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DIALETTO BARESE E DINTORNI: NOTIZIE, APPUNTAMENTI, INFORMAZIONI, NOVITÀ ED ALTRO

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DIALETTO BARESE E DINTORNI: NOTIZIE, APPUNTAMENTI, INFORMAZIONI, NOVITÀ ED ALTRO - Pagina 2 Empty RICONOSCIMENTI

Messaggio  Vittorio E. Polito Dom Lug 26, 2009 4:43 pm

La Gazzetta del Mezzogiorno di oggi 26 luglio 2009,ha pubblicato a pagina XV il seguente comunicato a proposito del "PREMIO NAZIONALE DI POESIA CATINO 2009" promosso e organizzato dall'Associazione "Giovanni Falcone " di Catino-Santo Spirito (Bari).

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DIALETTO BARESE E DINTORNI: NOTIZIE, APPUNTAMENTI, INFORMAZIONI, NOVITÀ ED ALTRO - Pagina 2 Empty LA LEGA ED I DIALETTI - da LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO DEL 1° AGOSTO 2009

Messaggio  Vittorio E. Polito Sab Ago 01, 2009 3:28 pm

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DIALETTO BARESE E DINTORNI: NOTIZIE, APPUNTAMENTI, INFORMAZIONI, NOVITÀ ED ALTRO - Pagina 2 Empty DIALETTO: FANTASTICHERIE DELLA LEGA NORD (O COLPO DI CALORE PER BOSSI & C.)

Messaggio  Vittorio E. Polito Sab Ago 15, 2009 7:44 am

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DIALETTO BARESE E DINTORNI: NOTIZIE, APPUNTAMENTI, INFORMAZIONI, NOVITÀ ED ALTRO - Pagina 2 Empty INTERVENTO DI FELICE ALLOGGIO SUL DIALETTO

Messaggio  Vittorio E. Polito Mar Ago 18, 2009 6:45 am

LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO DEL 18 AGOSTO 2009, PAG. 17


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DIALETTO BARESE E DINTORNI: NOTIZIE, APPUNTAMENTI, INFORMAZIONI, NOVITÀ ED ALTRO - Pagina 2 Empty RE: INTERVENTO DI VITTORIO POLITO E FELICE ALLOGGIO SUL DIALETTO

Messaggio  Ospite Mar Ago 18, 2009 3:36 pm

Buongiorno a tutti.
Apprezzo molto quanto scrive Polito a proposito dell'assurda proposta di Bossi & C. in relazione al dialetto. Ormai il cervello di Bossi non è più in sintonia con la realtà e farebbe bene a mettersi da parte con le sue strampalate idee.
Concordo pienamente con quanto scrive Alloggio sulla Gazzetta di oggi (18 agosto 2009) "Il dialetto non deve dividere", ma pare che in certi casi il dialetto divide. Il riferimento è proprio al citato Seminario, ottima e meritoria iniziativa ma c'è qualche partecipante che ha interessi personali da difendere. La stessa candidatura di Felice Giovine in occasione delle ultime elezioni la dice lunga sulla questione. Infatti, Giovine, e non solo lui, utilizza la frase paterna "Per servire Bari senza servirsene" e invece si avvale proprio di Bari e del suo dialetto per candidarsi senza successo nella lista IO SUD. Ed ora la parola a tutti coloro (Seminari, Centri Studi, Comitati difesa baresità, ecc.), che dicono di difendere dialetto e tradizioni, ma nel momento in cui dovrebbero intervenire tacciono (o sono in ferie?).
Cordialmente
Disciadisce

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DIALETTO BARESE E DINTORNI: NOTIZIE, APPUNTAMENTI, INFORMAZIONI, NOVITÀ ED ALTRO - Pagina 2 Empty RE: A DISCIADISCE ED ALTRO

Messaggio  Vittorio E. Polito Mer Ago 19, 2009 9:08 am

Mentre condivido pienamente quanto scrive Felice Alloggio sulla questione dialetto, ringrazio per la citazione il signor Disciadisce. Con l'occasione allego, nell'interesse dei frequentatori di questo sito, alcuni interventi e commenti provenienti da più parti (L'Avvenire, La Repubblica, La Gazzetta del Mezzogiorno.it, ecc.), affinchè ognuno si faccia la propria idea sulla questione e possa, eventualmente, intervenire sull'argomento.
Cordiali saluti a tutti

Vittorio Polito
______________________________________________________________________________________

DA LA REPUBBLICA DEL 19 AGOSTO 2009, PAG. 6

DIALETTO BARESE E DINTORNI: NOTIZIE, APPUNTAMENTI, INFORMAZIONI, NOVITÀ ED ALTRO - Pagina 2 Repubb10Mentre

Da Giovanni di Lecce il 18.8.09 ore 16.37 (Commento alla nota di Alloggio sul sito La Gazzetta del Mezzogiorno.it )

Salve.
Sono un Funzionario dello Stato, perciò, soggetto a possibili spostamenti in tutta Italia. Ho un figlio di 7 anni che frequenta le elemantari a Lecce. Ipotizzando un trasferimento ogni 1-2 anni, mi chiedo: mio figlio dovrà imparare tutti gli 8.100 dialetti italiani, tanti quanto sono i Comuni, per poter affrontare con tranquillità questa nuova "materia" chiesta dalla Lega?
Mi rivolgo ora a chi ha votato LEGA oppure PDL: dopo le bandiere, dopo gli inni, dopo i professori locali, dopo le gabbie salariali,beccatevi anche questa "I DIALETTI" nelle scuole. Mi raccomando: votateli ancora che continueranno a "sparare" buffonerie una più grossa dell'altra,senza mai risolvere i veri problemi che attanagliano giornalmente i cittadini italiani.
Saluti dal grande SALENTO.



Da Antonio Perrucci, Cavallino (LE) 19.8.2009, ore 08.55 (secondo commento alla nota di Alloggio sullo stesso sito della Gazzetta del Mezzogiorno.it)

Alloggio parla del dialetto come mezzo per conoscere il passato, nello specifico la storia del Sud.Il Sud non ha storia,ha solo storia recente, parte dal 1861 con l'arrivo di una masnada di rapinatori e di razzisti: i piemontesi con alla loro testa i Savoia.Il Nord, da allora ha curato i suoi interessi a scapito e sulla pelle del Sud. oggi, con la lega al governo si assiste ad una forma più accentuata di tendenza separatista, ma, nei 147 anni trascorsi il separatismo era nella politica tendente a frenare o impedire, uno sviluppo economico e sociale dell'intero sud.
Ci resta solo un pò di prosopopea come quando diamo fiato e parliamo del "grande salento", di Lecce "porta d'oriente" e sciocchezze varie.Ma, ci resta solo disoccupazione,politici affaristi e individualismo esternizzato.



Vittorio Polito, Bari | 19-08-2009 | 12:16 (terzo commento sullo stesso sito)

Non si può che concordare con Felice Alloggio per la sua interessante nota a proposito del dialetto, finalizzata alla difesa del nostro primo idioma e, soprattutto, a che il dialetto non divida. Le insulse proposte di Umberto Bossi servono solo a svegliare qualche rimbecillito leghista che con il calore estivo si addormenta. La cosa che più infastidisce è che certe proposte vengono da un ministro della Repubblica Italiana, che certo dell'alleanza con il suo "amico" Berlusconi, prova a lanciare. Ma siamo seri signori leghisti, il dialetto certamente non dividerà proprio nessuno, anzi le tante manifestazioni, pubblicazioni, siti internet, ecc., ne danno la conferma. Pertanto viva il dialetto e collaboriamo tutti a vivacizzarlo ed a nobilitarlo. Stiamo già registrando che le due proposte del povero Bossi “Inno e dialetti” sono stati per la lega proprio un autogol, come titola un quotidiano nazionale. Anzi, annuncio che tra qualche mese sarà pubblicato un mio libro (il 2°) sulla Baresità.

Dal sito L’AVVENIRE.IT
19 Luglio 2009

IL CASO


Lega, dialetto a scuola: è polemica


Niente "test di dialetto" per i docenti, chiarisce il capogruppo della Lega a Montecitorio Roberto Cota, ma più semplicemente test preselettivi per consentire l'accesso agli albi regionali degli insegnanti, albi previsti proprio dal provvedimento all'esame della commissione Cultura della Camera. Eppure sui dialetti, che la Lega considera vere e proprie lingue, meritevoli quindi della stessa considerazione che si deve all'idioma nazionale, il Carroccio non molla, come dimostrano le proposte di legge presentate a Montecitorio da Davide Caparini e a palazzo Madama dal capogruppo Federico Bricolo.
Soprattutto quest'ultima è quella che più si lega al mondo dell'istruzione, dal momento che prevede l'insegnamento obbligatorio di quattordici lingue: le dodici previste dalla "Carta europea delle lingue regionali o minoritarie", che il nostro Paese ha sottoscritto nel lontano 1992 ma che non ha ancora ratificato, più il veneto e il piemontese.
In Italia, sottolinea la Lega, ci sono comunità di cittadini italiani che parlano albanese, catalano, tedesco, greco, sloveno, croato, francese, franco-provenzale, friulano, ladino, occitano. Tutti idiomi inseriti nella lista delle lingue regionali da tutelare secondo la Carta europea, insieme al sardo. A questo elenco, dice il Carroccio, vanno aggiunti il veneto ed il piemontese, "fin qui irragionevolmente escluse, nonostante siano parlate da milioni di persone in diversi Stati", spiega Bricolo.
Nell'ambito dell'autonomia dell'offerta formativa, le istituzioni scolastiche dovranno, secondo la proposta della Lega, predisporre "piani di studio personalizzati, singolarmente o in forma associata, provvedendo all'integrazione dei testi scolastici con specifiche unità didattiche dedicate allo studio della lingua o del dialetto di ciascun territorio". Quanto alla copertura finanziaria, la spesa prevista dal provvedimento targato Lega è pari a 70 milioni di euro l'anno.A rafforzare l'iniziativa leghista c'è anche la proposta di legge Caparini depositata alla Camera (oltre a quelle, sempre della Lega ma non solo, per la ratifica della Carta Ue del 1992 sulle lingue regionali): "il nostro Paese -spiega Caparini- ha il maggior numero di dialetti in rapporto alla sua superficie, e i dialetti non sono dei sottoprodotti della lingua italiana: hanno loro radici che sono altrettanto nobili. Quasi due secoli di propaganda unionista di stampo centralista e giacobino hanno cancellato il fondamentale e indiscusso principio che ogni dialetto è una lingua e hanno introdotto un'artificiale distinzione valoriale, esclusivamente politica, tra lingua e dialetto".
"Per ovviare alle discriminazioni di Stato ed evitare che siano le maggioranze parlamentari di stampo statalista e centralista a decidere quali siano le lingue da valorizzare e quali invece quelle da ghettizzare etichettandole come dialetto", la Lega propone che siano i Consigli regionali a stabilire quali debbano essere i dialetti riconosciuti come 'lingue storiche regionalì, e come tali beneficiari delle tutele previste dalla legge.

La polemica. È caos nella maggioranza sulla proposta della Lega di inserire nella riforma della scuola un test per gli insegnanti «sulla cultura, le tradizioni e il dialetto delle regioni in cui intendono insegnare». La richiesta del Carroccio, presentata in commissione Cultura della Camera, ha aperto un confronto aspro nel centrodestra e scatenato le proteste dell’opposizione. Pertanto ieri, il presidente della commissione Valentina Aprea ha deciso di sospendere la seduta delegando il tema alla conferenza dei capigruppo di Montecitorio. «Noi avevamo presentato una proposta di legge di riforma della scuola – avverte la parlamentare della Lega Paola Goisis autrice della proposta del test ai professori –. Ma questa non era condivisa da tutta la maggioranza. Così abbiamo chiesto che ne venisse recepita almeno una parte nel testo unificato che ora è all’esame della commissione Cultura. Su questo punto insisteremo fino alla fine».
In seguito alla polemica che è scoppiata in Parlamento per la richiesta del Carroccio è intervenuto anche il presidente della Camera Gianfranco Fini assicurando che nel prosieguo dell’iter parlamentare della riforma verranno rispettati «i principi fondamentali della Costituzione». Il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto butta acqua sul fuoco osservando che in realtà «non esistono ragioni di divisione sui problemi della scuola tra Pdl e Lega». Ma la tensione nel centrodestra resta alta. Secondo la Goisis, non dovrebbero più essere considerati, ai fini del reclutamento degli insegnanti, i titoli di studio perché «non garantiscono un’omogeneità di fondo e spesso risultano comprati». Ma su questo punto sono contrari quasi tutti gli esponenti del Pdl in commissione Cultura. «Questa nostra proposta – ha aggiunto Paola Goisis – ha l’obiettivo di ottenere una sostanziale uguaglianza tra i professori del Nord e quelli del Sud. Non è possibile, infatti, che la maggior parte dei docenti che insegna al Nord sia meridionale».
Il Pd ha criticato aspramente la presa di posizione della Lega. Il capogruppo del Pd in commissione Cultura Manuela Ghizzoni afferma: «L'istruzione è un tema troppo serio e non può divenire oggetto di pericolose incursioni ideologiche dal sapore tutto nordista».


