è riusciti ad entrare in un cinema senza pagare il biglietto, in un momento di ressa al botteghino, ecco che si è andati al cinema “alla sgrosce”. Un dialetto dove la parola “gratis” è tradotta “gratuscie” “ndùne” e “allasgròsce” ha delle valenze notevoli che andrebbero studiate a fondo. Ma qui passo la parola agli antropologi, agli etnologi, ad altri studiosi molto più qualificati di chi, dilettantescamente come me, sta scrivendo queste note. Mettendo insieme un po’ di termini che sono riuniti in queste paginette si potrebbe già imbastire un canovaccio su cui poi poter lavorare. Ad esempio “nu sguìzze sfelàzze e squagghjiasòle fascì u sghìne e senescì allasgròsce ocìneme”. Mi pare un delizioso incipit di un racconto. La traduzione la lascio ai miei cortesi lettori.  

Sguìzze (U). Letteralmente “svizzero”. Per ignote a me ragioni, in barese questo termine indica un avaro della peggior risma.  

Sgùscie (U). Termine mutuato dalla ebanisteria. Uno sguscio è una leggera cavità del legno ottenuta con la sgorbia. Quando si dice che quel ragazzo ha lo stesso sguscio del padre, si vuol far notare la profonda rassomiglianza di carattere. Si dice anche che sono cugni dello stesso legname.

Sìve (U). Il sivo è lo sporco di origini grasse. Donde l’aggettivo “nzevate”, “sporco”. Forse viene da sego ma non ne sono molto sicuro.

Skenfedènze (La). La sconfidènza è una parola molto bella. Ha un significato stranissimo. Significa “sconforto”. Una notizia particolare, una persona triste, un accadimento negativo, ti fanno venire la “sconfidènza”. Ha nobili origini nel lessico italiano. Viene da “confidare” in qualcuno, in qualche cosa. Con la esse privativa come prefisso, indica dunque una perdita della fiducia in qualcuno o in qualcosa, per cui si resta “sconfortati”.  

Smìccjie (U). Lo smìrcio è l’orbo, colui che ci vede male. Che strizza gli occhi per vedere meglio. Forse viene da sbirciare.

Smutrà. Verbo. Italianizzando la parola avremo “smutràre”. Molto bella come suono, altrettanto bella da vederla scritta. Il significato è non facile da descrivere. Chi smùtra è persona dotata di grande intelligenza. Smutrare significa comprendere il significato recondito delle cose, capire i meccanismi preposti alle cose stesse, fiutare un inganno, prevedere in tempi strettissimi un trucco, una gherminella, capire cosa c’è sotto, avere chiarissimi tutti i termini di una qualsivoglia questione. “Iùne ka smutrèsce” “uno che smutra” è un attentissimo, acutissimo ed astutissimo osservatore dei fatti, della realtà, delle situazioni. E’ difficilissimo darla a bere ad un grande smutratore. Il grande giocatore di scacchi che prevede tutte le mosse dell’avversario, foss’anco il più ostico, è uno che sa smutrare da Dio. Come anche una ciccina che capisce che le avance fatte dal galletto del pollaio di turno sono soltanto avance per una rapida scopata e poi basta lì, è una che ha smutrato la tecnica del dongiovanni del momento, peraltro anche da strapazzo. Mi pare veramente una bellissima parola. E’ ovvio ed evidente, lasciatemi quest’empito di appartenenza, che come smutrano i baresi, smutrano ben poche persone sulla faccia della terra.
Forse vale la pena soffermarsi sulle coniugazioni di “smutràre”. E’ poco usato al presente, per una semplicissima ragione. Usare tale verbo al presente è come dire che, contemporaneamente all’accadere dell’avvenimento criptato, la persona smutratrice riesca a smutrarlo in tempo reale. Lo smutro non è contemporaneo all’azione da decodificare perché, per evidenti ragioni tecniche, ha bisogno di qualche decimo di secondo in più per poter elaborare la situazione che  si sta analizzando  e che solo in un secondo momento, ancorchè rapidissimo, viene smutrata. A memoria d’uomo quasi nessuno ha mai detto “io smutro”, mentre ha usato generalmente “Io ho smutrato” “io smutrai” “io sto smutrando”. Per queste semplicissime ragioni mentre è facilissimo, si fa per dire, coniugare il passato prossimo “jì so smutràte “e il passato remoto “jì smutràbbe” il presente denuzia qualche difficoltà e addirittura qualche eccezione. Ecco qui dunque un tentativo mal riuscito di coniugare il tempo presente di “smutrare”
Jì smurtèsceche
Tu smutrìsce
Jìdde smutrèsce
Nù smutràme
Vù smutràte
Cchìde llòre smutrèscene
E’ termine che appartiene anche al lessico malavitoso. Infatti si dice “smutrò la polizia”. Forse l’origine viene da “mutria”, nel senso che io, decodificando, “s” “mutrando”, dei piccoli segnali apparsi sulla mutria di una persona, riesco a capire che cosa sta accadendo. Questi facoltà di leggere i segnali, va ulteriormente detto, appartiene esclusivamente a noi baresi, e avàst (vedi). Non dimentichiamo poi che in italiano “mutria” significa “faccia altezzosa e severamente corrugata di una persona”. Forse addirittura viene dal greco moderno “mòutro” (faccia),  parola portata in Italia dai veneziani.
Come esempio di complessità dell’uso, dei significati, dei valori e delle origini di una parola abbiamo qui davanti agli occhi un elegantissimo caso da poter studiare anche dal punto di vista della fonetica e della corretta scrittura, oltre al fatto di essere in presenza di un caso emblematico dei meccanismi comportamentali di una persona. Di una persona che sta smutrando, per l’appunto.

Sòcie (La). Vedi “la moscie”.

Sopasciòndue (La). E’ il buon peso. Per l’esattezza “la soprasciònda” dove “sciònda” sta per “aggiunta”. A proposito di sciònda, mi ricordo che quando si assisteva ad un episodio in cui si supponeva ci fosse del malocchio o quando si era in presenza di uno iettatore, i più ortodossi facevano gli scongiuri. Mentre le donne in maniera pudica si grattavano (e credo si grattino ancora) la punta del nasino (a Bari), gli uomini molto più melodrammaticamente si grattavano (e si grattano ancora) i coglioni biascicando fra sé e sé una giaculatoria che, numerando coscienziosamente ogni palpatina/grattatina così recitava: “iùne, dù, trè, quàtte, cìnghe, sé, sètte, uètte, nòve, dèsce, iùnece, dùdece, trìdece, trìdece emmjìenze, iune pe tè, iùne pemmè, iùne pè tùtte la cettadenànze, la sciòndue, bòn pèse e la regalìe”. In tutto venti bottarelle. Come si vede non si badava a spese. All’aggiunta, si aggiungeva ancora un po’ di buon pesa e, last but not least, perchè no, crepi l’avarizia, anche una ulteriore regalìa. In questi casi meglio scialare. Nei piani alti della cultura, in un latino maccheronico eccovi qui su un piatto d’argento la stessa formula istituzionale un filino più paludata: “tèrque quatèrque testìculis tàctis, ùsque ad sànguinem pìlo detràcto, palleggiatòque augèllo, jactùra fugàta est”. Va detto per onestà intellettuale che la raffinata grattata di coglioni veniva e viene generalmente eseguita da sopra i pantaloni. Qualche ultraortodosso, per tema che l’esorcismo non giungesse a segno, infilava addirittura la mano sotto i pantaloni. Questi specchiati gentiluomini però non costituivano la maggioranza, almeno per quello che ci è dato ricordare.  

Sopatàue (U). Significa letteralmente “sopratavola”. L’accento va sulla seconda “a”. Fanno parte del sopratavola tutte quelli frivolezze che si mangiano alla fine di un pasto luculliano, noci, nocelle, semi  secchi di varia provenienza, finocchi crudi, ceci abbrustoliti. A proposito di finocchi, mi piace qui raccontare perché si dice infinocchiare. Come tutti sanno, dopo aver mangiato un pezzo di finocchio, qualunque vino venga poi bevuto subito dopo, essendo alterato nel sapore dalla incombenza del finocchio, diventa generalmente gradevole, specialmente per i poco esperti. Orbene l’oste disonesto che ha del vino pessimo, lo serve sempre accompagnandolo a un piatto pieno di tocchi di finocchio. L’incauto avventore mangia il finocchio e poi beve senza accorgersi che il vino è in realtà un vinaccio. Insomma viene infinocchiato.  

Sòre (La). E’ la “sorella”. Fratello, come già scritto in altra parte del lessico,  si traduce “fràte”. Questi due termini hanno subìto nella loro lunghissima vita trattamenti diversi. Facciamo subito un esempio: per dire “tua sorella” si dice “sòrete” per dire “tuo fratello” si dice “fràtte”. Orbene “sòrete” ha una pesante componente di volgarità mentre “fràtte” non ne ha nessuna. Se ci si rivolge a qualcuno esordendo con “sòrete” il minimo che può capitare è un’occhiataccia. Se invece ci si rivolge al nostro cavia/qualcuno dicendogli all’improvviso “fratte”, non si accende nessuna lampadina nell’interlocutore. Questo perché accade? Perché la discriminazione fra uomo e donna, in favore ahimè dell’uomo, del maschio di casa, è dura a morire. Lo stesso meccanismo funziona anche con i termini “mamma e papà”. “Tua madre” si traduce “màmete” mentre “tuo padre” si traduce “attànde”. Provate a dire “màmete” all’interlocutore di cui sopra e gli vedrete negli occhi le fiamme, provate a dire “attànde” e non accade nulla. Nel dialetto barese con màmete e sòrete si possono costruire degli insulti micidiali, mentre con fràtte e attànde non si va da nessuna parte. Un’eccezione potrebbe essere “tuo zio” “ziànete” con il quale si possono costruire degli insulti usando gli stessi meccanismi al femminile. Un esempio calzante di uso improprio della condizione della donna è il seguente signorilissimo gioco di parole/dialogo:
-Salùteme assòrete
-Sòre non ne tènghe sopammàmete me ne vènghe, me ne vènghe chiàne chiàne, màmete e sòrete fàscene le pettàne.
Che tradotto rapidamente così recita “Salutami tua sorella. Sorella non ne ho. Sorella non ne tengo sopra tua madre me ne vengo, me ne vengo piano piano, tua madre e tua sorella fanno le puttane”. Ai massimi livelli della signorilità, non c’è che dire.

Sòrghe (U). E’ il “sorcio”.

Sòrte (Na)(Nu). Questa parola viene usata sempre seguita da “de”. Potrebbe venire da “sorta” italiano, ma non ci giurerei. Il significato esatto di “sòrte de” (è sempre legato alla proposizione “de” che significa “di”)  è “un gran bel pezzo di….”. Per esempio “nu sòrte de pecciòne” è “un gran bel pezzo di ciccina”. Piccione (vedi) qui sta come parte del tutto. Infatti, tanto per cambiare (ricordarsi la maschilizzazione di attributi ed aggettivi femminili),  “nu” è maschile e significa “un”, “na” è femminile e significa “una”. “Na sòrte de fèmene”.

Spaccachiànghe (U). E’ un gioco che consiste nel battere delle monetine per terra per poi subito ricoprirle con il palmo della mano. Bisogna indovinare cosa c’è sotto il palmo. Ci sono molte variazioni sull’argomento, fino alla variante ultima che consiste nel far vincere chi arriva più vicino al muro lanciando le monetine dal ciglio del marciapiedi. E’ un gioco complesso e soggiace a tutta una serie di riti che ormai sono praticamente persi. Le indicazioni che ho fornito non sono di prima mano. Spaccachianghe, che significa “spacca una lastra di pietra (usata per la pavimentazione)” era anche il soprannome data ad una fan del Southern Jazz Ensemble. Si chiama E. ed è una deliziosa signora che faceva parte del mitico gruppo che seguiva il Southern Ensemble nelle sue peregrinazioni concertistiche. Questa cara amica, pur essendo magra, longilinea e bionda, quando cammina ha una imperiosa falcata e pare che ad ogni passo sia lì lì per spaccare con i tacchi una lastra in pietra della pavimentazione stradale. Attualmente vive felicemente a Milano e tutti la salutiamo cordialmente.

Spadìne (U). Come in italiano, significa “spadino”. Termine che viene usato dai malamente (vedi) per indicare un cucchiaino d’argento utilizzato come mezzo per compiere truffe e raggiri. E’ un semplicissimo cucchiaino d’argento che viene utilizzato per gabbare qualche credulone. Si va da qualcuno che si sa che è lì li per fare qualche regalo e si propone al malcapitato un servizio di posate d'argento, a ottimo prezzo. Per rassicurare l’eventuale compratore gli si lascia per qualche giorno un cucchiaino del servizio, cucchiaino di purissimo argento, che il compratore potrà portare dal suo orefice di fiducia per farne verificare l’autenticità. Una volta assicuratosi che il cucchiaino è d’argento, la vittima, visto peraltro il prezzo,  acquista l’intero servizio di posate dal malamente, posate che sono invece assolutamente false, anche se hanno l’aspetto di vere posate di argento. Nel momento dell’acquisto, con lestezza e bravura, il malamente sostituisce il cucchiaino di argento vero (lo spadino) con uno uguale ma falso. E così si continua a riutilizzare lo spadino per le prossime truffe. Spadino sta quindi per oggetto che serve a trafiggere, a trafiggere la buona fede dell’acquirente.  

Spadrià. Significa “spatriare”. In realtà vuol dire divagarsi, smettere di pensare al quotidiano e rifugiarsi nelle frivolezze, nei giochi e nelle leggerezze amorose.

Spanèdde (La). E’ quel canestro piatto con bordi molto bassi sul quale con profonda maestria vengono arrizzati i pulpi, facendoli muovere in continuazione con moto rotatorio.

Sparagnà. Verbo. Evidentemente significa “risparmiare” ma ha anche un secondo stranissimo significato. Per intanto va detto che sparagnare, sparambiare, addirittura in ladino “sparàni” (risparmio), hanno tutti lo stesso significato su tutto il territorio nazionale. Ritroviamo il semantema anche nella tedesca “sparkasse” che significa “cassa di risparmio”. Quindi una parola importante con solide e ramificate radici e con il medesimo significato. A Bari, però, siccome non ci facciamo mancare nulla, “sparagnare” significa anche “spremere”. Viene usato principalmente quando si “spreme” un foruncolo. “Ngià sparagnàte nu frùgnue” “gli ha spremuto un foruncolo”. Misteri dei percorsi carsici delle parole.

Sparemembjìette. Viene generalmente usato al femminile. Significa letteralmente “spàrami al petto”, ma ha ben altro significato. Ricorderete tutti la straordinaria Sophia Loren ne “L’oro di Napoli” nel ruolo di pizzaiola, quando camminava per la strada tutta pimpante e sicura di sé. Bene quella è una tipica andatura da “sparemembjiètte”. Si potrebbe dire in italiano “sicura di sé” “andatura fiera” ma non rendono il significato vero di questo termine così felicemente coniato dai nostri antenati. Incedere femminilmente esibendo sé stessa con tutte le proprie grazie in modo così fiero, non è da tutti.  

Sparnezzà. Verbo. Significa “disseminare, spargere”. Per esempio, dopo il pranzo, la tovaglia è spernezzàta di molliche. Quando si rompe il filo di una collana, tutti i componenti della collana stessa si sparnèzzano sul pavimento. Il formaggio “se sparnezzèsce soporagù”.
Spàrte. Significa “spartire”, dividere.

Specchiètte (A). Letteralmente “specchietto”. Mettersi “a specchietto” significa “appostarsi” per arrestare qualcuno, o anche per fargli del male.

Spedeghìne (U). Lo spidighìno è una persona molto magra e minuta. Forse viene da “spago”, sottile come uno spago, ma non ci metterei la mano sul fuoco. Ascoltato anche “spidighìne”

Spengetùre (U). Tutto quello che aiuta il pane a scendere meglio nello stomaco. Il companatico. Viene da spingere “spingitòio”. Potrebbe essere anche l’antipasto.

Spenzà. Verbo. Significa bagnare nell’acqua, nel vino, nel latte e così via. “Inzuppare” quindi. Nel gergo dei falegnami la “spònza” è una specie di palla fatta di stracci imbevuta in vernici particolari che servono a dar di pulitura ad un mobile. La pulitura è la lucidatura.

Spèrteche (La). La spertica è una lenza, formata da un lungo filo di nailon, arrotolato su un supporto di sughero della dimensione di un palmo di mano. Al fondo del filo c’è un peso di piombo di circa cento grammi. Prima del peso,  a una distanza compresa fra i dieci e i venti centimetri, sono legati alla lenza due o tre ami a un gancio solo. La spertica serve per pescare le anguille che generalmente pascolano sul fondo del mare. Viene lanciata lontano dalla riva facendo roteare il piombo come fosse una fionda. Si pesca dalla riva, generalmente di sera dopo le cinque.

Spezzecà. Verbo, intraducibile in italiano. Significa “piluccare”.

Spilacicì (U). Lo spilacicì è una persona alta e molto mingherlina. Chè poi una traduzione vera e propria non esiste. Chessò vogliamo dire “spela uccello”? Non ha un significato preciso. Allude soltanto alla magrezza.

Spìzzechemmeddìche (A). Quando si procede “a spìzzìchi e mollìche” significa che si sta procedendo a saltelli, lenti e inutilmente inutili. Grosso modo significa andare avanti utilizzando le bricioline della situazione. Una situazione quasi di stallo.

Spontapède (U). “Saliscendi”. Quello vicino al pavimento. Viene appunto mosso utilizzando il piede.

Spressedùte. Aggettivo, significa letteralmente “scaduto”, un po’ come una medicina. Aggettivo che si affibbia a una persona insignificante, “senza sanghe” senza sangue, il classico pesce lesso senza condimento. Ma anche un film, una situazione, un amore possono essere/diventare spressedùti. In veneziano si dice in maniera altrettanto colorita “insulso”.

Spruà. Significa “potare”. Anche questa strana parola ha lontanissime consonanze (vedi scriale) con la terra veneta, nel senso che sulla riva sinistra del Piave, in provincia di Treviso si dice “sarpìr”. “Sarpìr” e “spruà” hanno stretta parentela fra loro. Pensate al gruppo di consonanti “s” “p” “r”. E pensare che sulla riva destra del Piave, a meno di un chilometro dal luogo dove si dice “sarpìr”, potare si dice “bruscàr”. Altro piccolo segnale della infinita varietà dei dialetti in Italia.

Spùnde (U). Significa “l’angolo formato da due strade”. E, inoltre, significa anche una leggera scivolatina verso l'aceto. Questo vino dà di spunto.

Squagghiatjìedde (U). E’ quello sgradevole odore che permane sui piatti o sui bicchieri, anche se sciacquati abbondantemente, dopo aver mangiato le uova. In veneto si dice “freschin”. Dimenticavo la traduzione eccola “squagliatèllo”.

Squagghjiasòle (U). Bellissimo modo per indicare il “fannullone” perfetto, che passa la giornata “squagliando il sole”. Notare: “squagliando il sole” senza farsi squagliare. Il massimo della raffinatezza e dell’intelligenza. Càpita a pochissimi privilegiati la diabolica facoltà di far squagliare il sole senza subire danno alcuno! Attenzione però, un fannullone che è tale perchè vive di espedienti e perché è sempre in agguato di qualche cosa di poco lecito che gli procuri momentanea tranquillità, si dice che campa alla scusa di Cristo, mentre il fannullone puro, quello appunto che squaglia il sole senza essere squagliato e non nuoce a nessuno, appartiene alla categoria dei grandi artisti. Certe differenze vanno segnalate, diamine!

Squarciàte. Si vada alla parola squascianata di cui squarciata è sinonimo. In più l’aggettivo squarciata (usato quasi sempre, ahimè, al femminile) anziché indicare una parte del corpo, indica tutta la persona. Maria? Ormai si è squarciata.

Squascianàte. Aggettivo usato generalmente al femminile, purtroppo. Quando una donna invecchiando, si ingrassa parecchio, deborda da tutte le parti, perde le sue grazie, si dice che si è scquascianàta. Quando la stessa cosa succede ai maschietti, si dice invece che il tal dei tali è diventato “aggravànte”. Squascianàto, al maschile, è utilizzato per una particolare scala di bellezza dei culi femminili. La scala dei valori è dunque la seguente:
Bel culo. Si commenta da sé. Un culo serio, di quelli che l’occhio vuole la sua parte.
Culo che parla. Qui siamo ai massimi livelli. Si addice alla classica “bella cozza” (vedi).
Culona. Una culona ha qualche etto in più. Ma è ambìto egualmente.
Culacchiona. La classica culacchiona, preda ormai delle grandi dimensioni, ma che ha comunque parecchi  estimatori.
Culo squascianato. Questo culo è diventato enorme.

Squìcce (U). Significa “un goccino”. Beviamoci “nu squìcce de rosòlie” bagniamoci il becco con un goccino di liquore.

Srèche (U). Il suocero.

Sròche o Seròche (La). La “suocera”. Viene pronunciata con malagrazia dalla nòre (vedi).

Stàccie (La). La stàccia è un gioco da ragazzini. Una specie di rincorrersi. Chi rincorre e tocca l’inseguito grida “stàccia” e l’inseguito diventa automaticamente inseguitore.

Staddìgne. Viene certamente da “stalla” “stàdde”. Una persona staddìgna è un forzuto pieno di muscoli. Uno stallone vero, non di quelli palestrati.

Stambàte (La). Significa un forte “calcio”, ma così forte che ti rimane lo stampo, l’impronta, sul culo.

Stangachiàzze (U). Lo “stancapiàzze”, bellissimo termine, è il fannullone per antonomasia. Vedi “squagghjiasole”.

Stepòne (U). E’ il grosso armadio nella camera da letto. Un armadio a muro, più piccolo viene chiamato stìpo. Viene evidentemente da “stipare”.

Stescià. Verbo, significa “pulire, nettàre”.

Stetà. Verbo. Significa “spegnere”. Nel modo imperativo si dice “stùte”. In veneziano spegnere si dice “stuàr”. Con buona pace di quelli che non credono alla circolazione delle parole.

Stevànte, ovvero stevànde (La). Innanzi tutto va detto che viene dal lessico marinaro, da “stiva”. Ma significa ben altro. Indica la “ciòla” (vedi). Immediata la comprensione dell’accostamento apparentemente audace, ma in realtà assolutamente pertinente, ancorchè da caserma. Il mettere dentro la stiva, stivare insomma. Il fatto che proprio quel delizioso posticino che state pensando sia immaginato dai rudi barivecchiani come un luogo ove stivare “qualche cosa” la dice lunga sul pesante senso dell’umorismo dei miei cari barivecchiani (mettiamola così per carità di patria). A proposito dell’esprit de finesse, un medico che aveva il proprio ambulatorio a sud del centro murattiano, un giorno di aprile, ad una madre robusta popolana che gli chiedeva cosa mai occorresse alla figlia per quei giramenti di testa, per quelle nausee, rispose in maniera molto vellutata dicendole che non erano fenomeni dovuti a una normale e banale astenia primaverile, ma erano semplicemente stati causati da una “stivànte”. Fatto assolutamente vero. Se mi leggerà, il mio carissimo amico medico si riconoscerà.  

Stèzze (U). Un pezzo di qualunque cosa.

Stezzecà. Verbo, significa “piovigginare”. Quando cade una pioggerellina fine fine, che quasi non bagna, sta “stizzicàndo”.

Stiberefattecàzze. Oppure stuberefattecàzze. E’ una gentilissima espressione che si rivolge a chiunque ti stia raccontando o dicendo qualche cosa di assolutamente spiacevole, che però non ti interessa più di tanto. Tradotto in italiano “questi cazzi ben fatti”. “Non me ne può fregar di meno” insomma.

Strà. Verbo. Sta per “stirare”. Donde “stratùra” che significa “stiratura” e “stràte” che vuol dire “stirato”.

Stramuèrte. Vedi muèrte.

Strànie. E’ semplicemente “l’estraneo”.