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DIALETTO BARESE E DINTORNI: NOTIZIE, APPUNTAMENTI, INFORMAZIONI, NOVITÀ ED ALTRO - Pagina 2 Empty ALTRO INTERVENTO ALLA NOTA DI FELICE ALLOGGIO

Messaggio  Vittorio E. Polito Gio Ago 20, 2009 2:30 pm

Franz Falanga, CAVASO (TV) |20-08-2009|09:23
Dal sito LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO.IT

Discutere con gli onorevoli leghisti sulla proposta di “insegnamento del dialetto” nelle scuole, per una persona di cultura medio bassa come il sottoscritto, è assolutamente imbarazzante. Imbarazzante perché certe affermazioni o sono dettate da ignoranza o da malafede. Non esiste il dialetto veneto così come non esiste il dialetto pugliese. Esistono invece centinaia di dialetti nel Veneto, centinaia di dialetti in Puglia e così via. La prima pagina de “la Padania” del 13 agosto 2009 è stata scritta in un improbabile dialetto veneziano che i redattori hanno spacciato per dialetto veneto. Nel Veneto dove abito “potare” si dice “sarpìr” mentre a un chilometro di distanza si dice “bruscàr”. Quello che più mi meraviglia non è la Lega ma l’intera categoria dei giornalisti italiani che non si ribella con “gran vigore” a fronte di “cavolate” (sono stato buono ad usare questa parola) così titaniche.
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DIALETTO BARESE E DINTORNI: NOTIZIE, APPUNTAMENTI, INFORMAZIONI, NOVITÀ ED ALTRO - Pagina 2 Empty LEGA E DIALETTO - AGGIORNAMENTO

Messaggio  Vittorio E. Polito Ven Ago 21, 2009 5:14 pm


DA LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO DEL 21 AGOSTO 2009, PAG. 17




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DIALETTO BARESE E DINTORNI: NOTIZIE, APPUNTAMENTI, INFORMAZIONI, NOVITÀ ED ALTRO - Pagina 2 Empty DIALETTO E LEGA -ALCUNI COMMENTI DAL CORRIERE DELLA SERA

Messaggio  Vittorio E. Polito Sab Ago 22, 2009 9:41 am

DAL CORRIERE DELLA SERA

Ma l' emergenza sono le lingue straniere

Caro direttore, il tema caldo di quest' estate calda è il dialetto come materia obbligatoria nelle scuole d' Italia. Dialetto e approfondite conoscenze di storia e cultura locale per studenti e insegnanti, per rimarcare con penna e calamaio del legislatore quel puzzle raro e affascinante di differenze e dissonanze, anche microscopiche, che compongono l' identità italiana. Nell' Italia del burro, così come in quella dell' olio beninteso, si torni a valorizzare i tratti autoctoni, a partire dalla lingua. Questo, in estrema sintesi, il messaggio politico della Lega di Bossi, che al di là delle esternazioni ad effetto, potrebbero diventare disegno di legge in tempi brevi. La serie di proposte assomiglia sempre più a un vero e proprio progetto culturale. Doveroso parlarne, quindi, anche fuori dall' arena politica, perché i progetti culturali creano le premesse per la crescita e lo sviluppo di un paese, oppure per il suo declino. Torniamo alla lingua e ai dialetti. Battaglia di retroguardia o colpo di reni innovativo, a rinforzo tattico della visione concreta del federalismo leghista? Il tema è caldo, dicevamo, e molto complesso. Possibile tuttavia, e spero utile, fare chiarezza, in poche mosse. Prima mossa. Il quadro storico-linguistico dell' Italia moderna, dall' Unità ad oggi, è chiaro e irreversibile. L' unità linguistica, che fa dell' italiano lingua nazionale e ufficiale in tutti i contesti pubblici e formali e in gran parte di quelli informali, soprattutto per le ultime generazioni, è il risultato di un lungo processo di evoluzione storica e culturale. L' italiano non è l' esperanto. Ne sono stati protagonisti, nell' ordine: la scuola pubblica (nell' insegnamento e nella valorizzazione della grande tradizione letteraria nazionale), la leva militare obbligatoria, la radio e la televisione. Si tratta di una conquista fondamentale ai fini della costruzione di una coscienza nazionale unitaria, la cui forza politica è più facilmente misurabile guardando all' immagine dell' Italia all' estero, come spesso accade. L' italiano è in crescita come lingua di studio nel mondo (nella sola area mediterranea oltre 20.000 gli studenti ad oggi, con un incremento che sfiora il 30% annuo, in paesi come Turchia, Libano, Egitto e Israele). L' italiano ci identifica come superpotenza culturale nel mondo, in quanto lingua dell' arte e della musica, ma ormai anche come lingua di interscambi commerciali sempre più fitti. Si punti, allora, al miglioramento delle competenze linguistiche dell' italiano per gli italofoni (ce n' è bisogno!) e per gli stranieri e si potenzi quella politica di promozione linguistica e culturale, che ha fatto della Francia e della Gran Bretagna modelli e punti di riferimento politico e culturale in vaste aree del pianeta. Seconda mossa. Le politiche linguistiche di un paese devono essere di lungo respiro e in sintonia con il disegno politico generale. Due priorità in agenda, su cui il governo si sta impegnando intensamente: internazionalizzare e integrare, cioè aprirsi al resto del mondo (nelle imprese, nelle università, nelle istituzioni) e creare condizioni concrete di coesione e solidarietà sociale fra italiani e stranieri immigrati. La lingua nazionale, in entrambi i casi è strumento fondamentale, direi necessario, perché i due processi in atto, di apertura e di accoglienza, siano efficaci e duraturi. Terza ed ultima mossa. I programmi e i metodi di insegnamento della scuola devono rispondere agli obiettivi educativi condivisi ed essere commisurati alle risorse disponibili. Degli obiettivi si è detto. Della scarsità di risorse ben sappiamo. Non dimentichiamo, in questo quadro, l' «emergenza lingue straniere»: siamo ancora un paese fondamentalmente monolingue e Bruxelles ci chiede almeno due lingue per tutti. Dobbiamo continuare a investire quindi, di più e meglio, nell' insegnamento delle lingue straniere nella scuola. Non vorremmo che fossero i nostri figli a pagare il prezzo di questo ritardo. Per i nostri figli, c' è da augurarsi, infatti, un futuro di mobilità, fisica e intellettuale, che non confligge affatto col rafforzamento dei legami con le proprie radici territoriali, anzi. Cassoela o orecchiette, barolo o sagrantino, dialetto veneto o napoletano, l' italianità continua ad essere espressa al meglio per via sintetica più che per frammentazione analitica. Ragion per cui, di fronte alla Gioconda di Leonardo, così come nell' ascolto della Tosca di Puccini o della Traviata di Verdi, continuiamo a sentirci tutti indistintamente e orgogliosamente italiani. E vorremmo continuare a farlo, in Italia e nel mondo. Rettore dell' Università per Stranieri di Perugina. RIPRODUZIONE RISERVATA

Giannini Stefania

L' italiano, una lingua democratica

Il guaio dell' età che avanza - parlo per esperienza - è soprattutto la noia . Quella di chi subisce il ciclico ritorno degli stessi dibattiti, degli stessi temi, degli stessi equivoci. È naturale: ogni generazione deve ricominciare da capo. Ma, per il povero anziano, è pur sempre tedioso. Tra i «tormentoni» ricorrenti, ecco di nuovo, in queste settimane, la questione - rinfocolata periodicamente dalla Lega - del rapporto tra lingua nazionale e dialetti locali. Qui, i seguaci di Bossi hanno un grosso, irrisolvibile handicap rispetto a molti movimenti stranieri federalisti o separatisti. In effetti, non vale per l' Italia quanto - osservava Ernest Renan - è vero per altri grandi idiomi. Il francese imposto da Parigi a occitani, bretoni, normanni, còrsi, alsaziani, lorenesi. Il castigliano imposto da Madrid a catalani, baschi, valenciani, galiziani, aragonesi. L' inglese imposto da Londra a gallesi, scozzesi, irlandesi. Il russo imposto da Mosca a ucraini, bielorussi e altre etnie slave. Il mandarino di Pechino imposto a tutti i cinesi. Due sole, grandi lingue, divenute ufficiali per uno Stato, non sono state imposte a popolazioni in parte riluttanti: il tedesco e l' italiano. Entrambe sono, per dir così, «democratiche». Per comunicare tra loro, le genti germaniche, prive di unità politica, dopo un lento avvicinamento degli infiniti dialetti, decisero di adottare, almeno per la scrittura, il sassone aulico in cui Lutero tradusse la Bibbia . Quanto all' Italia, anch' essa frammentata, ebbe solo tardivamente uno Stato, ma fu precocemente una «nazione». A partire dal tardo Quattrocento, chi abitava la Penisola era distinto dagli altri popoli come un «italiano». Ma già nel Medio Evo, tra le «nazioni» riconosciute in Europa - ad esempio, nelle università e nelle corporazioni di mestiere - c' era quella «italiana». Sta soprattutto nella lingua il motivo di questa identità, malgrado lo spezzettamento politico e le forti differenze di ogni tipo tra le Alpi e lo Jonio. Ebbene, spesso si dimentica che, se in Italia si parla e si scrive così, ciò è dovuto alla libera scelta degli uomini di governo e, soprattutto, di cultura , di ogni angolo di quello che solo molti secoli dopo sarebbe divenuto uno Stato. In Italia non ci fu una Capitale dove sedesse un' autorità che imponesse un dialetto locale divenuto lingua ufficiale per le leggi, i tribunali, l' esercito. Da noi, ancor più che in Germania, l' idioma comune fu una sorta di referendum, fu il frutto di una decisione pragmatica che si impose liberamente: poiché, divenuto sempre più arduo esprimersi in latino, occorreva una koiné italica, i gruppi culturalmente e politicamente dirigenti finirono coll' accordarsi (prima nei fatti, e poi nelle teorie dei dotti) sulla variante di volgare illustrato dalla triade sublime, Dante, Petrarca, Boccaccio. Così, fu il dialetto toscano, e in particolare fiorentino, che divenne la lingua franca per gli scambi, la letteratura e poi la cultura in generale. Lingua «democratica», dunque, e al contempo «aristocratica» nel senso che, sino all' unità politica, fu soprattutto scritta da chi sapeva di lettere. Ci vollero non tanto la scuola obbligatoria quanto prima l' Eiar e poi la Rai, nonché il sonoro nei film, per trasformarlo in un idioma praticato da tutti, o quasi. Sta di fatto che - a differenza di un catalano nei confronti di un castigliano o di un provenzale nei confronti di un parigino o di uno scozzese nei confronti di un londinese - nessuno, di nessuna regione italiana, può accusare uno Stato o un Potere di avergli imposto un idioma che, dalla sua, ha avuto semmai solo la forza della cultura. Firenze nulla fece, se non approfittare del talento dei suoi grandi scrittori. Quanto agli attuali «padani», pur comprendendo alcune delle loro ragioni, non dimentichino che, tra Ottocento e Novecento, coloro che più fecero per dare una lingua moderna a tutti gli abitanti della penisola, facendoli uscire dai dialetti e dal toscanismo angusto, furono il lombardo Manzoni, il ligure piemontesizzato De Amicis, il saluzzese Pellico, il torinese d' Azeglio, il dalmata Tommaseo, il veneto Fogazzaro, il romagnolo Pascoli, il genovese Mazzini. E che, ancor prima, l' astigiano Alfieri, il subalpino Baretti, i milanesi Verri e Beccarla, molto avevano fatto per radicare la lingua comune. Per tornare all' Ottocento, il parmigiano Verdi, malgrado offerte di francesi, inglesi, tedeschi, rifiutò di musicare libretti che non fossero in italiano; e persino il «federalista» lombardo Carlo Cattaneo accettò di buon grado la scelta del toscano, in cui scrisse in modo impeccabile, irridendo ai passatismi dialettali. Non irrisione, ma furore, provocavano nel nizzardo Garibaldi coloro che mettevano in discussione l' unità dell' idioma. Morì accanto a lui, all' assedio di Roma, il genovese Mameli, che aveva cantato l' unione di «Fratelli d' Italia» in tutto, a cominciare dalla lingua. Tutti «padani» o, almeno, «nordisti»; e tutti contro la babele vernacolare, anche la loro. «È la storia, bellezza!», verrebbe da celiare con chi si ostinasse a barricarsi sotto il suo campanile, inveendo contro una lingua che gli sarebbe stata imposta da qualche prepotente forestiero. È colpa, o merito, della storia se non si dice un chimerico «padano», ma neanche un «lombardo» (si capiscono, forse, uno di Sondrio e uno di Cremona, uno di Bergamo e uno di Pavia ?) e, se altri idiomi di altre regioni italiane, al Centro e al Sud, esistono, ma non sono praticabili come lingue. Ciò non toglie che i dialetti siano una ricchezza: posso dirlo anche perché, se mi è permesso un riferimento personale, mio padre fu tra i più popolari e, credo, dotati, poeti in modenese. Ma è una ricchezza ancor maggiore lo strumento divenuto pian piano comune, in quasi mille anni, ad almeno 60 milioni di persone. Per forza propria, senza bisogno di decreti governativi tutelati dai gendarmi. RIPRODUZIONE RISERVATA

Messori Vittorio

Pagina 8
(19 agosto 2009) - Corriere della Sera


La Russa: dal Pdl un colpo di reni Basta parare gli attacchi degli altri

A Bossi non piaceva il passaggio «schiava di Roma». Cambiò idea quando gli spiegammo che «schiava» era riferito alla «vittoria» Quella del Carroccio è un' egemonia puramente propagandistica: serve per lucrare voti. Nei fatti, sono sempre venuti a miti consigli

ROMA - «Provocazioni agostane, che non stanno né in cielo né in terra». A Ignazio La Russa, ministro della Difesa, le parole di Umberto Bossi non sono piaciute. Ma la sua attenzione è concentrata soprattutto sul Pdl, di cui è uno dei tre coordinatori: «La Lega resta un alleato indispensabile, ma al Pdl serve un colpo di reni, un' impennata: siamo il partito guida della coalizione, non possiamo sempre mediare e parare i colpi degli altri». Provocazioni, lei dice. Ma fanno parte integrante della weltanschauung leghista, della loro visione del mondo. «Ma no, è un continuo stop and go. La Lega utilizza il silenzio politico d' agosto per riempirlo di parole d' ordine propagandistiche. E per poi fare continue marcia indietro». A Bossi l' inno non è mai piaciuto. «Aveva detto che non gli piaceva il passaggio "schiava di Roma". Poi gli abbiamo spiegato che era la vittoria a essere schiava di Roma. E aveva cambiato idea». Non del tutto, pare: continua a preferire il «Va' , pensiero». «Dimentica che lo faceva suonare anche Almirante nei comizi, insieme a Sole che sorgi. È un inno perfino più patriottico di quello di Mameli. Verdi infervorava i cuori dei patrioti: non a caso si scriveva sui muri "Viva Verdi", "Viva Vittorio Emanuele Re d' Italia"». E il dialetto? Non è solo propaganda, c' è anche un progetto di legge. «Sa quanti ne giacciono in Parlamento? E poi che vuol dire lingua padana? Se Bossi e Galan parlassero tra loro in dialetto, avrebbero bisogno di un interprete. Ma intendiamoci: il dialetto è un patrimonio per tutti. Purché non sia usato per dividere, ma come il tassello di una identità culturale più ampia». E il dialetto obbligatorio a scuola? «Trovo intelligente la formula di Formigoni: far cantare canzoni dialettali nelle ore di musica. Io adoro la siciliana "sciuri sciuri". Ma anche la canzone popolare cremonese: "ravanei remulas barbabietuli e spinas tre palanchi al mas"» (canzone popolare che Aldo Giovanni e Giacomo, nelle vesti di vampiri leghisti, modificarono aggiungendo «daghel al terun» al posto di «tre palanchi al mas»; ndr). Secondo Adolfo Urso la Lega sta imponendo una nuova egemonia culturale. «Non credo: si tratta piuttosto di un' egemonia propagandistica, che serve per lucrare voti. Nei fatti la Lega è venuta a miti consigli. Bossi, quello che mangiava i terroni a colazione, ha accettato che trattassimo l' Abruzzo come emergenza nazionale. E non è stato varato il federalismo leghista bensì quello solidale, con ampi spazi per Roma capitale». Bossi ha ingoiato anche il dibattito sulla Cassa per il Mezzogiorno. «Credo che all' origine del nervosismo della Lega e della sgradevole propaganda sia proprio il timore che l' attenzione del governo si sposti sempre più verso il Sud». Come reagire di fronte alla Lega? «Il Pdl deve assumere un' iniziativa forte, deve essere la forza trainante della coalizione, rendersi conto che è il partito di maggioranza relativa, che ha il premier e ministri chiave, come quello dell' Economia. Che è del Pdl, se non ho capito male. C' è bisogno che il partito non sia soltanto il luogo dove mediare le pulsioni del Paese». Bossi pensa poco all' Italia. «C' è chi chiede l' istituzione di una Festa dell' Unità nazionale, ricordo che questa esiste già: è il 4 novembre. È più nota come festa delle Forze Armate, ma celebra entrambe. Da quest' anno farò anteporre la dizione di Festa dell' Unità nazionale. E la farò concludere con un concerto di Arbore e della sua Orchestra italiana». Nel Pdl c' è chi pensa con nostalgia all' Udc. «Ci sono differenze che difficilmente possono essere colmate: l' Udc è contro il bipolarismo e non riconosce Berlusconi come premier. Ma a livello territoriale queste differenze contano meno. Ci si può alleare, ma serve chiarezza: se sono intese papocchio, allora è meglio lasciar perdere». Alessandro Trocino RIPRODUZIONE RISERVATA

Trocino Alessandro

Pagina 9
(18 agosto 2009) - Corriere della Sera
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DIALETTO BARESE E DINTORNI: NOTIZIE, APPUNTAMENTI, INFORMAZIONI, NOVITÀ ED ALTRO - Pagina 2 Empty LEGA E DIALETTO - ALCUNI COMMENTI DA LA REPUBBLICA - 1 -

Messaggio  Vittorio E. Polito Sab Ago 22, 2009 9:49 am

da LA REPUBBLICA

IL DIALETTO A SCUOLA PRIMA DEL RAZZISMO

Repubblica — 30 luglio 2009 pagina 11 sezione: PALERMO

L' ultima sortita leghista è, tra tutte, forse la più insidiosa. Per cominciare ad intenderci, le ben note prese di posizione di marca razzista, esprimono idee chiare, per quanto aberranti. Ma ora le cose si complicano. Cercherò di spiegarmi, partendo da lontano. Il problema linguistico è uno dei problemi fondamentali delle società moderne (e a dire il vero, lo è stato anche di quelle antiche). Come è noto, in Italia si è sempre discusso ben prima dell' Unità di «questioni della lingua», e «questione» è parola impegnativa, perché ha assai spesso implicazioni ideologiche come nel nostro caso: le «questioni della lingua» da Pietro Bembo a Pasolini e Don Milani, hanno sempre avuto forti connotazioni ideologiche. Ma partiamo dagli anni successivi alla "Unità della Nazione", concetto sempre più in crisi). Nel 1868 il ministro Emilio Broglio istituì una commissione per la lingua italiana, nella quale ebbe una posizione di rilievo Alessandro Manzoni. Manzoni adottò sul piano politico quella che era stata la sua intuizione sul piano letterario, cioè che il modello unificante di lingua dovesse essere il fiorentino contemporaneo del ceto colto (non più il fiorentino del Trecento). A questo obiettivo si sarebbe potuti arrivare attraverso tappe forzate, disseminando sinanco - si badi bene - maestri toscani in tutte le scuole d' Italia, e muovendo guerra ai dialetti. In questa posizione del Manzoni, che fu fieramente avversata da Graziadio Isaia Ascoli, il più grande linguista del tempo, l' istanza unitaria e politica prevaleva su quella culturale: Manzoni conosceva bene la ricchezza della tradizione linguistica regionale, ma considerava drammatica nella prospettiva unitaria la frammentazione in tanti e così diversi idiomi. La odierna posizione leghista parrebbe ribaltare la concezione manzoniana della lingua. Si tratta, ovviamente, di una operazione grossolana ed estrema, indigeribile e inattuabile, oltretutto concepita da una compagine politica profondamente incolta come la Lega. E tuttavia, come si diceva all' inizio, la questione è meno semplice di quanto non appaia a prima vista. L' emendamento leghista richiede un test per verificare «il livello di conoscenza della storia, della cultura, delle tradizioni e della lingua della regione» in cui il docente desidera insegnare. Paradossalmente, la proposta parrebbe riprendere la grande idea ascoliana di insegnare la lingua italiana senza penalizzare o addirittura mortificare il dialetto, utilizzando maestri che sapessero valorizzare il retroterra culturale e linguistico degli alunni. Questa idea di Ascoli, inizialmente avversata dai programmi scolastici postunitari, è riuscita pian piano a farsi strada, producendo anche risultati di grande interesse. Nel primo ventennio del Novecento si fa avanti una forte idea regionalistica, che vuole costruire l' unità culturale e linguistica a partire dalle differenze. Attorno a questa idea forte, che riconosce alla cultura dialettale un valore inestimabile, si raccolgono le menti migliori, da Pasquale Villari a Benedetto Croce, da Francesco De Sanctis a Giuseppe Lombardo Radice, con tutte le esperienze volte ad attuare il metodo «dal dialetto alla lingua». Sappiamo bene come tutti questi robusti obiettivi educativi fossero stati mortificati dalle scelte centralistiche e antidialettali del fascismo, che interrompe il processo di rinnovamento avviato da Lombardo Radice con i programmi di lingua italiana del 1923. Questi programmi sostituivano alla tradizionale grammatica normativa la teoria e la pratica della comparazione di dialetto e italiano: la conquista della lingua nazionale deve presentarsi come un progressivo allargamento del mondo culturale del bambino, che non sopprime, ma integra e supera la conoscenza esclusiva del dialetto. Qualche anno prima uno tra i più grandi grammatici italiani, Ciro Trabalza, sollecitava gli insegnanti ad addestrarsi nella ricerca linguistica, nella quale lo studio dell' italiano nasceva dal confronto sistematico col dialetto locale. Questi orientamenti saranno di fatto presenti, più o meno, nei programmi scolastici del dopoguerra, ma spesso, purtroppo, soltanto sulla carta: nonostante Don Milani, nonostante maestri d' avanguardia come Bruno Ciari e Mario Lodi, nonostante l' azione per una «educazione linguistica democratica» di Tullio De Mauro, la scuola italiana degli ultimi decenni è stata sostanzialmente antidialettale. E allora, la proposta leghista va nella giusta direzione? Hanno ragione Bossi, Calderoli e Borghezio? Certamente no. La proposta è dissennata e volgare, innanzitutto perché è mal formulata (l' idea del test è ridicola oltre che incostituzionale); inoltre, per la semplice ragione che tale proposta - ma non ci vuol molto ad accorgersene - non discende dal filone Ascoli, Croce, De Sanctis, Lombardo Radice, De Mauro (persone e idee di cui l' analfabetismo leghista è del tutto ignaro), ma alligna nell' avvelenamento progressivo e sottile che pervade ogni giorno di più il nostro Paese, dalle Alpi a Lampedusa. Una infezione profonda alla quale tutti reagiamo sempre più a fatica. È l' ideologia del chiudere piuttosto che dell' aprire, del dividere piuttosto che dell' unire. Ed è avvilente constatare che di una questione nobilissima come la comprensione della cultura tradizionale, che è cultura dialettale, voglia farsi garante la Lega. Una bambina veneta di otto anni, rispondendoa una mia domanda su quale fosse, secondo lei, la differenza tra lingua e dialetto, scriveva poco tempo fa: «Il dialetto ha la faccia scura», saldando così pregiudizio linguistico e pregiudizio razziale. Con la sua ennesima provocazione, la Lega sventola ora rivendicazioni linguistico-culturali regionali apparentemente giuste, rendendole indigeribili a causa della brodaglia di incultura xenofoba che le alimenta. - GIOVANNI RUFFINO