Strascèdde (La). E’ una piccola stecca di legno. Se aumenta leggermente di dimensioni e viene usata come spessore nelle impalcature, sotto gli elementi verticali, allora si chiama “mascèlla” (vedi). Se diventa ancora più massiccia, nel senso che le tre dimensioni sono tutte compatibili fra loro, allora diventa un “pezzòtto” (vedi).

Strascenàte (Le). Sono le “orecchiette. Per confezionarle, bisogna (s)trascinare con il coltello, su un piano di legno detto “taveljìere” (vedi), un piccolo pezzo di pasta a forma cilindrica.

Strascinafascènne (U). Letteralmente “trascìna facèndo”. E’ un fannullone neghittoso e pigro. Peggio di così.

Stratùre (La). E’ la comunissima “stiratura” della biancheria.

Strazzà. Significa “stracciare”. Rifacendoci alla rudezza tipica di certe espressioni dialettali baresi, mi piace far notare che i pomodori che si mettono nel sugo, nei ciampotti o ciambotti, nei soffritti, dovunque insomma ci sia bisogno di loro, non vanno mai spezzettati o tagliati a tocchetti, ma devono essere “strazzati”. I pomodori strazzati assumono ben altre suggestioni in campo culinario. Va ricordata anche la frase idiomatica “me sò fàtte na strazzàte de maccarùne” “mi sono fatto una scorpacciata di pasta asciutta”. Farsi una strazzata di qualche cosa indica sempre l’aver fatto qualche cosa alla grande, ai massimi livelli. Elenco qui due parole composte con strazzare. Esse sono “strazzamutànde” e “strazzapercàlle”. Indicano due potenti scorreggione con la stessa intensità sonora, solo che la prima è da giorno, stando in piedi, vestiti, la seconda è da notte, fra il sonno e la veglia, al calduccio delle lenzuola di “percalle” appunto.

Strazzacùle (U). Lo stracciacùlo, oltre ad essere una scorreggia potentissima, soprattutto per quanto riguarda le sue effettive dimensioni sonore, misurate in decibel,  è anche uno stronzo di dimensioni talmente esagerate da risultare dolorosissime per il malcapitato produttore. Prego notare la mia finessa nel non aver scritto “la malcapitata” al femminile; è una mia microscopica difesa d’ufficio dell’intimità dell’altra metà del cielo che, come già detto altre volte, nel nobile dialetto barese è talora posta in condizioni di inferiorità, assolutamente non meritate.    

Strazzamutànde (La). E’ una gagliardissima scorreggia talmente forte e sonora da riuscire a stracciare le mutande.

Strazzapercàlle (La). Come sopra, solo che questa volta è riuscita a stracciare la stoffa del lenzuolo che generalmente è chiamata percalle o pelle d’ovo.

Strefènze (La). La “strefenze” è una donna sciatta, bruttina, vestita malissimo e molto magra. Termine intraducibile.

Strefòne (U). E’ un gioco. Consiste nell’inseguirsi a vicenda.

Strùnze (U). U strùnze è una delle parole più usate nell’insulto. Al femminile la “strònze”. Si arriva a delle straordinarie precisazioni fantastiche e ridondanti come nel caso di “Cùde strùnze demmèrde”, “quello stronzo di merda”. In certi momenti di rara affettuosità si indica con questa frasetta una persona estremamente simpatica. Ma bisogna stare attenti all’intonazione e al ritmo. Cosa non da tutti.  

Strunzelòne (U). Magnifico accrescitivo del termine “strunze”. Sebbene accrescitivo, perde di cattiveria e aggressività e conserva un certo tipo di bonomia. In italiano, nel campo delle coccole fra maschietti e ciccine, si utilizza, alle volte, mio bello stronzacchione, mia adorata stronzacchiona. Si è persa la cattiveria a tutto vantaggio della coccola, in questo particolare caso di grande e sottile raffinatezza.

Strùsce. Verbo, significa “consumàre”. Il participio passato fa “strùtte”, la prima persona del passato remoto fa “strescjìebbe”. “Strùsce” si legge allungando parecchio la “u”.

Strusciabène (U). Sta per scialacquatore. Significa “consuma beni”. Suo sinonimo è “strusciannàro”.

Stusciamùsse (U). Particolare tipo di schiaffo.

Stutacannèle (A). Innanzi tutto che cosa significa. Letteralmente “spegnicandela”. Avete presente quella canna con su in cima un conetto metallico con la parte larga verso il basso che serve per spegnere le candele in chiesa? Bene, non è di quell’attrezzo che stiamo parlando. Stiamo parlando invece di una deliziosa posizione da kamasutra nella quale la ciccina cavalca lei il suo partner. Come definizione è assolutamente calzante e deliziosa. Per cui anziché scrivere l’articolo “u” dopo il termine, bisogna far precedere questa bellissima  parola dalla preposizione “a”. “A stutacannnele” appunto.

Subrètte (La). Viene dal francese “soubrette”. Nel gergo teatrale significa servetta.  Canzonettista di caffè concerto. Generica nelle riviste musicali. Definizioni prese di peso dal vocabolario italiano-francese, francese-italiano di Candido Ghiotti, edizioni Petrini, Torino del 1942. Si possono riscontrare parole che sono finite nel dimenticatoio. “Servetta” per esempio, diminutivo di serva, fortunatamente dico io, non è più usata. Altra parola “canzonettista”, questa invece più gradevole, rimanda a Mimì Tirabusciò con la sua splendida “mossa”. “Generica” poi, nelle riviste musicali, è un poco più vicina al nostro lessico contemporaneo. Le riviste musicali oggi si chiamerebbero “musical” oppure “fiction musicali”. Ai tempi di mio padre le riviste facevano parte dello sterminato mondo/categoria del varietà, quello di Wanda Osiris, Macario, per intenderci. Le subrette dunque erano delle splendide ragazze che non parlavano quasi mai, esibivano sulla scena soltanto le loro magnifiche grazie. Le subrettine appartenevano al primo scalino della carriera, le subrette al secondo scalino e fra queste prima o poi nasceva la prima donna dello spettacolo. Una definizione contemporanea di subrette potrebbe essere la velina. Con la differenza che le veline qualche parola la dicono. Le subrette erano all’apice dei pensieri, delle fantasie, dei desideri, di diverse generazione. Un uomo che non si era mai innamorato di una subrette non esisteva nella raffinata categoria dei vitazzuoli. Impensabile un vitazzuolo che non annoverasse almeno un paio di subrette nella sua agenda.  

Sùme (U). E’ intraducibile in italiano. Grosso modo significa “fiuto, intuito”. Procedere in una ricerca, di qualsiasi tipo e dimensione, seguendo il proprio sumo significa andarsene ad intuito. Le persone dotate di sumo sono virtuosissime persone di alta eccellenza. Tempo fa un amico di mio padre si trovava a Milano dove fermò per strada un distintissimo signore chiedendogli dove fosse una tal strada. Il distinto signore con forte accento lumbard iniziò la descrizione del percorso, vada diritto seguendo due caseggiati, poi svolti a destra, dopo cento metri vedrà dei bei platani, li segua fino ad un tabaccaio, di fronte noterà una strada poco frequentata, la imbocchi e poi se ne vada al sumo. L’amico di mio padre, meravigliatissimo chiese: “come al sumo?” e il distinto signore lumbard prontamente rispose “Tu sì debbàre, me ne sò avvertùte dauaccènt. Sà ce jè u sùme?” “Sìne” E allòre vattìnne ò sùme e sì arrevàte”. Di colpo si passò dal lei al tu. “Tu sei di Bari, me ne sono accorto dall’accento. Sai che cosa è il sumo?”.  “Sì”.  “E allora vattene a sumo e sei arrivato”. Meraviglioso.

Sùrchjie (U). Vi sarà capitato qualche volta di notare sul collo di qualche amico o di qualche amica dei leggeri lividucci a forma di bocca. Ebbene signori, il surchio è la maniera dialettale per indicare i succhioni che si fanno durante incontri di lotta libera con le ciccine. Se il surchio è molto pronunciato, allora siamo in presenza del “sussùrchio” (vedi). Il surchio è anche il delicatissimo rumorino che si fa quando si aggredisce un cucchiaio stracolmo di brodo. Quando il brodo è di colombino, allora è tradizionalmente portato in omaggio alla puerpera che si è appena sgravata. In barese, partorire viene tradotto con il leggerissimo termine “sgravàre”. Sempre rifacendosi alla rude maniera di tenere i piedi ben piantati per terra.  

Susessòtte (U). Un tipo di schiaffo.

Sussùrchjie (U). E’ un surchio (vedi) molto prolungato.

Sussùrre (U). Il sussùrro è il “bicchierino” di grappa, o di anice, o di Vecchia Romagna. Questo modo di dire è nato fra i panepersi (vedi) che frequentavano negli anni cinquanta lo spazio davanti l’Ormada, in corso Cavour, fra il Gran Caffè Savoia e il Caffè Mokador. Altri tempi.

Sùste (La). In italiano la sùsta è la molla del materasso. Come detto in altra parte del libro, in barese sùsta significa malumore. “Tengo la sùsta” significa: “ragazzi oggi lasciatemi stare, perché sono nervoso, sono teso come una molla, ho la sùsta”. A dimostrazione che l’Adriatico è un lago e noi pugliesi siamo rivieraschi come i pescaresi, come i veneti, come gli sloveni, come i croati, come gli albanesi e come tutte le altre regioni italiane adriatiche e le altre etnie adriatiche, mi piace far notare che a Venezia, ottocento e passa chilometri più a nord, per dire che si è particolarmente giù di morale, infiacchiti, decoionnè, insomma si è prigionieri di una condizione contraria alla sùsta pugliese, si usa dire :”so zò de susta” “son giù di sùsta”, sono con il morale a terra.  Sono praticamente senza molla.

Tabìcchettabbòc. Fare tabìc e tabòc significa andare da un argomento all’altro, saltabeccando in continuazione fra  due fatti. Naturalmente viene dal latino “Et ab hic et ab hoc” che significa, appunto, “E da qui e da lì”. Chi fa tabìc e tabòc  è uno che non riesce mai a prendere una decisione definitiva. E’ una persona che dice tutto e il contrario di tutto in infinita sequenza. Come certi personaggi politici italiani.

Tacchià. E’ un verbo e significa “alzare i tacchi” e andarsene via di corsa. Viene usato solitamente solo all’imperativo. “Tacchjìsce!” nel senso di “vattene!”.

Tagghià / Tagghiatàgghjie. “Tagliare”. Il o la tàgghiatàgghjie è chi spettegola da mattina a sera.

Tagrànne (U). Sta per capostipite della stirpe. Potrebbe essere il bisnonno come anche il trisnonno.

Tànne. Avverbio. Significa “allora”.

Tànnetànne. Significa “esattamente in quel preciso momento”.

Tatà. Chi usa più questa parola? E’ il papà. Va generalmente senza articolo.

Tatarànne(U). Dal francese “grand père”. Significa “papà grande” cioè “nonno”. Laddove tatà significa padre. Nome ormai obsoleto. Un mio caro amico scrisse una pièce teatrale dal titolo “la gatta tatarànna”. Mai rappresentata, mai conosciuto l’argomento. Il titolo invece mi è sempre parso assolutamente delizioso e meritevole di essere ricordato.

Taveljìere (U). Italianizzando “tavolière”, è quel ripiano di legno dove si “tromba” la farina e si confeziona la pasta fatta in casa.

Tavùte (U). Detto anche “bavùglio” (viene da baùle) nell’immediato nord barese. E’ la cassa da morto.

Tefàgne (U). Potevo scriverlo tufagno con la “o” finale ma la pronunzia esige la “e” muta finale. Viene da tufo. Il tufagno, vedete? adesso l’ho italianizzato al massimo,  è una persona molto dura di comprendonio. Qualche volta indica anche un testardo, ma la prima interpretazione è, forse, la più usata. Penso che prima o poi questo termine entrerà nel lessico italiano.

Tembàgne (U). E’ il coperchio della pentola.

Tembàne (U). Appartiene al lessico culinario. E’ il timballo. I baresi generalmente lo preferiscono di maccheroni. Ma non è detto.