LA SCUOLA DEL DIALETTO NON CONOSCE LA CONTINUITÀ

Repubblica — 04 agosto 2009 pagina 8 sezione: NAPOLI

Avere a Napoli per i nostri figli e nipoti insegnanti lombardi e veneti che escludessero il dialetto napoletano, le opere, gli autori e gli artisti, non ci farebbe stare tranquilli.E pur essendo ben consapevoli del valore universale della lingua napoletana, della canzone napoletana, del teatro napoletano, non siamo tuttavia così partigiani da non riconoscere pari dignità a tutti i dialetti del Bel Paese. Ma le cose non stanno così; il problema che si pone, per fortuna, prescinde dalla provenienza geografica degli insegnanti. La chiave per risolvere alla grande questo problema di conoscenza e valorizzazione delle tradizioni locali e del dialetto bisogna trovarlo nel rapporto di una scuola con il territorio. In particolare si prestano a dare risposte soddisfacenti a tali richieste le relazioni intergenerazionali. Nella famiglia non c' è più tempo; spostiamoci a scuola: i nonni nelle aule con i loro documenti, i loro strumenti, i propri racconti. Anche gli insegnanti, da qualunque parte d' Italia provengano, non possono non partire nella loro programmazione da un' analisi del contesto in cui vivono i propri alunni, per la quale analisi ci vuole studio e, magari, momenti di aggiornamento; e non possono non privilegiare nei programmi di studio la storia e la geografia del territorio in cui è ubicata la scuola. Se gli insegnanti è meglio che siano del posto oppure no, è francamente una questione accademica; si può immaginare che in certe regioni gli abitanti abbiano trovato altre attività e professioni da svolgere, magari più redditizie o più gratificanti. Non sarebbe il caso di insistere troppo in un' epoca di globalizzazione e di circolazione dei lavoratori nei paesi membri dell' Ue. Così come è giusto chiarire, contro ogni vena razzista di proposte estemporanee, che i contesti di cui la scuola deve rispettare e valorizzare l' identità non sono solo i contesti territoriali, ma anche quelli più ristretti di comunità che si aggiungono a quella esistente, siano esse italiane, comunitarie o extracomunitarie. Occorre infine ricordare che la scuola, imitando in ciò i ragazzi, per sua natura non separa ma unisce, non preserva ma mette a confronto, non è rigida ma tollerante. Potremmo chiuderla qui. Se non fosse che la Gelmini, pensando di ridimensionare le polemiche suscitate dalle posizioni della Lega sul test di dialetto agli insegnanti, ha detto che alla fine queste persone vogliono solo garantita dalla scuola la continuità didattica ai loro figli. Non si è resa conto, il ministro, che se fosse vera la sua interpretazione, la risposta a questi genitori dovrebbe darla proprio lei. Con qualche difficoltà, perché non solo non ha fatto niente in tale direzione, ma ha operato in senso diametralmente opposto. La continuità didattica, cioè il diritto dell' alunno ad avere gli stessi insegnanti per tutta la durata del corso di studi, è messa in discussione solo in minima parte dallo spostamento degli insegnanti da una provincia all' altra, da una regione all' altra. Dei cento e passa prèsidi idonei che dalla nostra regione sono andati al Nord con grande costernazione della Lega, torneranno a casa a settembre appena una decina. La continuità è vanificata da incarichi annuali ai precari, che ogni anno raggiungono una sede diversa per totale incapacità dell' Amministrazione di gestire tale processo, e dalle scellerate scelte politiche in materia di organici con i noti tagli. In Campania siamo vicini agli ottomila posti tagliati, più di un quinto del totale nazionale: ma, si sa, la continuità, rivendicata per i loro figli dai leghisti padani, da noi sarebbe un lusso. I tagli comportano la mancata riconferma sui loro posti di tanti precari, il soprannumero di numerosi docenti di ruolo costretti a cambiare scuola, la mancata immissione in ruolo di migliaia di precari che perciò non vengono stabilizzati su un posto fisso. Senza dimenticare che gli effetti della cosiddetta riforma della scuola, con il maestro unico nella primaria, la ridefinizione delle cattedre nella secondaria, l' eliminazione secca delle sperimentazioni nelle superiori, rappresenteranno il più grave attacco alla continuità didattica nella storia della scuola italiana. Avrebbe fatto meglio la Gelmini, anziché avventurarsi in questo terreno per lei minato della continuità, prendere le parole della Lega per quello che sono; anzi accettare la sua proposta e far fare agli insegnanti la prova di dialetto. Magari in Calabria. Come fece lei per l' esame di procuratore legale. –

FRANCO BUCCINO

IL DIALETTO DELL' IMMIGRATO

Repubblica — 10 agosto 2009 pagina 23 sezione: R2

Fra le misure sulla sicurezza, una delle migliori è quella del test di lingua e cultura italiana per gli extracomunitari che chiedono il permesso di soggiorno. Dove si terrà l' esame? Chi saranno gli esaminatori? Commissioni ad hoc? Quali le domande? Sarebbe divertente una scenetta questurina da anni Cinquanta, con un poliziotto che intima: «E adesso, caro il mio extracomunitario, prova a ripetere: "Minchia, signor tenente"». Oppure, come test risorgimentale, ecco la prova suprema di recitare a memoria la filastrocca nazionale «Garibaldi fu ferito, fu ferito in una gamba...» (i più arditi, quelli che vogliono la lode, tenteranno anche la variante «Garabalda fa farata»). Ma è vero o no che la Lega insiste per introdurre lo studio dei dialetti e delle culture locali? E allora che c' entra il test di italiano? Occorrono test regionali, valligiani, pedemontani, lacustri, alpini, lombardo-veneti. E bisogna produrre l' edizione definitiva del poema nazionale della Padania, che gli immigrati reciteranno a memoria: «Crapa pelada ' l fa i turtèi, e ' l ne dà minga ai so' fradèi. I so' fradèi i fa la fritàda, e i ne dà minga a Crapa pelada». Unica versione autorizzata, quella di Roberto Calderoli. Su, carino, ripeti con me: «Crapa pelada...». –

EDMONDO BERSELLI
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Messaggio  Vittorio E. Polito Sab Ago 22, 2009 9:50 am

da LA REPUBBLICA

'Dialetto a scuola, idea eccentrica' Napoli (pdl) all' attacco della Lega

Repubblica — 17 agosto 2009 pagina 3 sezione: TORINO

LE INTEMPERANZE estive para-secessioniste della Lega Nord provocano reazioni polemiche anche nel Pdl piemontese. Ad attaccare il Carroccio sulla questione dialetto nelle scuoleè il vicepresidente dei deputati del Pdl, Osvaldo Napoli, uno dei possibili rivali del leader leghista Roberto Cota per il ruolo di sfidante di Bresso nella primavera prossima. «C' è un governo che sta operando bene su tutti i fronti - dice Napoli - Il ministro Gelmini sta introducendo riforme coraggiose nella scuola e la Lega ritiene che vada introdotto lo studio del bergamasco o del dialetto della val Trompia nella scuola. Sono personalmente e serenamente contrario. E non solo perché questo punto non fa parte del programma di governo». Napoli alza il tono polemico: «Sono contrario per la semplice ragione che anchei futuri imprenditori della Val Brembana faranno ottimi affari a Pechino o a Mosca o a New York, ma a condizione che sappiano esprimersi in inglese. Certo la tradizioneè importante, ma ci luoghi privilegiati - la famiglia, l' oratorio e in genere i luoghi della socializzazione - dove è bene conservare l' eredità del dialetto. Pensare invece che il dialetto stesso - chiude Napoli, ex sindaco di Giaveno - sia un prerequisito per ammettere un insegnante in graduatoria o ammettere un alunno in una classe, lo trovo, come dire, inutilmente eccentrico. Ciò non impedisce alla Lega di presentare la sua proposta: se troverà una maggioranza in Parlamento ne farà una legge. Altrimenti tutto resterà come prima». –

(m. trab.)

Nelle scuole del Piemonte il dialetto s' insegna già

Repubblica — 18 agosto 2009 pagina 9 sezione: POLITICA INTERNA

TORINO - «Scusa, puoi passarmi quella cadrega?». Sono dei bimbi alti così, tra i quattro e i sei anni, che ancora non hanno imparato bene l' italiano, ma a volte si parlano in piemontese. Merito di Renato, maestro di dialetto che, con un' ora di lezione ogni lunedì, ha insegnato un po' della lingua dei loro nonni ai giovani alunni della materna privata Saint Denis di Torino. La direttrice, Angela Borello, si è stupita del clamore sollevato dalla proposta della Lega: «Il corso di dialetto? Veramente noi lo facciamo già da tre anni, e con ottimi risultati». Niente indottrinamento culturale, più che altro tanto divertimento: «I nostri bambini, racconta la dirigente, hanno conosciuto i nomi degli animali, ascoltato favole, imparato filastrocche e canzoni. E il corso è piaciuto tantissimo, sia a loro che alle famiglie. Ai piccoli serve perché il piemontese ha una vocalizzazione diversa rispetto all' italiano, utile per imparare altre lingue». Un anno intero di corso e alla fine anche un diplomino di partecipazione. Patrizia, mamma di Lorenzo, uno dei "neo diplomati", conferma l' entusiasmo: «A mio figlio è piaciuto molto e anche a me fa una certa tenerezza sentire le espressioni che mia mamma usava quando ero piccola io. Forse non è utile, però è un bel ricordo del passato». La Saint Denis è solo una delle decine di scuole che offrono corsi di piemontese. Lezioni finanziate dalla Regione (circa 200 mila euro l' anno) dopo un accordo firmato col ministero nel 2004 dall' ex assessore leghista Gipo Farassino. Che però precisa: «Resto convinto che il dialetto sia molto importante per i giovani. Ma sono del tutto contrario a renderlo obbligatorio: sarebbe come imporre una religione». -

(ste.p.)