Tenghjìedde. Ho italianizzato il termine. Potrebbe essere un nome proprio o un sostantivo. La traduzione potrebbe essere “tizio” oppure “cazzo”. Mi spiego meglio: per dire “alla faccia del cacchio”, si dice “alla fàccie de tenghjìedde”. E’ usato anche per indicare “un tizio, un sempronio qualunque”; vedasi la frase “e ci jè cude tenghjìedde? “E chi è quel tizio lì?” Comunque è sempre usato in termine spregiativo.  

Teràgge (U). Tiràggio. Ho italianizzato il termine. In veneziano si direbbe “portàda”. Il “tiràggio”, nel nobilissimo dialetto barese ha origini antiche. Significa “presa in giro”. Si ascolta spesso l’avvertimento “amico, non farti tirare!” Come a dire “amico,  attenzione stai per cadere nella trappola!!!”. Ma la trappola è scattata e il povero destinatario del tiràggio vi cade dentro con facilità, con gran diletto di chi organizza il tiràggio medesimo e di chi vi assiste. La caratteristica del tiràggio è la rapidità. Il tiràggio va fatto quando l’interlocutore è distratto, non è sulla difensiva e magari sta pensando ad altro. Come esempi di tiraggio parlo di quelli che si riferiscono a via Imbriani e via de Rossi. Sono due belle vie del centro Murattiano. Le ho inserite ambedue in questo lessico perché sono i personaggi principali di due calambour, jeu de mot, giochi di parole raffinatissimi che vennero inaugurati subito dopo la fine della 2ndWW. E’ interessante notare qui la presenza del verbo “fare” che significa “scopare”, utilizzato ancora per poco soltanto nel dialetto barese. Di lì a pochi anni sarebbe entrato di diritto nel grande lessico parlato della lingua italiana. I calambour baresi sono costituiti da una struttura ludica, che in questo caso utilizza le assonanze delle parole. Questo scherzo in barese viene dunque chiamato “tiràggio” (vedi).
Ecco qui il primo tiràggio:
“Addò iàvete tu? “
“Dove abiti tu?”
“A via Imbriàni!
“Màmete fàsce kellamericàne”
“Tua madre scopa con gli americani!”
Il secondo tiraggio:
“Addò iavete tu?”
“Dove abiti tu?”
“A via de Rossi”
“Màmete fàsce kellepelleròsse”
“Tua madre scopa con i pellerossa!”.


Terrìse (Le). I terrisi sono i soldi. Viene da “tornese”, al plurale tornesi, moneta usata nel Regno delle Due Sicilie.

Terròzzole (La). E’ la rotula del ginocchio. La traduzione letterale però è “carrucola”. Nel gioco del calcio, i terzini un po’ pesanti sono soliti “dare nelle terrozzole” degli avversari. Notare la finessa dell’uso del verbo “dare” al posto di “colpire”.

Terzià. Verbo, significa terziàre. Ma terziàre è parola dialettale, in italiano si dice “stillare”. Appartiene al lessico dei giocatori di carte. Vedi “rècchia”.

Tetè (U). Indica una persona ai limiti della stupidità e della inaffidabilità. A tutto ciò aggiungasi il suo modo di vestire al di sopra delle righe, il suo voler apparire fin troppo evidente.

Tiàne (U). Altrimenti detto “u gaudiàne”. Sostantivo maschile. U tiàne non è altro  è che il tegame. Con i bordi della stessa altezza delle tièlla (vedi). Questo attrezzo però è dedicato solo e soltanto ai maccheroni al forno. Dicesi gaudiàno dal latino  "gaudeàmus (ìgitur)".

Tièdde (La). Sostantivo femminile. La tièlla non è altro che il sinonimo femminile del tegame di alluminio a bordo basso fra gli otto e i dieci centimetri. Nella cucina barese la tièlla (o la tièdda) sta ad indicare esclusivamente il sublime trionfo di patate, riso e cozze, il tutto cotto al forno.

Tjìenemmàne. E’ un’esortazione, significa stà tranquillo, non temere, abbi fiducia in me. Fa parte del lessico malavitoso. Tieni (pure tranquillamente) in mano.
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DIZIONARIO DI TERMINI BARESI SECONDO FRANZ FALANGA CONSISTENTE IN OTTO PARTI Empty DIZIONARIO DI TERMINI BARESI SECONDO FRANZ FALANGA OTTAVA ED ULTIMA PARTE

Messaggio  Admin Mar Ago 12, 2014 1:12 pm

Tòme tòme. Tomo in quasi tutta l’Italia meridionale significa buono, con una leggera inclinazione verso la stupidità. Non è un modo di dire squisitamente barese, mi ricorda un detto di Totò (tomo tomo cacchio cacchio) che, a sua volta, mi ricorda un episodio che mi sono portato addosso per tutta la vita e che qualche giorno fa ho deciso di raccontare.
Il detto innanzi tutto: “tomo tomo cacchio cacchio”. Che vuol dire “buono buono, in punta di piedi, senza colpo ferire tu te ne vieni qui da noi con queste argomentazioni! Ma chi cacchio ti credi di essere!”.
L’episodio dunque. Un giorno di tanti anni fa, me ne tornai a Bari laureato architetto. Me ne tornai pieno di belle speranze e pieno di progetti per il futuro. In quel tempo il professor Quaroni stava iniziando a redigere la variante al piano regolatore generale della città. Come è d’uso e come è richiesto dalla legge, un bel giorno tutti i professionisti della città, architetti ingegneri, geometri e imprenditori si riunirono per mettere insieme le proprie osservazioni sul futuro assetto urbanistico della città, proposte che poi avrebbero fatto pervenire al professor Quaroni. Ognuno disse la sua e così feci anche io. Proposi all’attento uditorio di far venire per qualche giorno a Bari il mio ex professore l’architetto Carlo Scarpa  e di farlo girare da solo per tutta la città per due o tre giornate, mettendolo in condizioni di osservare e prender nota del funzionamento della città. Come si sa, occhi nuovi spesso osservano episodi formali e caratteristiche particolari dell’oggetto città che magari sfuggono a coloro ai quali la città è arcinota. Dopo due o tre giorni, ci si sarebbe riuniti, magari a cena,  da qualche parte e il professor Scarpa avrebbe potuto sottoporre all’uditorio le sue osservazioni e le sue impressioni sulla città. Conoscendo Scarpa, soggiunsi che sarebbe stata certamente una straordinaria lezione/conferenza sulla percezione urbana. Va detto che in quel periodo Carlo Scarpa era nel pieno della sua fama internazionale e che era universalmente riconosciuto come prezioso e attento osservatore delle realtà formali e urbane. Le osservazioni del professor Scarpa poi, sarebbero state messe insieme a quelle fatte da tutti noi tecnici baresi che avessero partecipato a quell’importante evento, culturale, per essere quindi date al professor Quaroni che certamente avrebbe apprezzato un contributo così sostanzioso e stimolante. Quando terminai di esporre la mia idea, si alzò un distinto signore (era un ingegnere) che, rivolgendosi a me allibito, così si espresse (cito a memoria): “ Caro Franz, tu te ne vieni da Venezia tomo tomo, cacchio cacchio e ci parli di  questo Scarpa. Ma chi è costui? E noi, dico noi, non siamo capaci di dire le stesse cose che ci direbbe questo Scarpa? “.
Io non replicai, gli astanti non replicarono, la mia proposta galleggiò per qualche nanosecondo nell’immaginario collettivo ed evaporò con la stessa dolcezza con la quale era stata fatta..
Fu in quel momento, che cominciai a pentirmi amaramente di essere andato a quella riunione, e contemporaneamente iniziai a pensare di tornarmene sulle mie montagne venete.
Non ho “salvato con nome” il file del mio interlocutore che si è quindi fortunatamente  volatilizzato dalla mia Random Access Memory.    

Tommìx. E’ un gioco. Il classico gioco fra cow boy e indiani.

Tòneke (La). E’ l’intonaco. Meglio tòneke che tòneche. O no?

Topìne (U). Significa letteralmente “topino” piccolo topo. E’ un neologismo apparso nel dialetto barese fra gli anni cinquanta e gli anni sessanta. Viene dal  genere giallo “topo d’auto” “topo d’albergo”. Il topino barese anziché rubare macchine, generalmente scippa persone indifese cavalcando un motorino a due ruote insieme al guidatore suo complice. E’  un termine che avrei fatto molto volentieri a meno di registrare. Rappresenta una delle tragedie metropolitane della nostra città, tragedia che forse Bari non si meritava. Il topino è lo scippatore, colui il quale ha contribuito a far precipitare questa città in una suburra sociale senza fine e senza limiti. Non c’è persona indifesa a Bari che non sia stata scippata da questi dannati fottutissimi delinquenti, che hanno impestato e ammorbato sia la qualità della vita cittadina che l'immagine stessa della città. Mi dicono che all’oggi, siamo nel 2005, il fenomeno si sia leggermente ridimensionato. Negli anni passati, per un fenomeno del genere, Bari ha perso milioni e milioni di visitatori estivi che per il terrore di essere scippati, preferivano proseguire verso altri lidi, sto parlando della Grecia,  bypassando la città. Non so se mai nessuno ha mai conteggiato che somme di danaro colossali abbia perso la città negli ultimi venti trent’anni, pensando a tutti quei turisti che in questi terribili anni sono transitati in ferrovia  o in autostrada senza neanche fermarsi, che dico,  una mezza giornata in città. Un giorno qualcuno dovrebbe fare un po’ di conti e dovrebbe anche tentare di ipotizzare a chi ascrivere una responsabilità così pesante. Il contributo che questa infame gentaglia ha dato ad una pessima immagine della città è enorme. Questo per la verità storica. Ma, si sa, la storia in questi tempi bui è malinconicamente messa in un cantone. Con risultati terribili.
A proposito dell’uso più o meno corretto delle parole italiane, vorrei qui ricordare un uso quanto mai disinvolto che molti anni fa fu fatto della  parola “scippo” da parte di un quotidiano pugliese di cui non ricordo più il nome. Il fatto: a Taranto, nel Museo archeologico nazionale, ordinata fin dal 1952, esiste una straordinaria collezione di monili in oro risalenti alla Magna Grecia, esposta nel “Salone degli Ori”.  Credo sia una delle più imponenti al mondo. Collezione che è stata esposta ad Amburgo, a Milano, a Parigi, a Tokio. Una quindicina di anni fa, anno più anno meno, come già detto, a Milano questa collezione fu esposta e fu chiamata “Gli ori di Taranto”. Per un breve periodo di tempo nella capitale lombarda fu dunque esposto con molta professionalità quel tesoro, la cui sede normale era ed è tuttora nel Museo di Taranto. Fu così che l’esistenza  di un tesoro di tale genere  raggiunse il grande pubblico. Fino ad allora, a parte gli addetti ai lavori, quasi nessuno aveva contezza di un tale patrimonio culturale. Per quello che ne so io, a Bari, pochissime persone conoscevano l’esistenza di un tale fondo museale. E’ stato quindi merito di questa mostra itinerante far conoscere agli italiani un tale tesoro. Quando, terminata la mostra, gli ori di Taranto rientrarono da Milano in Puglia a Taranto nella loro sede naturale, la notizia del ritorno di questi straordinari manufatti della magna Grecia fu salutata con un gran titolo sul giornale di cui non ricordo (o non voglio ricordare) il nome. Il titolo, lo cito a memoria e quindi non lo cito fra virgolette, diceva che finalmente tornavano a casa (a Taranto) gli ori che erano stati momentaneamente “scippati”  da Milano a Taranto stessa. A parte il cattivo gusto e l’insita scortesia del titolo in questione, pensai che se non ci fosse stata la mostra a Milano, gli ori di Taranto avrebbero continuato a vivere nel silenzio, nell’ombra e nella non conoscenza della loro esistenza. Come seconda mia conclusione pensai che, tutto sommato, potevamo pensarci prima noi pugliesi ad organizzare una mostra così straordinaria. O no? E qui torniamo all’uso distorto della storia, all’uso distorto delle parole. Uso distorto delle due categorie suddette che ormai pervade tutta la cultura, tutta la mentalità che attualmente caratterizza questa nostra scadente società, che non merita assolutamente un tale destino. Sono assolutamente convinto che l’uso distorto delle parole che pervade il nostro sistema è ascrivibile oltre che a conclamata malafede, anche ad una ignoranza diffusa della lingua italiana, ignoranza che viene pilotata ad arte da chi è, per l’appunto, in malafede. Un bel disastro che va contrastato assolutamente, ma che invece ormai, ahimè, è diventato modo di vivere. Tornando ai topini e alla malavita, noto anche qui con gran disappunto che spesso i boss vengono chiamati dalla stampa “capi storici” o “zoccolo duro” dell’organizzazione. A mio modesto avviso anche qui si usano parole non consone alla realtà. I boss o lo zoccolo duro non sono altro che volgarissimi delinquenti e non meritano di essere promossi a categorie superiori (“capi storici” o “zoccolo duro”) alle quali non appartengono in nessun modo. Anche in questo caso assistiamo ad un uso della lingua italiana, da parte dell’informazione,  che non esiterei a definire “disinvolto”.  