Dialetto a scuola e inno di Mameli il Pdl ligure boccia le proposte di Bossi

Repubblica — 18 agosto 2009 pagina 3 sezione: GENOVA

GIÙ le mani dall' inno di Mameli e dalla bandiera italiana: gli esponenti del Pdl ligure non sono in sintonia con gli alleati della Lega e il loro leader Umberto Bossi quando si tratta di simboli dell' unità nazionale. E se la difesa del dialetto, invece, li accomuna, quasi nessunoè d' accordo nel farlo diventare una materia di studio a scuola, tutt' al più una materia integrativa. E a nessuno piace l' idea che l' inno del genovese Goffredo Mameli possa essere archiviato a favore del Va' pensiero di Verdi. E tantomeno che il tricolore possa essere affiancato, nella Costituzione, alle bandiere regionali. Il senatore Enrico Musso boccia tutto e non spreca fiato a commentare le tre proposte estive del senatur. Ride e dice: «Commenterei così: Umberto, fa caldo. Non ho altro da aggiungere». Sandro Biasotti, parlamentare del pdl, candidato alla presidenza della Regione, fa un ragionamento più articolato ma il messaggio è chiaro: «L' inno di Mameli è sacro. Poi, ognuno può cantare quello che vuole, ma l' inno è quello. Le bandiere regionali? Possono anche affiancare il tricolore ma mai sostituirlo». Gianni Plinio, consigliere regionale del Pdl, ricorda che Mameli era genovese: «Genova è una città di solide tradizioni risorgimentali: sull' inno e sul tricolore non si può né transigere né scherzare. Sono i simboli identitari degli italiani». Anche Plinio trova una spiegazione meteorologica: «Le proposte di Bossi? Mi dicono che in Padania il sole sia bollente». Sul dialetto a scuola Plinio è possibilista: «Mi risulta che in Liguria la prima e unica legge che assegna piccoli incentivi ai Comuni che fanno insegnare il dialetto porta la firma di un consigliere dell' Msi, Nuccio Chierico». Il parlamentare Giorgio Bornacin non condivide le opinioni di Plinio sul dialetto («Difendere il dialetto va bene, ma l' insegnamento a scuola non è la strada»), ma approva quelle sull' inno: «Quello di Mameli non sarà il più bello del mondo ma va onorato e rispettato. Trovo lodevole che Ciampi nel suo settennato abbia rilanciato la tradizione di cantarlo nella manifestazioni». Il deputato Roberto Cassinelli aggiunge: «Cambiare l' inno non si può. Le bandiere delle Regioni nella Costituzione? No, il tricolore è il simbolo dell' Italia». Invece Cassinelli è d' accordo sull' insegnamento scolastico del dialetto. Lui qualche anno fa da consigliere comunale aveva proposto che ogni tre sedute di consiglio comunale se ne tenesse una in genovese. Tutti d' accordo dunque, anche Alberto Gagliardi, consigliere comunale del Pdl a Genova. Dice: «I temi posti da Bossi sono culturali e non politici. Detto con franchezza, il Va' pensiero è più bello dell' inno di Mameli però resterebbe il problema pratico di come fare per sostituirlo. Bossi come sempre dice cose che molti sentono però la sua ricetta è come sempre avventurosa». Sulle bandiere regionali, Gagliardi si dichiara «assolutamente contrario». E aggiunge: «È un non senso proprio nell' ottica del federalismo di Bossi, che si deve basare sugli enti più vicini al cittadino, cioè i Comuni, non le Regioni. Mettere le bandiere regionali nella Costituzione è una sciocchezza non federalista». Gagliardi è caustico anche quando si tratta di dialetto: «Intanto bisognerebbe imparare bene l' italiano. Nelle scuole italiane non c' è tempo neppure per insegnare l' italiano e le lingue straniere, figuriamoci il genovese». –

AVA ZUNINO

In quale dialetto devo guardare la tv?

Repubblica — 19 agosto 2009 pagina 26 sezione: COMMENTI

Silvana Perotti silvanaperotti@virgilio.it VIVO da molti anni a Napoli, ma sono piemontese doc, da decine di generazioni. Cosa mi compete la televisione regionale campana o quella del Piemonte? Le trasmissioni in napoletano o quelle in dialetto piemontese? E...il dialetto di Torino o quello delle Langhe? Prego vivamente l' Onorevole Zaia di illuminarmi in merito.
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DIALETTO BARESE E DINTORNI: NOTIZIE, APPUNTAMENTI, INFORMAZIONI, NOVITÀ ED ALTRO - Pagina 2 Empty RE: BENVENUTO ALL'AMICO DISCIADISCE2009 E ???

Messaggio  Ospite Sab Ago 22, 2009 11:01 am

Ringrazio l'amministratore signor Franz Falanga per il benvenuto e per i saluti che benevolmente mi rivolge e che ricambio anche agli altri forumisti.
Con mail personale ho inviato i miei dati così come richiesti, ma ritengo non proprio indispensabili.
Vorrei anche porre una domanda in relazione alla nota odierna Adelante cum juicio. Ma chisse sò cose ca se mangene o se bevene. Sembra che sia latino ma che c'entra con il nostro dialetto barese. Ritengo che dovremmo indirizzarci sul dialetto barese e quant'altro senza fare citazioni in altre lingue che sia inglese, francese o latino. Comanacosaellalde ha come sottotitolo "Dialetto barese" e quindi dovrebbe essere consentito solo il dialetto e l'italiano, non altro secondo me.
L'Admin, se funziona, dovrebbe intervenire in merito e far capire ca ddò stame tra nu e nu e non occorre a ffà u decchiù. Conosciamo a malapena l'italiano, meno il dialetto, altrimenti non servirebbe proprio a nulla il Seminario.
Mi sorprende invece il "vergognoso spettacolo" denunciato dal signor Polito in merito al comportamento di un forumista, censurato anche dalla presidenza. Allora ddò sta la uerre, non u studie du dialètte. O mi sbaglio? Da quello che leggo sul sito noto contraddizioni e diatribe che evidenziano molto bene comportamenti non proprio civili da parte di qualcuno.
Pe mmò salute a tutte
disciadisce 2009

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DIALETTO BARESE E DINTORNI: NOTIZIE, APPUNTAMENTI, INFORMAZIONI, NOVITÀ ED ALTRO - Pagina 2 Empty BENVENUTO ALL'AMICO DISCIADISCE2009 E???

Messaggio  felice.alloggio Lun Ago 24, 2009 9:59 am

Care disciadisce,
certo che ti sei scelto un nickname adattissimo!
Benvenuto e speriamo che il prossimo iscritto al forum non si chiami Appicciafuèche!!!
Felix
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DIALETTO BARESE E DINTORNI: NOTIZIE, APPUNTAMENTI, INFORMAZIONI, NOVITÀ ED ALTRO - Pagina 2 Empty RE: Felice Alloggio e MondoAnticoTempimoderni

Messaggio  Ospite Lun Ago 24, 2009 6:56 pm

Saluto e ringrazio il signor Felice Alloggio per il suo benvenuto. Jà disce la veretà, me piasce u avatar (se disce adacsì?) de signerì. Chedda varchecedde significa ca sì asseduàte e uè scì lendàne e chiane chiane, senza cazzà le pijte a nesciùne.

A MondoAnticoTempimoderni jà disce che quanne sò viste u titele so penzate a favètte e linguine e mbèsce iere n'alda cose (na parole de mene e retirate a caste).
In ogni caso "Errare umanum est, sed perseverare diabolicum" (Sbagliare è umano, ma perseverare è diabolico), e pure jì mò stogghe a fa nu corse pe mbaramme u latine, pure percè qualche volde so sendute la messa nova in latine e adacsì pozze responne a Nicola Cutine.

Comunque state facendo i sapientoni con latino, citazioni dotte, ecclesiastiche, ecc., mi sembra di trovarmi in un'aula scolastica o, pardòn, universitaria. Abbasciàte nu picche la cape (in italiano mi pare si dice: siate modesti) e non facite le prefessure.
E mò l'ammenghe pure jì na strascèdde:
stultorum infinitus est numerus (infinita è la schiera degli sciocchi) (Ecclesiaste, cap.I, v. 15) e ci s'ha viste s'ha viste.

Disciadisce

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DIALETTO BARESE E DINTORNI: NOTIZIE, APPUNTAMENTI, INFORMAZIONI, NOVITÀ ED ALTRO - Pagina 2 Empty Re: DIALETTO BARESE E DINTORNI: NOTIZIE, APPUNTAMENTI, INFORMAZIONI, NOVITÀ ED ALTRO

Messaggio  Vittorio E. Polito Mar Ago 25, 2009 9:01 am

Cari amici,

se mi consentite, state un po’ esagerando con le vostre argomentazioni che mi sembrano più provocazioni che altro, soprattutto quelle di Disciadisce. Non tocca a me intervenire sulla questione, dovrebbe farlo l’Admin, ma poiché Disciadisce e Cutino richiamano il «presunto “vergognoso spettacolo”», (sottolineo che nel mio testo è virgolettato solo spettacolo), da me denunciato, del quale sono stato anch'io testimone, va detto che lo stesso fatto è stato e censurato dallo stesso Cutino che testualmente scriveva «… ha turbato, momentaneamente, il sereno e costruttivo svolgimento dei Lavori del Seminario di Studio e di Approfondimento sul Dialetto Barese». Questo è stato anche uno dei motivi del mio allontanamento dal Seminario. Infatti la presenza di qualche disturbatore e provocatore, più che collaboratore, adombra non poco il meritorio lavoro del Seminario e di quasi tutti i componenti.


Ricordo poi a Cutino che in data 18 marzo 2009, il signor Sergio Guglielmi scriveva, tra l’altro,:
«… il sottoscritto Sergio Guglielmi, anche a nome dell’associazione Mondo antico e tempi moderni, della quale occupa il ruolo di Segretario, intende interrompere la collaborazione con questo Forum, se non interverranno elementi chiarificatori dettati da serie motivazioni e dal rispetto verso le regole di ogni luogo di discussione, dove per prima sopravvalga su tutto la buona educazione e il rispetto reciproco...».

E questa fu la mia risposta: «Per quanto riguarda poi il suo avvertimento (?) di interrompere la collaborazione con il Forum da parte dell’Associazione Mondo Antico e Tempi Moderni, questa fa proprio ridere i polli, poiché la decisione spetta al Consiglio Direttivo e/o al presidente dell’Associazione, non certamente a lei che è solo un componente (anche questo è arrogarsi diritti che non le spettano)». Polito 19 marzo 2009
Oggi leggo: «La presenza dell’Associazione su Comanacosaellalde, frattanto, si limiterà ai soli Comunicati Stampa delle Convocazioni e alla diffusione dei Verbali delle Assemblee del Seminario di Studio ed Approfondimento sul Dialetto Barese». Cutino 24 agosto 2009

Allora mi viene da chiedere quante volte volete interrompere la collaborazione? Chi decide nella vostra Associazione? Chi prima si alza?
Un cordiale saluto a tutti
Vittorio Polito
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DIALETTO BARESE E DINTORNI: NOTIZIE, APPUNTAMENTI, INFORMAZIONI, NOVITÀ ED ALTRO - Pagina 2 Empty INTERVENTO DI ANGELO TEDONE SUL DIALETTO

Messaggio  Vittorio E. Polito Mer Ago 26, 2009 9:54 am


DA LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO DEL 26 AGOSTO, PAG. 16


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Messaggio  Vittorio E. Polito Sab Ago 29, 2009 10:34 am

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Messaggio  Vittorio E. Polito Dom Ago 30, 2009 7:45 am

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NON SI PUO' CHE ESSERE D'ACCORDO CON CAMILLERI
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Messaggio  Vittorio E. Polito Dom Ago 30, 2009 7:56 am



da
LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO.it

17 agosto 2009


L’arte del Sud spopola in vernacolo

Carpino, Arbore, Signorile, Piva: gli artisti che hanno reso celebri i dialetti pugliesi e lucani


di ENRICA SIMONETTI

Su una cosa Bossi ha ragione: il dialetto è musica. Ma anche teatro, chitarra, ballo. Il festival più «trendy» d’Italia è quello della Taranta che è in corso nel Salento e che ha portato a livelli internazionali non solo la pizzica ma anche i suonatori di tamburelli, le piccole compagnie di cantanti, i ritmi e i suoni del sud. L’Orchestra della Taranta ormai gira il mondo e lo stesso organizzatore Mauro Pagani (ex Pfm) è strabiliato dalla grande forza dei ritmi salentini (quasi sempre accompagnati con testi in dialetto salentino) e da quanto riescano a piacere alla gente. Ma non c’è solo il morso dei tarantolati, perché la Puglia della musica è tutta un dialetto, anche nei Sud Sound System: il loro T’ à sciuta bona lo hanno cantato per un decennio persino i milanesi doc e il successo del gruppo che mixa ritmi giamaicani al salentino stretto è praticamente internazionale. Tra l’altro, oltre al dialetto, il gruppo porta in giro i problemi del Sud e in uno degli ultimi singoli, dal titolo Dane culture, si denuncia l’inquinamento del Sud, tutto mare e centrali. Altro che leghisti anti-dialettali. La musica dei Cantori di Carpino è uno dei generi più amati dai palati musicali raffinati, per non parlare di Matteo Salvatore, dei Radicanto e di tutto il foggiano-parlato che da Renzo Arbore in poi ha trovato fortuna nel Belpaese. Anche i lucani hanno avuto i loro «tarantolati », con Antonio Infantino e i nuovi gruppi, come quello legato a Roy Paci, i Krikka Reggae. Passiamo al teatro che vanta grandi opere e nomi eccelsi del vernacolo barese con autori come Vito Maurogiovanni o Vito Signorile, ma anche il teatro lucano di Gigino Labella e Gerardo Bavusi. Ma questo solo per citare alcuni contemporanei, dato che il dialetto è presente, passato e futuro. Anche quello che Carmela Vincenti, Toti & Tata e di tanti altri che lo hanno portato in tv. Per non parlare dell’ormai internazionale Lino Banfi. Il cinema è poi un fenomeno a parte: il film Lacapagira di Alessandro Piva, tutto in dialetto barese strettissimo, è stato tradotto in una decina di lingue e viene visto in mezzo mondo. Lo stesso vale per registi come il salentino nato nel paesino di Depressa, Edoardo Winspeare, il quale, anche se sale sul palco di un festival internazionale, dice: Amo lu Salentu. E chi se ne frega dei lumbard.