Tottò (Le). Sostantivo femminile, significa “sculaccioni” nel lessico usato fra madre e fantolino. Vedi lallà.

Tracchère (La). Al maschile “u tracchjìere”. La tracchèra è una spudorata chiacchierona.

Trajìne (U). Sostantivo maschile. Sta ad indicare il “carro” agricolo pugliese. Stranamente indica anche un bidone, una patacca solenne. Tirare a qualcuno “nu trajìne” significa tirargli un bidonaccio. Se il malcapitato è una donna, allora, invece, si dice che le si è bruciato il paglione. Il carro agricolo pugliese nei mesi estivi veniva usato per scampagnate al mare. Arrivata la buona stagione il contadino caricava sul carro la famiglia, le vettovaglie, con speciale riguardo al tegame di maccheroni al forno, e alle prime luci dell’alba si dirigeva verso il mare. Giunti in riva al mare, si staccava il cavallo dalle stanghe (vedi), si disponeva il carro appoggiato con la parte posteriore per terra  con le stanghe in alto, in direzione del cielo e del mare, e poi, come gesto finale, si poggiava sulle stanghe un grosso telo. Si formava così un rudimentale ricovero dal sole che veniva usato per tutta la giornata, per mangiare e per l’eventuale pennichella. I bambini sguazzavano nell’acqua, il cavallo pure. Si poteva anche dormire la notte protetti dal telone e dal cane bastardino legato a un raggio delle ruote. Quest’usanza è ormai scomparsa, ma ogni tanto qualche vecchio irriducibile contadino una trasferta giornaliera al mare riesce ancora ad organizzarsela.

Transitìvo. I baresi non acculturati al meglio, combattono quotidianamente contro i congiuntivi e i verbi transitivi e ne escono quasi sempre perdenti. In cambio, dalla loro disperazione dovuta alle quotidiane sconfitte nascono dei modi di dire che appartengono di fatto al sublime. Un paio di esempi. Per dire “il viaggio sarà lungo, andate preventivamente in bagno, così eviteremo di fermarci lungo la strada” si dice tranquillamente “il viaggio sarà lungo, venite pisciati e cacati”. Per dire “Maria, porta giù il cane che lo porto a spasso per fargli fare la pipì” si dice altrettanto tranquillamente “Maria, scendi il cane che te lo piscio”. Per quanto riguarda il congiuntivo e la consecutio temporum, mio padre mi ha detto che un giorno, in una nota cartoleria barese, uno stimato e ricco commerciante del centro, dovendo dire al commesso che doveva fargli due fotocopie “va bene, allora me ne faccia due, purchè vengano bene” disse, con negli occhi la consapevolezza della tragica sconfitta subita in tempo reale, “va bene, me ne fìa due purchè viene bene”. Per identificarlo, senza dirne il nome, è utile sapere che vestiva quasi sempre di grigio chiaro, corporatura leggermente tendente al robusto, statura media, capelli di un bellissimo bianco argentato con una gradevole arricciatura sulla nuca, residuo di tempi in cui usava la brillantina Linetti. Di più non posso e non so dire.

Trasetìccie. Viene da “trasì” e si potrebbe italianizzare in “trasiticcio”. In italiano si direbbe “invadente” “insinuante”. Una persona trasiticcia è da evitare come la peste al buco del culo. Sempre da “trasìre” viene “trasùta” che si potrebbe tradurre “entratura”. Un buon vino, ha una buona trasùta.

Trasì. Verbo. E’ il contrario di “assì” (vedi). Significa “entrare”, “trasìre”. Entrare attraversando una porta. Abbastanza facile l’etimologia, viene dal latino “transire”  (transeo, transis, transii, transitum, transire) che sugnifica per l’appunto passare attraverso. Una parola che viene da molto lontano.

Tratùre (U). Tiratùro, italianizzandolo. Viene da tirare. Significa “cassetto”. Vedi il suo utilizzo magistrale alla parola “volentieri”.

Trè. E’ il semplice numero tre.

Trembà. Trombare, a Bari, significa impastare farina con l’acqua, per fare orecchiette ed altri tipi di pasta. E’ l’unico posto in Italia dove significhi cosa totalmente diversa dal significato corrente, che, come tutti sanno, significa “scopare”. Troverei imbarazzante dire a qualche amico forestiero che per cucinare le orecchiette stamattina, mia madre o mia sorella o mia zia, hanno trombato ieri per tutta la mattinata.

Tremènde. Verbo, significa “guardare”. Non è termine squisitamente barese, ma è pur sempre pugliese, e vale la pena trascriverlo qui. Vedi “chiamendà” oppure “uardà”.

Tremòne (U). Sostantivo maschile. Significa “sega” (si parla qui di onanismo, non di ebanisteria). Viene usato anche come appellativo per indicare una persona assolutamente stupida. Notevole la vicinanza con l'espressione italiana "mezza sega". In Emilia è usata la locuzione "mezza pugnetta". Sempre per indicare il classico beccaccione.

Tremòne avvjìende. Frase idiomatica, rafforzativa di trimòne (vedi). La si affibbia a un arcicretino della forza di cento cavalli. Va usato con tenerezza e senza malizia. Significa “sega a vento”.

Trendasè (U). Luogo di delizie in assoluto. Mitico casino degli anni cinquanta a Bari in una centralissima via del borgo Murattiano. Ognuno provi ad individuare o a farsi raccontare da qualche saggio amico avanti con gli anni dove si trovava il meraviglioso, fantastico, straordinario, splendido, vitalissimo, divertentissimo trentasei.

Trettevàgghjie (La). Con questo strano nome si indicano gli uccelli notturni, segnatamente il pipistrello. Viene usato al femminile.

Tricchettràcche (Le). Sono i fuochi d’artificio, quelli domestici. Viene da trick track. Delle due “e” che si leggono nel corpo della parola la prima va pronunciata perché è una congiunzione, trick “e” track, la seconda invece è muta.

Triùske (U). Il triùsko è un termine usato generalmente dalla persone moderate. Mi spiego meglio, le persone cosiddette moderate talora mescolano all’uso quotidiano di certe parole un significato leggermente moralistico. Questo è uno di quei casi. Triùske significa il bere, connotandolo in modo lievemente negativistico. Dire che a qualcuno piace il vino è molto meno accusatorio che il dire che a qualcuno piace u triùske. Si parte immediatamente da un punto di vista sbagliato, nel senso che si esprime un giudizio (il bevitore in questione viene indicato come uno sbevazzatore incallito) che non sempre poi è fondato su riscontri obiettivi.    
 
Trònere (Le). Sostantivo maschile. Viene usato generalmente al plurale. Significa letteralmente  "tuoni". In barese invece sta ad indicare le brasciole (vedi). Viene sempre accompagnato dal gesto del braccio teso verso il basso, con il pugno chiuso proteso in avanti. Solo in questo caso il braccio NON deve muoversi né avanti e indietro e neppure su e giù, insomma deve stare ben fermo. Se il braccio va invece su e giù, a stantuffo, allora significa quello che avete capito, e non c’entra nulla con i tuoni.

Uà (Le). Sostantivo, generalmente usato al plurale. Significa “i guai”.

Uagliò! Viene usato senza articolo, con il punto esclamativo, per chiamare qualcuno. Significa “ragazzo”. Se non viene usato come richiamo, allora ragazzo si traduce “uagnòne”.

Uuagnèdda (La). Questo termine indica la “ragazza”. Stranamente a Trani, più a nord di Bari di una quarantina di chilometri, si usa lo strano termine “uagnòstra”.

Uagnengèdde (La). La “ragazzina”. Si può anche dire “uagneddòzze”.

Uagnengjìedde (U). “Il ragazzino”.

Uagnòne (U). Qui invece è al maschile, “ragazzo”. Ricordarsi che se si vuole chiamare ad alta voce “u uagnone” bisogna dire “uagliò!”. Se vogliamo riepilogare le varie fasi dell’età si parte da “u criatùre de la menne” (la creatura del seno), “u criatùre”, “u peccenìnne”, “u uagnengjìedde”, “u uagnòne”, “u giòvene”, “u uòmene”. Al femminile “la criatùre de la mènne”, “la criatùre”, “la peccenènne”, “la uagnengèdde”, “la uagnèdde”, “la giòvene”, “la fèmene”. Questi termini sono sempre pronunciati con molta tenerezza.

Ualàzze (U). E’ lo sbadiglio. Se pronunciato lentamente dà esattamente l’idea della bocca spalancata. Onomatopeico.

Uardà. Verbo significa “guardare” (vedi chiamendà).

Uardabarrjìere (U). “Guarda barriera”. Non è altro che la ex guardia daziaria che aveva il suo luogo di lavoro naturale negli ingressi alla città dove esistevano gli appositi uffici del dazio con annessa pesa pubblica. Era come una specie di frontiera attraverso la quale bisognava passare per entrare in città non senza prima aver pagato il dazio su eventuali merci che, per l’appunto, erano soggette alle imposte daziarie. Un ufficio del dazio esisteva subito dopo la ferrovia, all’inizio della via che conduce a Capurso. I più grandicelli ricorderanno che andare a farsi una passeggiata sulla via di Capurso, avendo oltrepassato il “confine” daziario chiamato gergalmente “barriera”, significava andare “fuori barriera”. La parola “dazio” è stata riesumata dopo molte decine di anni da politici che hanno una visione molto ristretta e limitata della contemporaneità.

Uascèzze (La). E’ un bel pranzo collettivo. Partecipare ad una uascèzza presuppone entrare nella stato di grazia del prièscio (vedi). Nella uascèzza si mangiano/gustano le “scevolèzze” (vedi). Ma è anche “uascèzza” quando si versa maldestramente il vino sulla tovaglia. Si dice allora “non fa nulla è uascèzza” che, in questo caso,  vuol dire dunque anche allegria. Si sta insieme con gli amici ridendo e scherzando? E’ “uascèzza”.

Uastàte (U). Significa “guastato”. Un “guastato” è generalmente una persona molto disinvolta che vive la sua vita ai limiti della legge, campando di raggiri, piccole truffe e altre amenità del genere. E’ un gradino prima del pregiudicato. Una persona che vive alla scusa di Cristo (Vedi).

Uècchie d’argjìende (U). L’occhio d’argento è il delatore della polizia. Un infame. In questo caso, come negli altri due che seguono, l’incorporare l’articolo “u” nella parola è venuto automaticamente.

Uècchie pesciàte (U). L’occhio pisciato ce l’ha quello che viene svegliato di soprassalto. O quello che ha sbevazzato più del solito. In italiano occhio liquido.

Uècchie scesciàte (U). L’occhio scisciàto è anche lui un bel tipo di delatore. Un infame.

Uèsse pezzjìedde (U). Letteralmente significa “osso puntuto”. Non è altro che l’osso sacro.

Uètte. E' il numero “otto”. Almeno fino al dieci val la pena di riportare qui di seguito la numerazione:
     
      Iùne
      Dù
      Trè
      Quàtte
      Cìnghe
      Sé (pronunciare la “è” molto stretta)
      Sètte
      Uètte, sentito anche jòtte
      Nòve
      Dèsce (sc di pisciare)
Ricordarsi che quattordici e quindici, sono rispettivamente “quattodici e quinici”.