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DIALETTO BARESE E DINTORNI: NOTIZIE, APPUNTAMENTI, INFORMAZIONI, NOVITÀ ED ALTRO - Pagina 2 Empty DAL CORRIERE DELLA SERA DEL 28 AGOSTO 2009, PAG. 8

Messaggio  Vittorio E. Polito Dom Ago 30, 2009 10:28 am

Il personaggio Il regista ha realizzato il suo ultimo film in siciliano

«Sì al dialetto. Ma la Lega ne fa un uso razzista»

Tornatore: giusto insegnarlo a scuola senza però impedire che i docenti del Sud stiano al Nord. Un conto è preservare la cultura e l’ identità dei territori, un altro è escludere chi viene da fuori

Tornatore, mercoledì prossimo la Mostra di Venezia apre con il suo nuovo film, Baarìa. «In siciliano: Bagheria. Il mio paese». Perché la scelta del dialetto? «Non è stata una scelta. È stato istinto. Un certo luogo, una certa storia, certi personaggi non avrebbero potuto parlare altro che dialetto. I produttori hanno capito». Gli spettatori capiranno? «Ci siamo posti il problema. E abbiamo deciso di non ricorrere ai sottotitoli. Così il film avrà due versioni: la prima in siciliano, la seconda doppiata in italiano». Mentre lei lavorava al montaggio del film, la questione del dialetto è diventata politica. «Non c' è dubbio che il patrimonio dialettale italiano sia straordinario. Ma la Lega ne fa un uso fuori luogo, al servizio di concetti secessionistici, antiunitari, razzisti». Lei farebbe studiare i dialetti a scuola? «Sì. E' giusto conservarli. Affiderei l' insegnamento dei dialetti a personale specializzato, in una scuola moderna, che dia ai ragazzi gli strumenti - a cominciare dall' inglese - per inserirsi nel mondo globale. Ma introdurre test di conoscenza del dialetto è palesemente un modo per impedire ai professori del Sud di insegnare al Nord. Una cosa talmente assurda da divenire irrealistica, e quindi provocatoria». I "moderati" della Lega sostengono che si tratta solo di verificare se gli insegnanti conoscono la storia e le tradizioni del luogo. «Un conto è preservare la cultura e l' identità dei territori; un altro è escludere chi viene da fuori. La difesa dei dialetti è antica e nobile: risale alla scelta idiomatica del Manzoni, che individuando la lingua della nuova nazione italiana poneva la necessità di salvare le altre. I più grandi critici della nostra letteratura, De Sanctis e Croce, erano legatissimi ai loro dialetti. Negli Anni 70, con l' unificazione linguistica imposta dalla tv, il tema tornò di moda. Io sono favorevolissimo. Ma un' istanza giusta non va usata in modo strumentale. Oltretutto, il bello della cultura locale è che cambia di villaggio in villaggio, di quartiere in quartiere». Anche a Bagheria? «Il dialetto del mio paese, e del mio film, è già diverso da quello di Palermo e molto diverso dal catanese, dal siracusano, dal girgentino. Parole siciliane sono entrate nel linguaggio comune: tutti sanno cosa sono i "piccioli". Ma se dico che una stoffa è "camuluta", forse neppure a Caltanissetta sanno che vuol dire mangiata dalle tarme». Più difficile del test della "cadrega" di Aldo, Giovanni e Giacomo. «E comunque, quando negli Anni 60 Ignazio Buttitta portava nei teatri di tutta Italia le sue poesie in siciliano, lo capivano anche in Lombardia. Magari sfuggiva la singola parola, ma il senso veniva colto. Il dialetto, coniugato con la musica, può avere una sua universalità». I lombardi o i veneti potrebbero essere stanchi di avere soprattutto insegnanti, poliziotti, medici venuti dal Sud. «Se l' insegnante è preparato, il poliziotto è giusto, il medico è bravo, ne saranno ben contenti. In caso contrario, si lamenteranno con ragione. Ma non mi pare una questione d' accento. La verità è che gli emigranti ci sono ancora. Non hanno più la valigia di cartone; sono laureati che vengono al Nord a insegnare per due lire. Prendersela con loro, agitare il dialetto come una bandiera, nasconde una difficoltà politica». Le ultime elezioni indicano che la Lega è in ottima salute. «Ma ha fatto promesse impegnative. Ora ha bisogno di alzare la voce, per far dimenticare che le promesse non sono ancora state mantenute. A costo di creare falsi storici. Perché non esiste una continuità culturale che unisca davvero il Nord, così come non esiste una lingua padana. Un insegnante di Genova che affrontasse il test di dialetto a Trieste faticherebbe come un napoletano a Milano». Il divario tra Nord e Sud continua a crescere? O le "due Italie" si assomigliano più di quanto non si creda? «Ma certo che si assomigliano. Non c' è un paese diviso in due; c' è qualcuno che vorrebbe dividerlo. Nessuno però crede più all' idea di un Mezzogiorno in eterna decadenza e di un Settentrione dove tutto funziona. I problemi del Sud sono gli stessi del Nord, dalla crisi economica alla legalità; e si risolvono insieme. Mi pare difficile che possa risolverli un governo tenuto sotto botta da un partito localista». Berlusconi, sceso in campo da uomo del Nord e presidente del Milan, ha sfondato al Sud. La Sicilia è il granaio del Pdl. E il Cavaliere si è molto affezionato a Napoli, forse anche troppo. «Non è la prima volta che il Sud si consegna a chi gli promette mari e monti. Ma le cose stanno cambiando; alle ultime elezioni, il Pdl non ha preso in Sicilia i voti che si attendeva». La sinistra ha avuto la sua chance, anche al Sud, e l' ha fallita. O no? «La sinistra ha prodotto il meglio della cultura meridionalista. Ora però langue in una grave crisi. E l' impotenza dimostrata al Sud è una delle ragioni della grande impasse della sinistra italiana». Che cosa pensa del governatore Raffaele Lombardo? «Il suo agitarsi, il suo distinguersi, il suo mettere le mani avanti mi sembrano la prova delle difficoltà della maggioranza di centrodestra». Lei è favorevole al Ponte sullo Stretto? «In linea di principio, non sono mai stato contrario. Ma l' esperienza di come funzionano i lavori pubblici in Italia, e il pensiero di quanti decenni occorrerebbero, mi fanno una gran paura». Resta il fatto che tutti i "Sud" d' Europa sono fioriti, l' Irlanda è più ricca dell' Inghilterra, la Spagna ha avuto il suo boom; solo il Sud d' Italia attende ancora il riscatto. «Sì, ma non dimentichi l' enorme potenzialità del nostro Sud, che da Roma in giù custodisce quasi metà del patrimonio artistico e archeologico del mondo. In teoria, è il luogo più adatto dove investire; eppure il governo ha spostato sul Nord risorse destinate al Mezzogiorno. La discontinuità politica è tale che nessuno ha il tempo di realizzare i programmi. L' Italia pare un piccolo comune, dove gli assessori restano in carica pochi mesi; e la responsabilità non è mai di nessuno». Aldo Cazzullo RIPRODUZIONE RISERVATA La scheda Il film L' ultimo film del regista siciliano Giuseppe Tornatore s'intitola «Baarìa» (Bagheria) e aprirà la Mostra del cinema di Venezia il 2 settembre. Il film avrà una versione in italiano e una in dialetto Il cast I due protagonisti sono Francesco Scianna e Margareth Madè. Nel cast, fra gli altri, Nicole Grimaudo, Luigi Lo Cascio, Enrico Lo Verso e Gabriele Lavia

Cazzullo Aldo

Pagina 8
(28 agosto 2009) - Corriere della Sera
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DIALETTO BARESE E DINTORNI: NOTIZIE, APPUNTAMENTI, INFORMAZIONI, NOVITÀ ED ALTRO - Pagina 2 Empty ANCORA SUL DIALETTO - DA AVVENIRE DEL 23 FEBBRAIO 2009

Messaggio  Vittorio E. Polito Dom Ago 30, 2009 2:10 pm

AVVENIRE

23 Febbraio 2009
Cultura

Dialetto alla riscossa
Il futuro linguistico del nostro Paese vedrà convivere un cattivo italiano e un cattivo inglese? Una grande iniziativa rilancia un’espressione linguistica niente affatto dimenticata, nonostante la tv. Con grandi attori, poeti e cantanti che si schierano a sua difesa.

Davide Van de Sfroos

«È l’anima nobile di un popolo, guai a vergognarsene»

Ci fosse una Nashville italiana lui salirebbe sul palco acclamato come Johnny Cash. Non canta però le vallate del Tennessee come i folk singer o i menestrelli country: la sua musica si porta dietro invece gli umori della sua gente e le storie che i venti tramandano sulle coste del lago di Como. Davide Van de Sfroos, nato Davide Bernasconi, porta già nel nome d’arte il dialetto come lingua d’elezione delle sue ballate. «Vanno di contrabbando» o «vanno di frodo», questo significa: un riferimento esplicito a quei mitici avventurieri che lungo il confine tra la Svizzera e il comasco, facevano del contrabbando un’arte e un mestiere. Cantautore osannato come un mito locale dai lariani, Van de Sfroos fa il balzo verso una platea nazionale con il suo ultimo album Pica!. E l’Italia fa la conoscenza del laghée.

È una variante del comasco, ma quale è la sua particolarità?
«È fantastico dal punto di vista metrico e ritmico. È diretto, più duro, con le "u" simili al sardo o al rumeno, è molto roots, radicale. Ti permette di sperimentare vie musicali ardite. Ha sfumature rock ’n roll, oniriche, etniche. È fatto di magia e di mistero. Ha ascendenze francesi, spagnole, celtiche. Ha tante influenze dentro, eppure è qualcosa di unico. Le sue vocali molto trascinate e le forti troncature possono ricordare alcune varianti del francese. A New Orleans pensavano fosse il cajun dei francesi canadesi immigrati in Louisiana, oppure, visto il cognome, il fiammingo».

Come lei, molti altri musicisti che cantano in dialetto sono in prima fila nella difesa della propria lingua territoriale. Il miglior modo per preservarla?
«Il dialetto è una lingua che è esistita prima di noi. Ha un retaggio di influenze e di testimonianze immenso. Sarebbe un errore collocare il dialetto dentro una bacheca perché non sarebbe più una cosa viva. È chiaro che se tieni alla conservazione del territorio, al patrimonio culturale e naturale, non puoi non fare la stessa cosa con il dialetto che è l’anima nobile di un popolo. L’errore che si fa è quello di accomunarlo al popolaresco o al vezzo goliardico, invece c’è tutto un mondo che in dialetto si esprime: c’è gente che è nata, vissuta e morta parlando il dialetto, che ha tramandato storie del luogo in questa lingua perché ha tutta una gamma di espressioni e di sfumature adatte. È popolare e con l’espressività immediata delle persone che si trovano in uno stato confidenziale. Parlarlo per tenerlo vivo: è l’unico modo per salvare il dialetto».

Chi sono i nemici del dialetto?
«Prima il dialetto veniva associato alla vergogna. Oggi invece nelle scuole mi invitano a parlare dell’importanza culturale del dialetto. E spesso a invitarmi sono le stesse maestre che prima si raccomandavano con i genitori di non parlare in dialetto per evitare gli strafalcioni in italiano dei figli. Forse si sono rese conto di cosa potevano perdere. Il problema oggi è che sta diventando una cosa di nicchia destinata a scomparire, e custodirlo è difficile perché con l’avvento dei nuovi media si parla tanto l’inglese».

Pensa che solo il dialetto possa raccontare le storie delle sue canzoni?
«Appena entri in un paese la prima cosa che noti è l’accento e la cadenza. Ecco, il dialetto è la credibilità necessaria per raccontare in maniera iperrealista la storia avvenuta in quel luogo. E nelle mie storie i personaggi sono eroi semplici, persone al limite della legalità e della società, borderlines, sciagurati dalla vita politicamente scorretta ma con una visione della vita affascinante e che a modo loro hanno lasciato dei segni. Il dialetto è l’integrità di questa tradizione».

Nel mondo della discografia, però, la canzone dialettale sembra considerata, con diffidenza, musica in italiano minore. Forse perché c’è un limite regionale nel comprenderla?
«Non credo. L’errore delle radio e dei produttori di dischi è quello di fare l’equazione dialetto=canto delle mondine e folklore di paese. Invece basta pensare a cosa ha fatto De André con il gallurese e il genovese. Il dialetto è identità ma non è un muro di divisione. In tutte le regioni dove siamo stati in concerto, abbiamo avuto successo e affetto. Guardavano a noi con la curiosità che si riserva a musicisti che vengono da un determinato territorio e si esprimono nella lingua di quel territorio. È un destino comune a tutti i cantanti dialettali. Poi se guardi a nomi come i 99 Posse, iTazenda, i vari gruppi salentini, noti come le contaminazioni rock, blues, reggae li fanno amare anche fuori dalla propria regione. Anche all’estero, dove ognuno porta un pezzo d’Italia. Fa ridere, ma una volta mi trovavo in una radio di Berlino e mi hanno paragonato a Youssou N’Dour: io che in Italia sono considerato un cantante del profondo nord».



Franco Branciaroli
«Demonizzato a scuola, rinasce a teatro»

Dopo ilDon Chisciotte, Franco Branciaroli si calerà di nuovo nelle vesti classiche e già più volte indossate dell’Edipo re, in una versione diretta da Antonio Calenda, che debutterà il primo aprile a Messina. Intanto, il 7 marzo, il regista e attore sarà al festival del dialetto di Milano a leggere le poesie di Delio Tessa, Carlo Porta, Franco Loi e altri grandi autori della poesia milanese. Lui che, nonostante con la parola giochi e sperimenti, racconta di non aver mai affrontato il teatro dialettale.

Eppure, proprio in una sua riduzione dell’«Edipo re» c’era un personaggio che parlava uno strano dialetto…
«Quello è stato un piccolo spettacolo che ho fatto in una località di mare, sulla spiaggia delle Marche, un paio di anni fa. E per il ruolo del Nunzio, che pronuncia il prologo e l’epilogo, ho voluto a interpretarlo un attore che con una specie di dialetto meridionale, un po’ calabrese, rievocava un tipo di teatro medioevale, ancestrale, adatto a un’atmosfera pre-classica e greca».

E ora invece reciterà i versi dei poeti dialettali della sua Milano. Ma in una città così inserita nel processo globale, e dove è più facile sentir parlare in inglese e in cinese che in milanese doc, cosa ne è rimasto del dialetto?
«Non si usa più, questo è certo. È stato combattuto in tutti i modi e a livello nazionale. Ricordo quando ero piccolo che a scuola facevano di tutto per non farci parlare il dialetto. Anche in tv c’era un martellamento continuo contro questa eredità linguistica. Non so dire, però, fino in fondo se sia stato più un bene che un male. Perché non è che al dialetto si sia sostituito un ottimo italiano. Forse a parlare il dialetto è rimasta solo la mia generazione, dai sessant’anni in su. Io per esempio lo parlo. Anzi, io ho parlato prima il dialetto che l’italiano. Il mio cervello si è formato in dialetto, e si dice che il nostro carattere si forgia a seconda della prima lingua che si parla».

Considera il dialetto milanese una lingua? Che caratteristiche ha?
«No, non posso prendermi la responsabilità di definirlo una lingua. Il milanese, quello che ne è rimasto, è molto dolce, è un miscuglio di suoni francesi e tedeschi: un dialetto complesso, pieno di sfumature e di echi, arioso, capace di fare grande poesia. Bisogna, però, distinguere tra il milanese e il dialetto di cintura che, invece, è più pesante. In verità, a me sembra che, nella zona di Milano, solo i legnanesi ormai tengano al dialetto e alla sua conservazione. Io sono un grande fan della compagnia dei Legnanesi (fondata da Felice Musazzi, ndr), anche se ormai in tutti gli autori che fanno dialetto c’è una certa tendenza all’italianizzazione, per farsi comprendere meglio».

Proprio nel teatro italiano del Novecento il dialetto ha trovato grande linfa. Per esempio, lei ha lavorato con il milanese Giovanni Testori…
«Sì, in Testori il dialetto c’era, ma era poco. Lui rimescolava tutto in un originale gioco linguistico: idiomi antichi, lingue morte e contemporanee, in un insieme più complesso, più ricco e più affascinante. Sono, invece, i luoghi di Testori che rievocano quel linguaggio. Perché spesso racconta di ambienti della città dove ancora si parlava molto il dialetto.
Penso, piuttosto, che il teatro italiano abbia continuato a conservare una buona tradizione dialettale nei grandi attori: i genovesi come Gilberto Govi, o i toscani e i bolognesi. Poi naturalmente c’è la scuola napoletana. Per loro, sì, che il napoletano è una vera e propria lingua».

Due nomi che accomunano teatro e dialetto: Goldoni e Eduardo De Filippo…
«Al tempo di Goldoni il veneziano era l’inglese di oggi. Dato che la Serenissima aveva rapporti commerciali con tutti i paesi, era la lingua più parlata e più potente d’Europa. E Goldoni è stato un inarrivabile innovatore proprio perché introduce la vita della nascente borghesia nel teatro, con i suoi stili, i suoi modi e la sua parlata. Nell’uso della lingua, e non solo, nessuno è stato così grande e dopo di lui si è fatto sempre meno uso del dialetto come espressione teatrale. Eduardo, invece, è un drammaturgo del Novecento che sfrutta una lingua familiare perché i contorni del suo teatro sono i contorni della piccola borghesia napoletana. La sua base è la farsa, i quadretti realistici a cui ben si adatta quel linguaggio casalingo».


Tonino Guerra
«Ma come il latino è destinato a morire»Nel piccolo comune di Pennabilli, tremila abitanti nel Montefeltro marchigiano, dove vive dal 1989, è facile immaginarlo a parlare il suo romagnolo nelle locande, tra gli avventori dei bar e nelle piazze. Mentre racconta di Fellini, di Antonioni e della dolce vita romana. Quel dialetto, Tonino Guerra, se l’è portato dietro per tutta la vita, da quando, giovane intellettuale di Santarcangelo di Romagna, faceva parte di un gruppo chiamato E’ circal de giudeizi (Il circolo della saggezza) che contava, tra gli altri, Raffaello Baldini e Nino Pedretti: anche loro, come lui, poeti dialettali. Santarcangiolesi tutti e tre, hanno esplorato la potenza comunicativa del verso romagnolo, trasformando in lirica la parlata "terrosa" della vita di paese. Un dialetto poetico, secondo Tonino Guerra, che di recente è arrivato a parlarlo fino in faccia a Omero, rivisitando come un cantastorie contadino il viaggio di Ulisse, in Odiséa. Viaz de poeta sa Ulisse. E dopotutto è da quella tradizione orale, dal cantore greco al vecchio narratore popolare, che vede arrivare la lingua dialettale, fatta di voci comuni e piena di una poesia particolare: rivolta ai ricordi dolci e alle impressioni dure di tutta una vita.

Quando ha iniziato a scrivere in dialetto?
«Durante la prigionia a Troisdorf, in Germania, dove ero stato deportato. Avevo ventidue anni e mi ritrovai con alcuni romagnoli che ogni sera mi chiedevano di recitare qualcosa nel nostro dialetto. Allora scrissi per loro tutta una serie di poesie in romagnolo. Sentire parlare la propria lingua li aiutava a resistere alla sofferenza e alla paura. Poi, in Italia le feci leggere a Carlo Bo, gli piacquero e mi fece la prefazione alla primo raccolta di poesie, pagata di tasca mia e intitolata I scarabócc ("Gli scarabocchi"). Era il 1946 e fu un gran successo».

Il suo amico e collega Nino Pedretti ha scritto: «Il dialetto sta per morire, è ormai agli sgoccioli, chiuso nei paesi dell’interno e travolto dalla lingua di mass-media». La vede così anche lei?
«Sì, il dialetto è una lingua che scomparirà presto. E in futuro vivremo solo con un cattivo italiano e con un cattivo inglese. Anzi, dico di più, anche l’italiano è in pericolo: perché andiamo verso una lingua unica. C’è una tendenza commerciale che fa economia di linguaggio e rende tutto uguale. È l’omologazione in atto».

Lei definisce il dialetto una lingua…
«E lo è. Deriva dal latino come molte altre lingue e come il latino è destinata a morire. È l’unica grande lingua conosciuta, un tempo, dall’ottanta-novanta per cento delle persone. È la lingua della civiltà contadina, e non solo. I grattacieli sono stati eretti da parole in dialetto, da persone che tra loro comunicavano in dialetto. Adesso, il dieci per cento o meno degli italiani sa parlare bene l’italiano, mentre prima, il novanta per cento della gente parlava alla perfezione il dialetto e sapeva difendersi anche in modo poetico, molto più ampio, perché conosceva ogni singola parola e i suoi diversi significati».

E, nella poesia e nella letteratura italiana, quale è stato il contributo del dialetto?
«Immenso. Pensi solo a che cosa ha dato Carlo Goldoni, con il suo veneziano. Pensi a Tessa e agli altri grandissimi poeti milanesi. Oppure a Salvatore Di Giacomo e poi a tutta la canzone napoletana. Io credo che l’unica grande speranza rimasta sia il fatto che il dialetto sicuramente vivrà a Napoli e a Venezia. Sono le due sole grandi città che conserveranno negli anni questa voce del cuore, questa voce sudata».


a cura di Ilario Lombardo


Ultima modifica di Vittorio E. Polito il Dom Ago 30, 2009 2:43 pm - modificato 3 volte.
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DIALETTO BARESE E DINTORNI: NOTIZIE, APPUNTAMENTI, INFORMAZIONI, NOVITÀ ED ALTRO - Pagina 2 Empty ANCORA CONTRIBUTI SUL DIALETTO DA L'UNITA' (SITO INTERNET)

Messaggio  Vittorio E. Polito Dom Ago 30, 2009 2:13 pm

http://www.unita.it/index.php?section=news&idNotizia=87360

Camilleri, il dialetto non esiste

di Federica Fantozzi

Andrea Camilleri, autore di romanzi polizieschi che hanno per protagonista il fascinoso commissario Montalbano di Vigata, ha al suo attivo una piccola grande vittoria. Ha patrocinato la rinascita del dialetto siciliano, sparso a piene mani tra le sue pagine e sbarcato così, un po’ di soppiatto e talvolta controvoglia, nella testa dei lettori. Compresi quelli (tanti) del Lombardo Veneto.

Camilleri, la Lega rilancia il suo chiodo fisso: dialetto a scuola, nella toponomastica, nelle etichette alimentari, nei sottotitoli delle fiction tv...
«Il dialetto non è solo importante, è la linfa vitale della nostra lingua italiana. Ma in sé e per sé non ha senso, se non è dentro la lingua. Soprattutto l’insegnamento del dialetto a scuola è una proposta insensata. Vede, il rischio in Italia era la perdita del dialetto. Ma non si può andare all’opposto ed eleggere il dialetto a lingua».

Qual è il rischio che si corre? L’isolamento? La frammentazione?
«Il dialetto non esiste. Esistono, come diceva Pirandello, le parlate. In Sicilia ce ne sono tante quante sono le città, e il catanese è diverso dall’agrigentino che è diverso dal palermitano. Quando scrissi La mossa del cavallo mi feci aiutare da un genovese per tradurre il suo dialetto. Eppure i genovesi mi scrissero per precisare: è quello di una zona particolare di Genova».