Vacandìne (U) (La). Italianizzando vacandìno/vacandìna. Da latino vacuum, vuoto. Le persone vacandìne sono le persone non sposate. La fìgghia vacandìna è la figlia nubile, da sposare. Per la figlia vacandìna si confezionano in casa tonnellate di recchietèdde, orecchiette, che si vendono a peso d’oro. Con il ricavato le si compra piano piano il corredo. Al confezionamento delle recchietèdde partecipano madri, zie, nonne, canate, sorelle maggiori. Più le recchietedde sono piccole, più sono pregiate. Le recchietedde possono anche essere chiamate strascinàte, perché si “strascinano” sul tagliere durante la lavorazione.  

Vadàcchjie. Letteralmente “và a trovare”. Significa “chissà dove…” o, anche soltanto “chissà…”.

Vàevvjìene (U). Tipo di schiaffo.

Vaffambàccionàse. E’ quello che si dice comunemente un insulto sostitutivo. Le persone che non vogliono scadere nella più dichiarata volgarità, anziche dire “vaffangùle” o “fangùle”, preferiscono mandare il malcapitato, oggetto della loro momentanea ira, a “fare in faccia al naso”. E’ un modo come un altro per salvare la propria faccia, per evitare di essere “troppo” trasgressivi.    

Vammàra (La). La “levatrice”.

Vammàsce (La). Vedi “bombàce”. E’ la comunissima bambagia.

Vànne (La). Significa “parte, direzione”. “Ada scì da chèda vànne” significa “devi andare da quella parte” (verso quella direzione). Forse viene da “banda”. In siciliano si dice “banna”. Notare che la “b” di banda è rimasta integra, mentre in barese la “b” è diventata “v”.

Varròne (U). E’ il grosso ferro orizzontale che viene usato per chiudere dall’interno antichi portoni. Viene da sbarra/barra, sbarrone, grossa sbarra/barrone. Anche qui la “b” di barra diventa “v”.

Vàrve (La). E’ la barba. La “b” continua ad essere modificata in “v”.

Varvière (U). Il barbiere.

Vàse (U) . “Bacio”. Mi piace ricordare qui un bel verso di una canzone napoletana. “Vase e pizzeche non fanno pertuse” “Baci e pizzicotti non fanno buchi”. Mi pare una massima di infinita saggezza. La “b” italiana continua a tramutarsi in “v”.

Vasenecòle (U). Il vasinicola è il basilico. In alcune zone del veneto si chiama “vasinicò”.

Vastàse (U). Dal greco “bastazo” portare pesi. Nei secoli scorsi venivano chiamati così i facchini del porto. La loro caratteristica era quella di avere in testa un sacco di juta piegato in due per il lungo e indossato come un cappuccio. Serviva per riparare la schiena da eventuali abrasioni. Erano sempre scalzi. Facevano a gara a chi schiaffeggiava con i piedi nudi le chianche della pavimentazione stradale traendone un suono simile per l'appunto a un schiaffo dato con la mano aperta su una parete rivestita di mattonelle lucide e lisce. All'oggi, il termine vastaso è usato per indicare persona profondamente maleducata. Mentre il vastasiello "u vastasjìedde" è un monellaccio d'un ragazzino. Ma questa trasposizione è totalmente ingiusta. Non rende giustizia al fatto che fra i “vastasi”, compresi quelli odierni, ci sono fior di galantuomini. Mio padre annovera fra i suoi sodali un vastaso, compagno straordinario di mangiate e di bevute. E’ interessante notare come negli ambienti baresi dove si parla solo italiano, il termine “cafonaggine” è stato soppiantato dal termine (toscaneggiato) “vastasàggine”. A me pare che questa parola stia entrando a passi felpati nel lessico italiano. Mi piacerebbe che così avvenisse. Tornando al mestiere dei vastasi, i loro colleghi potrebbero essere i “camàlli” genovesi.  

Vavòne (U). Significa vecchio bavoso, per estensione “persona stupida”. Viene da “bava” che è diventata “vava” sempre in omaggio alla regola che la “b” e la “v” sono intercambiabili.

Vecciarìe (La). Per estensione la viccerìa o vicciarìa è la “macelleria”. In siciliano “vucciria” (vedi Guttuso). Viene da viccio (vedi).

Veccjìere (U). Il viccière è il “macellaio”. Esiste un saggio proverbio che così recita: “quànne t’ada fà accìde, fattaccìde d’ò mègghjie veccjìere”. “Quando devi farti ammazzare, fatti ammazzare dal miglior macellaio”. Saggia massima. Anche se cruenta. E sempre a proposito di viccière, qualche anno fa, essendo per qualche giorno tornato in pellegrinaggio a Bari, un bel pomeriggio, passando davanti a una viccerìa, nella profonda periferia barese, avevo assistito a una scenetta emblematica. Dietro il bancone della vicceria c’era un gigantesco viccière che stava tagliando costate di manzo con una mannaia affilatissima e che aveva, tutto il camice bianco macchiato di sangue. E sulla porta c’era una deliziosa bimba di circa sette otto anni, tutta elegantina, con i riccioli d’oro. Era la figlioletta del viccière, che rivolgendosi a quell’energumeno, si fa per dire, che stava squartando con opportuna durezza un quarto di bue, usava il delizioso, insano appelativo metropolitano di “papino”. Grande fu la mia malinconia. Una tradizione gagliarda di secoli di storia e di sane abitudini, la parola papà per l’appunto, andava a puttane in un microsecondo. La cosa più triste è che al grosso e nerboruto viccière brillavano gli occhi di piacere per il fatto di essere stato chiamato “papino”.  

Veddìche (U). U veddìche è “l’ombelico”. Questo termine ha un plusvalore erotico. Quando si parla di veddìche significa che si sta entrando a vele spiegate nel magnifico campo della lotta libera con le ciccine.

Vèdolge. Anche in questo caso l’accento è sulla prima “e”. Si tratta di una bonaria osservazione indirizzata a qualche amico che, nel corso di una discussione, si sta allargando troppo, facendo promesse che non può mantenere. “Vai dolce” è un invito soft alla circospezione. La “g” va pronunziata molto dolce come “gentile”.

Velanzìne (U). Sostantivo maschile. Letteralmente “bilancino”. E' il cavallo che, senza protestare (condizione assolutamente necessaria),  collabora al tiro con il cavallo principale fra le stanghe (vedi). Dicesi anche di persona sottomessa che lavora sottomessamente con il proprio titolare (in questo caso andrebbe meglio la odiosa dizione “padrone”). Non riscuotono quasi mai meriti od apprezzamenti positivi.

Vèndre (La). Il ventre. Dal maschile italiano è passato al femminile in dialetto. Con il passaggio dalla “t” dell’italiano alla “d” dialettale, il suono della parola è diventato più pesante e conseguentemente più sbracato e volgare. E’ un termine dal suono molto greve.

Vequàte (U). Bucato.

Vequatòne (U). E’ sì l’accrescitivo di bucato, ma significa tutt’altro. Un vequatòne è una rotta d’ossa di dimensioni bibliche. Un pugile che perde per ko ha avuto un bucatone.

Vermecjìedde (Le). Sostantivo. Viene usato al posto della parola spaghetti, termine notoriamente troppo aristocratico. Nei bambini sta invece ad indicare quei lunghi vermicelloni di muco che escono dal naso quando, essendo raffreddati -poverini- starnutiscono senza ritegno e soprattutto senza portarsi il fazzoletto rapidamente al naso. Fin che succede a un bambino nulla di male, se succede, come è successo a Carlo, il mio maestro in fatto di ciccine, la faccenda assume colorazioni drammatiche. Un secondo prima di abbordare una deliziosa ciccina, una subrette (vedi), per ragioni, all’oggi ancora sconosciute, a Carlo capitò uno starnuto “vestito”. Nel senso che, improvvisamente, ahilui, gli arrivò uno starnuto non preannunziato, facendogli  sciorinare suo malgrado, a fronte della preda, un paio di vermicelli di una cinquantina di centimetri l’uno. Roba da spararsi nelle palle. Oggi pagherei una cifra per rivedere un meraviglioso incidente dal genere!  

Vermecòcche (La). Su questa parola c’è una particolare storia. Il significato innanzi tutto. Significa “albicocca”. Nel centro storico di Bari c’è un largo che fino a qualche decennio fa si chiamava largo Vermicòcca, dal nome di un bel palazzo, Palazzo Vermicòcca appunto, che lì si affaccia. Qualche zelante amministratore barese, credendo che vermicòcca fosse (come del resto è) la parola dialettale che indica l’albicocca, in un eccesso di italico fanatismo ribattezzò questa deliziosa piazzetta con il nome albicocca. Ora infatti si chiama largo albicocca. Un vero peccato.  

Verrùzzue (U). E’ nientemeno che la “tròttola”, quel cono di legno duro con una punta metallica sul vertice e che si lancia con uno spago attorcigliato intorno e trattenuto tra l’anulare e il medio della mano per mezzo di un fermo formato da una ramedda scazzata (che non è altro che un tappo a corona schiacciato). Attenzione ragazzi! Verrùzzulo, se accoppiato all’aggettivo vecchio, assume ben altro significato. Un vecchio verrùzzulo è un gran figlio di puttana, un gran furbacchione, che è andato in pensione. Uno schiumatore dei mari che difficilmente appenderà la bussola al chiodo, un vitazzuolo che difficilmente si ritirerà a vita privata. Vecchio verrùzzulo è un altissima decorazione sul campo data alla valentia del fortunato assegnatario del titolo. Darei una cifra per essere considerato, negli anni a venire, un vecchio verrùzzulo. Garantito.

Vesavì. Ecco qui un altro bel modo di dire mutuato dal francese. Significa “di fronte” e viene, ovviamente, da vis à vis.

Vescìgghjie (La). La vigilia. Se si cambia una ì con una è avremo Vescègghjie che significa “Bisceglie” ridente cittadina a Nord di Bari.

Vetazzùele (U). Sta ad indicare un play boy, un "uomo di vita", un vitazzuòlo per l'appunto. A Bari, negli anni cinquanta e sessanta ha prosperato una stirpe di vitazzuòli di altissima classe. Ahimè ai giorni nostri questa meravigliosa genìa è praticamente estinta. Le cause di questa estinzione sono sconosciute come quelle della scomparsa dalla faccia della terra dei dinosauri. Non sarebbe male dedicare all’argomento uno studio monografico a livello universitario. Il titolo della ricerca che propongo a qualche cattedratico potrebbe essere “Il vitazzuòlo. Genesi, formazione, evoluzione e scomparsa.” Contribuiamo immediatamente a questa eventuale ricerca con un’indicazione bibliografica. Invitiamo chi volesse approfondire l’argomento, a leggersi con attenzione e rigore scientifico l’aureo libro “noi siamo le colonne” Bari dal dopoguerra al boom a cura di Gino Savino e Pino Fumai, edito da Adda Editore. In questo libro di vitazzuoli ne trovate parecchi. Molti di loro sono stati dei modelli, dei miti, degli esempi da seguire, per la gioventù barese del dopoguerra. Alcuni di loro sono sciamati per l’Italia, a Milano per l’esattezza, favolosa diaspora del saper vivere. Sì perché Milano, nei favolosi anni cinquanta sessanta, era la terra promessa della meglio gioventù meridionale. Gioventù che, a dire il vero, si è sempre fatta molto onore ed ha toccato grandi punte di eccellenza.  

Vetràne (La). Anche qui ignoro totalmente l’etimologia. Mi rivolgo, come al solito, alla collaborazione dei lettori. Perché, carissimi amici, la vetrana non è altro che il comunissimo “morbillo”.

Viàggie (U). Il “viaggio” è uno “spintone” di proporzioni gigantesche. Quando ai cancelli di uno stadio c’è un gran gruppo di persone che premono per entrare, qualcuno, arrivato per ultimo, senza il becco d’un quattrino in tasca e più impaziente degli altri, prende la rincorsa e lanciando urla belluine si precipita come un moderno ariete addosso alle retroguardie del gruppo che, dopo un attimo di esitazione, iniziano a premere anch’esse e così a cascata finchè, arrivati un certo punto di parossismo, la barriera salta ed una massa urlante, indistinta e variamente composita riesce ad entrare tumultuosamente, senza più pagare il biglietto. Ecco miei cari signori, questo risultato è stato prodotto da un semplicissimo “viaggio”.

Viàte. Significa “beato”. Raramente si usa da solo. E’ utilizzato per lo più in modi dire molto diretti. Per esempio “viàte attèèè!!” “Beato te!” significa in realtà: “eccolo qui questo gran fortunatone, beato te per la vita che fai, e, soprattutto non starti a lamentare, visto che sei sulla cresta dell’onda!”. C’è poi un altro celeberrimo e vigoroso detto che recita così: “fertùne e cazzengùle, viàte accellàve”. Alla lettera sta per “fortuna e cazzi nel culo beato chi li ha”. Ma non è un’esclamazione con valenze erotiche. Significa “ragazzi, visti i tempi, beato chi, oltre ad essere fortunato di suo, ha tante di quelle spinte e raccomandazioni da non crederci!”. In questo caso “cazzo in culo” significa, molto carinamente, “spintarella” (calcio nel culo). Un'altra occasione la troviamo in questo ping pong da educande che spesso si può ascoltare nelle lunghe notti d’estate fra una birra e l’altra. Ecco qui il rapido dialogo che si conclude sempre con la sconfitta di chi ci cade:
“Viàte attè ca duèrme sòpe ò lìette de càste!”
“Beato te che dormi sopra il letto di casa tua!”
“Ma percè tu addò dùerme?”
“Scusa, ma tu dove dormi?”
“Sòpa a mmàmete”
“Sopra tua madre!”.
Come si può notare la raffinatezza è ai massimi livelli.

Vìccie (U). Un giorno un mio carissimo amico, una primavera di tantissimi anni fa, essendo lui un gagliardo diciottenne, lamentava scarsa attenzione  nello studio, astenia primaverile e leggeri sensi di malinconia. Il papà, un po’ preoccupato, gli fece fare una visita medica dal suo carissimo amico dottor Giovanni Nitti, medico straordinario barese degli anni cinquanta. Il dottore visitò con cura questo mio amico e lo trovò in ottima, splendida forma. L’unica cosa erano gli occhi. Il giovanotto aveva, secondo il dottor Nitti, gli occhi del vìccio. Il vìccio è il “tacchino”. Avere gli occhi del viccio è sintomo che non si scopa da parecchio tempo. Il dottore sibilò al padre di farlo scopare al più presto. L’amico mio eseguì e ne ebbe gran giovamento. Il papà ne ebbe paterna contentezza. La mamma non ne seppe ufficialmente nulla, ma conoscendola, avrà avuto la situazione in pugno. Infatti disse al papà che non c’era bisogno di mandare quel “povero figlio” dal medico, bastava che il papà, lui, si fosse fatto parte diligente. Ma questo appartiene ad altre situazioni.

Vilacchiòne (U). Termine dispregiativo usato dalla mala. Sta per “vigliacco”. Se proprio vogliamo entrare nei particolari, il vilacchiòne è uno senza palle.

Vindinèlle (La).  Anche qui ignoro se il termine è barese o è un bel neologismo coniato dal Flower Umberto. La ventinèlla è l’abito (giacca e pantaloni) estivo, sfoderato e leggerissimo, che sventola ad ogni sia pur lieve alito di vento. Donde ventinèlla. Una ventinèlla quando è particolarmente elegante, è sghìna (vedi). Un abito estivo ventinèlla con la stoffa a strisce sottili bianche e blu leggermente bombate si chiama anche “zigrino”.

Vlàse. Nome di persona, significa “Biagio”.

Vòcche (La). E’ la “bocca”. Seguita dall’aggettivo “crudele”, significava per certe comari senza tanti scrupoli di finezza, il buco del culo. Si ignora il perché di questa definizione scientifica, ma se ne possono trarre conclusioni imbarazzanti.

Voldapannère (U). E’ il voltabandiera, il voltagabbana. Mi ricordo un bel libro di Davide Lajolo.

Voldavìte (U). E’ il normale cacciavite.

Volendière. Deliziosa parola italiana che viene usata così come è scritta, stranamente, nel lessico dei facchini, di gente cioè abituata a muovere tonnellate al giorno e che non ha molta dimestichezza con l’italiano. Tranne che con questo bel termine. Spieghiamo subito. Quando in due si sta portando un pianoforte, per esempio, e gli si deve far passare una porta, il porteur che ha la porta di spalle, un attimo prima di imboccare l’apertura della porta, camminando all’indietro, chiede al suo collega che “vede” la porta aperta: “passa?”. Se il varco è largo abbastanza allora gli viene risposto con gran spirito di finessa ”volentieri”. Se il varco è leggermente strettino allora la risposta è ”a tratùro” (vedi), invitando cioè a spostare il carico con delicatezza avanti e indietro senza muoversi dalla linea retta. Se invece bisogna far passare “a forza” per una porta mettiamo un materasso arrotolato o un grosso fagotto, allora lo si fa passare utilizzando la tecnica della “nàzzeca nàzzeca” (vedi) che è una particolare e raffinata tecnica consistente nel far procedere a tratùro (vedi) il fagottone e, contemporaneamente, smuovendolo da sinistra a destra e viceversa, fino a farlo passare per il vano un po’ strettino.

Vòve (U). Sta per “bue”.

Vrascìere (U). E’ il “braciere” di buona memoria. Scomparsi i bracieri, scomparsi i geloni.

Vràzze (Le). Le “braccia”. Al diminutivo “u vrazzùdde”, il braccino, inteso come il braccino del monaco che dopo aver agguantata l’elemosina fa scomparire rapidamente il suo braccino nella gran manica.

Vùddeche (U). Il vùddico è il “gomito”. Da non confondere con il veddìche (vedi).

Vuèzze (U). E’ la classica barca da pesca barese, con due prue. Significa “gòzzo”.

Zambrètte (La). La zambrètta è una mezza calzetta, una ragazza piuttosto facile e non particolarmente bella. Connotazione assolutamente negativa. Vorrei ma non posso. Una cafoncella. Al maschile fa “zèmbre”.

Zappùglie (La). A mia memoria, i baresi del centro storico (quello murattiano per intenderci) contemporaneo non hanno cultura contadina, mentre credo ne avessero parecchia gli abitatori della Bari antecedente la rivoluzione urbana murattiana. La zappùglia è la “zappa”. Coniugando il verbo zappugliare, stranamente, mi sono accorto che ogni tanto viene utilizzato l’italianissimo zappare. Fa fede un magnifico detto popolare che così recita: “Le lampasciùne se zàppene”. “I lampasciòni” si zappano. I lampasciòni erroneamente chiamati lampagioni, sono in realtà dei normalissimi cipollacci col fiocco che crescono circa trenta quaranta centimetri sotto terra. Infatti sono dei tuberi. Giova ricordare che ogni lampasciòne, per essere estratto da madre terra, abbisogna di forza, tempo e pazienza, donde il proverbio anzidetto. Sempre a proposito di pazienza, c’è un altro bel detto al riguardo, che così recita: “Tjìembe nge vòle descève Sabellìne ò brendesìne”. “Tempo ci vuole, disse Sabellina al brindisino, (ma alla fine ce la faremo, sottinteso)”. Sabellina, diminutivo di Isabella, nota donna dai facili costumi, era celebre anche per la sua pazienza infinita con i clienti timidi che non si inalberavano subito al suo cospetto. Tornando ai lampasciòni, la loro morte è lessi, aglio olio e sale. Vanno mangiati quasi freddi, e vanno preventivamente schiacciati (scazzàti) con molta dolcezza e cautela usando la fercìna (forchetta). Sublime sapore amarognolo. A proposito della fercìna, ricordarsi che gli ultraraffinati non si permettono nel modo più assoluto di dire “andiamo a mangiarci un piatto di spaghetti” ma si esprimono più correttamente dicendo “andiamo a torcere le fercìne”.  

Zaràffe (U). Ho pensato parecchio prima di trovare un termine in italiano. Ed eccolo qui: “faccendiere”. La zeta iniziale dolce come zaino. E’ una bellissima parola come suono mentre è pessima come significato.

Ze. Pronunciare soltanto la zeta dolcissima come zucchero. Significa “zio”. Usato spesso anche per indicare il vaso da notte, il prìso (vedi) “ze pèppe” “zio peppe”. Non accetta l’articolo ”u”. Unica eccezione alla regola dell’u.

Zeffùnne (A). Quando piove “a zeffùnne” significa che piove che Dio la manda. Significa in grandissima quantità. Parola che è stata traghettata dal lessico napoletano.

Zegrìne (U). Lo zigrìno è una stoffa leggera, a righe sottili. Può anche essere l’abito maschile estivo.  

Zèlle (La). E’ la vecchia “tigna”. Donde “u zellùse” è il tignoso di buona memoria. Presente come parola anche nel lessico napoletano.

Zembà. Significa “saltare, zompare”. Zembàbbe, zembànne zembànne, zembjièbbe, zembòrene. Mica male vero? La sonorità di queste parole è straordinaria e ci porta lontano.

Zembafùesse (U). Con questo aulico termine si indicano le persone inaffidabili che si muovono ai confini della legalità. Non sono stimate da nessuno e sono viste come il fumo negli occhi. Dimenticavo, “zembafùesse” significa “zompafòssi”.

Zembarjìedde (U). Nel centro storico di Bari c’è un antichissimo gioco che si chiama zumbarièddo, che in italiano è comunemente conosciuto con il nome di passatella. Fra gli addetti ai lavori è indicato anche con la frase, “menàre il dìscito” che significa lanciare il dito. Lanciare il dito a sua volta significa far la conta. Lo zumbarièddo è un gioco praticato da moltissimo tempo fra gli uomini di buona parte del territorio italiano. Consiste nel riunirsi in una quindicina di persone che decidono di farsi una abbondante bevuta, facendo però restare uno solo a bocca asciutta e facendo ubriacare un altro dei componenti del gruppo. Ma lo scopo vero è far andare qualcuno in bianco, in questo caso lasciarlo a secco. Nel gergo barese di questo gioco, si dice far andare “iùrmo” qualcuno. Già i presupposti sono quanto meno opinabili. Alla base del gioco c’è insomma la determinazione di far ubriacare in modo molto pesante il designato dalla ferocia degli altri componenti del gruppo e di far restare all’asciutto un’altra persona. Ma procediamo con ordine. Si fa la conta, chi esce diventa “il padrone” e quello subito dopo di lui diventa “il sotto”. Inizia così il gioco che viene fatto o con il vino o con la birra. In questo ultimo caso l’unità di misura della bevuta è rappresentata da una cassa. Una cassa di birre corrisponde a un giro del gioco. Il rito comincia con un dialogo fra il padrone e il sotto che si scambiano frasi codificate e immodificabili. Gli altri partecipanti al gioco devono obbedire senza fiatare a quanto loro verrà ordinato dai due. È permesso solo un leggero mugugno. Nessuno può rifiutarsi di obbedire agli ordini che verranno impartiti durante il gioco. E’ una questione d’onore. Il “padrone”, rivolgendosi al “sotto” così comincia:
“Come domanda senza invito puoi negare al cuore mio questa bottiglia?
Il sotto “deve” rispondere no. Se dovesse rispondere sì sarebbe la prima grave scorrettezza, perché negherebbe al suo padrone il piacere di “ingignàre” (iniziare) la bevuta. Quindi va sempre detto di no.
E il padrone beve.
Dopo di che il padrone, prende un’altra birra, la mostra al sotto e dice:
“Come domanda senza invito, questa birra la diamo a Giovanni, con tutti gli avanzi a te,  e il resto con il mio basta a Luigi”.
E il sotto qui può dire sì o no.
Se il sotto dice sì,  Giovanni prende la birra  la beve quasi tutta, e dà la bottiglia con poche gocce al sotto, che viene subito bloccato non appena appoggia il collo della bottiglia sulle labbra, per cui deve darla praticamente vuota a Luigi.
E si continua con questo rito, facendo bere tutti, facendo ubriacare il malcapitato, e lasciando con la gola riarsa un altro malcapitato.
Ci sono molte variazioni sul tema, nel formulare le domande. Al posto di “questa birra con il mio basta a….” alcuni preferiscono dire “leghiamo questa birra con una funicella al cuore di…”. E così via.
Il padrone insomma è lo zar assoluto della situazione e il sotto può invece essere il malcapitato che deve bere, o il malcapitato che non deve bere, oppure il complice del padrone con il quale intreccia minuetti dialettici sulle quantità e sui tempi di bevuta, che sfiorano la commedia dell’arte.
E’ altrettanto importante la fase iniziale, cioè la fase nella quale si impostano le regole del gioco. Quante bottiglie o quante casse può gestire un padrone prima di passare alla  conta seguente? Possono trascorrere delle ore prima di passare all’attuazione vera e propria del gioco. Questo gioco può risolversi in una gran bevuta, allegra e divertente, oppure può diventare un’odiosa occasione di ripicche per bevute precedenti andate male per qualcuno. Nel peggiore dei casi, termina in malo modo. Se la conta viene fatta senza trucchi, come generalmente avviene, può capitare che nella conta seguente esca fuori quello che non ha bevuto nella prima o che il sotto diventi padrone. Si può facilmente immaginare in che spirale di situazioni vendicative ci si può trovare. Ad ogni modo chi non ha mai partecipato in vita sua a un gioco del genere, non può considerarsi un uomo fatto, anzi benfatto, anzi berefatto (vedi).  

Zèmbre (U). E’, nel migliore dei casi, il cafoncello di seconda scelta, sennò è attestato sulla terza quarta scelta. Vedi “zambrette”.

Zè Prèvete. Accento sulla prima “e” di prèvete. E’ il “prete”. Viene detto affettuosamente (non so fino a che punto) solo a certi preti. Secondo me c’è una punta, un filino, di disistima. “Ze” letto con la solita “e” muta. Da non confondere con “Zì” di “Zì prèvete” che vuol dire sì la stessa cosa, solo che appartiene al lessico napoletano.

Ziarèlle (Le). Le ziarelle sono quei minuscoli stronzettini di forma sferica che si fanno a fatica quando si va in bagno e ci si sforza moltissimo. Per estensione si chiamano ziarelle anche gli effetti scadenti e ininfluenti che si ottengono purtroppo da sforzi prodigiosi e da grande impiego di mezzi. La montagna che partorisce un topolino. Il topolino, per l’appunto, è la ziarèlla.

Zìa zìe (Le). Gli zìa zìa sono i pellegrini che arrivano a Bari da mille anni in occasione della festa di San Nicola. Arrivano da tutta l’Italia centro meridionale. Sono generalmente quelli che vengono dalla campagna, con il loro carico di ingenuità e di furberia contadine. Un gruppo di zìa zìa è un gruppo che certissimamente non viene dalla città. A Roma si chiamerebbero “ burìni,  tarpàni,  taròcchi”,  a Venezia sarebbero “quèi che i vièn daea campàgna”, a Napoli “e’ cafune e’ fora “. La zeta più che pronunciata va sibilata dolcemente. Si avvicina a zucchero. Resta comunque un suono delizioso. L’origine di questo termine è sconosciuta. Potrebbe tentarsi l’ipotesi che, come suono, potrebbe avvicinarsi al biascichìo delle litanie, zìa zìa zìa……

Zinnezzìnne (Le). Sono i piatti di ottone delle bande musicali. Il suono che emettono, quando sono battuti fra loro, è rappresentato dalla parola “ezzinnannà”.

Zipipàgne (La). Ignoro se questo termine sia barese o un bel neologismo coniato dall’amico e sodale Tonino Antonelli. Il Tonino, quando si viaggiava insieme, preferiva prendere sempre una stanza singola per sé solo. Non amava dormire con i compagni di viaggio. Perché, diceva lui, la mattina, al risveglio, nella stanza c’era sempre un insopportabile odore di zipipàgna.

Zìte (La) (U). La zìta (prego pronunciare la zeta dolce, come nella parola “zucchero”) è la “sposa” il giorno delle nozze. Ma può anche indicare la fidanzata, per tutto il periodo del fidanzamento (vedi “affidare”). Vale anche al maschile, il fidanzato o il fresco sposo, “u zìte”.

Zòcchele (La). Sostantivo femminile. Alcuni dicono anche “zòcchene”. Oltre che signora di facilissimi costumi significa anche grosso ratto che vive nelle fogne. E presente anche nel lessico italiano.

Zzàa!!! E’ un’esclamazione molto ringhiosa. Va indirizzata ai cani randagi quando si avvicinano troppo. Si può anche lanciare all’indirizzo di qualche gigantesco rompiscatole, con il quale ormai non è più possibile ragionare. Va pronunciata quasi gridando, in maniera secca e vigorosa facendo sentire il proprio disprezzo e i tre punti esclamativi. Mai guardare negli occhi il proprio avversario, anzi l’esclamazione la si emette nel momento in cui si stanno volgendo le spalle allo scassamarroni di cui dianzi. La zeta va pronunciata secca come zeta, mentre le a finali vanno fatte pronunziate facendole contemporaneamente gorgogliare nella gola in un supremo tentativo di rendere volgare finanche la semplicissima vocale “a” che in questo caso assume una notevole componente di violenza. Ha la stessa connotazione volgare e violenta del “ràus!” tedesco.

Zzòle (La). Indica un recipiente in terracotta, una specie di grossa brocca, usato per contenere l’acqua, le olive. Suo sinonimo è la “rezzòla”.
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Messaggio  Vittorio E. Polito Mar Ago 12, 2014 2:21 pm

OTTIMA COSA HA FATTO FALANGA A PROPORRE UN DIZIONARIO IN DIALETTO BARESE SU QUESTO BLOG, MA MOLTI VOCABOLI O SINONIMI  NON RISPONDONO ESATTAMENTE AL DIALETTO BARESE, MA SI RIFERISCONO A DIALETTI DI PAESI VICINI COME BITONTO, TERLIZZI,  O ALTRI PAESI.
A SOLO TITOLO ESEMPLIFICATIVO NE CITO ALCUNI, MA GLI "ADDETTI AI LAVORI" SAPRANNO VALUTARE CORRETTAMENTE QUELLE VOCI O QUEI SINONIMI CHE NON RISPONDONO ESATTAMENTE AL NOSTRO DIALETTO.

Esempio:
Tavùte o bagùglie, dall’arabo “tabut” e non “bavùglio” (cassa da morto, bara)
Segreddùre (all’insaputa) e non secherdùne (forse non è barese)
Zzòle (o zole). Indica un recipiente in terracotta, una specie di grossa brocca, usato per contenere l’acqua, le olive. Suo sinonimo è la “rezzòla”. “Rezzòla” non è sinonimo di zole, ma è la traduzione di Zole in dialetto di Bitonto o Terlizzi.

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Messaggio  Admin Mer Ago 13, 2014 2:16 pm

Carissimo Vittorio, ho letto le tue chiose al mio dizionario e questo mi conferma, ove ce ne fosse ancora bisogno, che i dialetti, ovviamente compreso il nostro, non sono per nulla un hortus conclusus, e che quindi, tutto sommato, sono ancora, secondo me fortunatamente, un magma culturale in continua mutazione. Penso che non si  arriverà mai ad una cristallizzazione della grammatica e del come si debbano scrivere i dialetti. Nel migliore dei casi ci si arriverà fra un lunghissimo tempo. Grazie quindi delle tue osservazioni che ho "menato" nel sugo dei miei pensieri baresi. franz falanga
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Messaggio  felice.alloggio Gio Ago 14, 2014 4:25 pm

Mocche e ci iè! A Bare sta nu Semenàrie pu studie du dialètte barèse da chiù de sett'anne, n'Accadèmie linguisteche dialettàle barèse da no nze capissce da quand'anne sta, e nonn'è angore assùte nudde!
  Pò Falànghe, soprannomenàte Franz, fasùle fasùle ha mettùte sope a Indernètte nu Dizionàrie aggarbate e asseduàte.
   E come se spièghe stu fatte? Forse ca iè mègghie a studià assule assule ca mal'acchembagnàte? Forse ca ce fasce da sé fasce pe trè? Sacce!!!
Comunque sì, bune Ferragùste a tutte!!
  Felìsce
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Messaggio  Admin Ven Ago 15, 2014 7:55 am

Carissimo Feise, gavarìa caro respondarte in venexian, anca se mi no sarìa tanto sicuro de conosserlo ben. Grassie per queo che ti me gà scritto! Sempre a proposito dei dialetti gò pensà a quei sprovveduti dea lega che vorria che in tutte e scoe del Veneto si insegnasse il dialetto veneto. E già qui ghe saria il primo erorr, parchè nol ghe xe "Il" dialetto veneto ma "I" dialetti veneti. Pensa ti che "saria" è venexian, mentre nel mio paese i dise "saresseo". Pensa che indove abito mi se dise bruscàr, a do chiometri invece se dise sarpir,  jinde alla cambagne de BBare se disce "spruà". E quei sprovveduti dea lega non gà capìo che, per insegnar nee scole i dialetti veneti, ghe saria bisogno de individuàr centinaia di professori che dovaria conosser il dialetto loro. Insomma una confusiòn generàl. Mi penso che anca nee altre regioni italiane succede ea stessa cosa. Meh! Mò ka so sfoggiate u dialette venezziane, che jì credeche de canosce, ma non u canosceche pennùdde, te digghe angore navolde grazzie e grazzie! Iosce iè ferragoste, e fasce fridde. Ce t'ea disce Felisce, ddò non se capisce cchiù nudde. Nu grazzie angore e n'abbrazze. falànghe.  
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Messaggio  Vittorio E. Polito Ven Ago 15, 2014 10:15 am

LA LISTA DEI PROVERBI ITALIANI NON È NATA CERTAMENTE PER CASO, VI SONO SEMPRE  STATI MOTIVI CHE L’HANNO FATTA ALLUNGARE. OGGI SI CONTANO ALMENO 25MILA LOCUZIONI, PER CUI CONCORDO CON QUANTO SCRIVE FELICE ALLOGGIO DAL MOMENTO CHE «TRA IL DIRE E IL FARE C’È DI MEZZO IL MARE», PER INDICARE L’ABISSO CHE C’È TRA UN’IDEA E LA SUA REALIZZAZIONE. OPPURE «SI DICE SEMPRE DI PIÙ DI QUEL CHE È», OVVERO VI È LA TENDENZA GENERALE A COLORIRE ED ENFATIZZARE, PER RENDERE PIÙ IMPORTANTE IL PROPRIO DISCORSO O UNA NOTIZIA. È FUOR DI DUBBIO CHE A PAROLE SI PROMETTE E/O SI PROGETTA, MA PER GIUNGERE ALLA REALIZZAZIONE PRATICA, C’È,  APPUNTO, IL MARE, NEL SENSO DELLE DIFFICOLTÀ CHE RENDONO SPESSO IMPOSSIBILE LA CONCLUSIONE.
È PROPRIO IL CASO CITATO DA ALLOGGIO CHE PARTITO, DIREI ALLA GRANDE, CON UN ELEVATO NUMERO DI QUALIFICATI “SEMINARISTI” HA FINITO LENTAMENTE PER DEPAUPERARSI, ABBANDONATO, PER DISSIDI DI VARIO GENERE, PROPRIO DA COLORO CHE POTEVANO DARE UN POTENZIALE E VALIDO CONTRIBUTO ALLA REALIZZAZIONE DEL PROGETTO.
FELICE CITA ANCHE IL PROVERBIO «MEGLIO SOLI CHE MALE ACCOMPAGNATI», UN PROVERBIO DI LARGO IMPIEGO CHE PERMETTE DI VALUTARE UNA SITUAZIONE DI PER SÉ NEGATIVA, MA NEL CASO CITATO LA SOLITUDINE NON VA BENE AFFATTO.
PER CUI PER DIRLA CON UN PROVERBIO DI MASSIMA DIFFUSIONE E  VITALITÀ, CHE NON HA BISOGNO DI COMMENTI, «A BUON INTENDITOR POCHE PAROLE».

UN CORDIALE SALUTO A TUTTI

Vittorio Polito
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