Allora chi ha imparato un po’ di siciliano, dal «pirtuso» al «picciriddro», sui suoi romanzi, cosa ha imparato in realtà?
«Una parlata che senza dubbio arricchisce il linguaggio e la comunicazione. Ma il mio, tra l’altro, è siciliano fasullo».

Insomma, non bisogna invertire la gerarchia dei fatti?
«È bene conservare e studiare i dialetti, ma una lingua va avanti perché riceve parole, immagini e suoni dalla periferia verso il centro. Altrimenti è l’italiano che muore. O diventa colonia, come già è per i termini inglesi o troppo tecnici che nessuno capisce».

Quella della Lega è una boutade, una regressione o un campanello d’allarme?
«Per me è un campanello d’allarme. Non va presa come semplice boutade. Con Berlusconi prono, pronto a esaudire il 90% dei desideri di Bossi, questi da ridicoli diventano pericolosi. Nelle classi vogliono il ritorno a prima dell’epoca dei Comuni, una marcia indietro nei secoli? Benissimo. Ma è un’idiozia totale».

Quindi, è d’accordo con il professor Asor Rosa: senza la cornice della lingua nazionale i dialetti diventano folklore, un impoverimento e un ritorno al passato?
«Ma certo. È un errore gravissimo contrapporli».

Al di là delle invenzioni letterarie, funzionerebbe un mondo totalmente «localistico» dove ogni rione parla a modo suo? «Figuriamoci. E poi servirebbe il passaporto per passare da Prati a Trastevere. Ma via. Che questo dibattito nasca in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia lo trovo repellente. L’unità italiana ha mille difetti ma eliminarli tornando indietro è follia pura».

Zaia ribatte che l’artigiano napoletano che vende corallo in Thailandia non deve perdere la sua lingua materna né vergognarsene, e scuola e istituzioni hanno il dovere di aiutarlo.
«Mi sfuggono i termini del ragionamento. L’artigiano deve vendere i suoi prodotti in italiano altrimenti i clienti non lo capiscono. Il terreno comune d’intesa è l’italiano, come è la Costituzione. Nella Carta non c’è scritto che l’italiano è la lingua ufficiale perché è naturale, ovvio, elementare».

Cosa resta allora della sua Sicilia? E come si tramanda?
«I dialetti sono parlate familiari. Si conservano attraverso l’uso quotidiano. Ma non si possono in alcun modo imporre».

Zaia propone di usare per i prodotti alimentari locali, accanto all’appellativo in italiano anche quello originario. Così le pietanze che Adelina prepara per il commissario Montalbano potrebbero avere la doppia etichetta: «purpo» accanto a polpo, «pasta ‘ncasciata» accanto a pasta al forno, «passuluna» per olive nere. Che ne pensa?

«Certo. Proporrei di etichettare i politici che fanno queste proposte. Luogo di provenienza, titolo di studio e denominazione locale».


15 agosto 2009

Luca Morino: "Usano il dialetto per alzare muri"

Luca Morino, cantante dei Mau Mau è un appassionato di dialetti. Nel 1991 il primo lavoro discografico si intitolava “Soma la macia”, Siamo la macchia, in piemontese. Adesso insieme al suo «socio», Fabio Barovero, sta lavorando ad un progetto, per il comitato del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Si tratta di una sorta di atlante sui dialetti e la musica italiana.

Morino, ha letto la Padania? Tutta in dialetto piemontese. le piace l’idea?
«Il dialetto è una bestia difficile da gestire, anche per la Lega. È un po’ come la televisione, bisogna capire l’uso che se ne fa; una lingua non la puoi usare come bandiera in una crociata».

Zaia e Bossi vogliono il dialetto a scuola e nella toponomastica.
«Zaia è imbarazzante. Il fatto che si utilizzi un dialetto per portare avanti un’ideologia è una contraddizione. Introdurlo a scuola è praticamente impossibile. Ogni tanto mi diverto ad insegnare qualche termine a mio figlio, ma è il mio dialetto, perché basta uscire da Torino che la stessa parola si pronuncia in modo diverso, è essa stessa diversa. Allora, quale insegnano agli alunni piemontesi. quello di Cuneo, di Biella o di Torino? In realtà la loro proposta è una scatola vuota, ma pericolosa».

Pericolosa perché?
«Perché nel modo in cui lo intendono loro è un muro che si alza, mentre una lingua è il prodotto della storia culturale di un luogo e di una comunità con tutte le influenze e le mescolanze che si sono stratificate nel corso del tempo. Sa come si dice arancia in piemontese? Portugal e si pronuncia purtugal. In turco si dice portukala. Ecco cos’è il dialetto: un grande setaccio che nel tempo raccoglie tutto ciò che capita in un luogo. Da qui a volerlo trasferire in classe come materia di insegnamento ce ne corre. Già le immagino le discussioni su quale adottare, quale parola scegliere fra le tante che ce ne sono. Mi sembra piuttosto complicato dal momento che non esiste una codificazione grammaticale adeguata: il dialetto è una lingua parlata, che si muove, che non può essere irrigidita in una regola».

Non le sembra anche un ostacolo all’integrazione? Un bambino straniero alle prese con l’italiano e il dialetto.
«È una ulteriore complicazione. Siamo di fronte a una boutade politica diretta a chi ha paura del diverso senza capire che il diverso ce lo portiamo dentro, che è parte di noi».


14 agosto 2009

«Ignoranza crassa della Lega»

di Natalia Lombardo

Quello che vorrebbe la Lega è un regresso a un passato che, però, in Italia non è mai esistito». Alberto Asor Rosa, professore emerito di Letteratura italiana a «La Sapienza» di Roma, critico e scrittore, sempre attivo nel dibattito della sinistra, ascrive la provocazione leghista sotto la voce: «Ignoranza crassa».

Ha visto? La Padania è uscita in dialetto veneto-veneziano. Che ne pensa?
«A Roma per decenni è uscito un foglio locale, il “Rugantino”, in dialetto romanesco. A quest’altezza della storia sono fatti folklorici».

Il Vernacoliere però ha una grande tradizione dialettale e satirica.
«Il livornese del Vernacoliere è una lingua molto ricca e complessa, soprattutto autentica, a differenza di questi esperimenti lombardo-veneti che non stanno in piedi».

E che usano linguaggio molto semplificato. È un impoverimento culturale?
«I dialetti in Italia hanno avuto un peso e una rilevanza letteraria che non ha eguali in tutta l’Europa, nel teatro, nella poesia lirica, sono nomi notissimi. Queste opere si sono sempre integrate nel contesto culturale italiano, non hanno mai avuto una funzione antagonistica. Alessandro Manzoni, che ha teorizzato la “risciacquatura” della propria prosa in Arno per renderla uniforme e comprensibile a tutti gli italiani, in casa parlava in dialetto, ed era amicissimo di Carlo Porta, il più famoso poeta dialettale lombardo».

Il dialetto quindi non è mai stato usato in contrapposizione all’italiano?
«Era la ricca dialettica di un paese non unito, che si esprimeva tranquillamente a questi due diversi livelli, senza mai contrapporli. Ma senza la cornice della lingua nazionale il dialetto diventa un fatto folclorico, da osteria, da barzelletta paesana».

Ovvi problemi di comprensione isolerebbero le stesse popolazioni?
«Non è un avanzamento, è un regresso. Lo è rispetto alla più autentica tradizione italiana, che ha avuto la ricchezza di più lingue letterarie che spesso hanno attinto alle fonti del dialetto. Tutto ciò è avvenuto in un quadro che si sostiene reciprocamente in tutte le sue parti. Pensare invece che il solo parlare in dialetto costituisca un fatto identitario in Italia è un fenomeno di crassa ignoranza, di volgare abbrutimento».

In un momento in cui l’italiano si sta contaminando con parole straniere, voler recuperare le identità locali così è una forma di chiusura?
«È un ritorno ad un passato che in realtà non è mai esistito. Non è mai accaduto che il dialetto non fosse accompagnato dall’uso della lingua letteraria. In tutto il paese non esiste un’isola linguistica in cui si sia proclamata l’autosufficienza rispetto alla lingua italiana nazionale, che per molti secoli non è stata una lingua politico istituzionale, ma letteraria. È un tema a cui ho dedicato molte pagine nell’ultima “Storia”: non c’era l’unità politica, ma c’era l’unità linguistico-letteraria nazionale. E per fortuna, altrimenti i lombardi sarebbero ancora sudditi dell’impero austroungarico, i veneti pure... Insomma, è una stupidaggine di portata colossale».

Dalla Lega è una provocazione politica, ma sul piano culturale può essere pericoloso?
«Ma non credo che ora a Treviso si mettano a chiacchierare in trevigiano, o a Bari in barese...».

Molti parlano in dialetto.
«Sì, ma il passaggio decisivo tra la comunicazione familiare e locale e la comunicazione universale si verifica solo se esiste l’italiano, altrimenti i trevigiani potrebbero essere respinti al rango delle popolazioni dell’Alto Volta. La Lega non si rende conto che i nigeriani che vengono in Italia imparano l’italiano, certo non il dialetto, per diventare cittadini europei. Questi invece suggerirebbero di fare il percorso diverso, così tra trent’anni potrebbero esserci quattro o cinque milioni di cittadini stranieri che parlano l’italiano, e altrettanti di italiani che parlano in dialetto. È assurdo».

I figli di immigrati imparano l’italiano a scuola, se così non fosse potrebbe esserci integrazione?
«C’è una letteratura crescente di immigrati di varia origine, albanesi, magrebini o slavi: scrivono tutti in italiano. La Lega invece vorrebbe che i trevigiani scrivessero in trevigiano? Tra l’altro con la molteplicità del mondo dialettale italiano, a Treviso si parla una lingua diversa che a Vicenza, e qui si parla una lingua diversa che a Padova. Allora, in quale di queste lingue scriverebbero la Padania? In un dialetto caricatura».

Come cambia l’italiano contaminato da altre culture?
«Se persone nate ed educate altrove, in altre situazioni, ritengono più utile esprimersi in una lingua diversa da quella loro originaria, be’, è un tipico fenomeno di integrazione e arricchimento. Per la nostra lingua e le nostre sensibilità nazionali, vuol dire che, in un certo senso, non siamo morti».

La Lega preme anche sulla tv pubblica, un altro terreno rischioso?
«Certo, l’unificazione linguistica in Italia l’ha fatta la televisione, più che la scuola. E la Lega vorrebbe spingerla indietro. Cosa fanno? una tv per ogni regione? Non basterebbe, solo in Toscana dovrebbe esserci un giornale in senese, uno in fiorentino, uno in pistoiese, e altrettante televisioni. Cascano le braccia»


14 agosto 2009


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L’anticipazione del testo edito da dante&descartes

«Fai che la tua scrittura risenta il callo del dialetto d'origine»


di ERRI DE LUCA
Considera la tua pagina una sequenza di passi di montagna, dove è rischioso a morte il margine di errore. Le sillabe sono passi su piccoli appoggi, devi posarci il peso della frase, della voce. Usa il punto, la virgola, i due punti, le virgolette, accapo. Il 1800 ha usato molto il punto esclamativo, il 1900 poco, io l'ho abolito dalle mie righe, ma non è una regola, solo un'astinenza. Mi devono bastare le parole scritte a suscitare il punto esclamativo in chi le sta leggendo, deve mettercelo lui se lo sente, altrimenti mi sembra un'emozione indotta in modo artificiale, come la scritta 'applausi' in una trasmissione. Fai che la tua scrittura risenta il callo del dialetto di origine.

L'italiano, più che da lingue antiche proviene da un'amazzonia di dialetti, arroccati in centinaia di borghi, suddivisi in millesimi di sfumature, dialetti rimasti inespugnabili per secoli. L'italiano è bacino di raccolta di parlate gelose e fiere di vocabolario proprio, di accento irripetibile da stranieri. Si possono imparare lingue, non dialetti. La migliore poesia prodotta sul nostro territorio è stata dialettale, dalla Divina Commedia in poi. La tua scrittura in italiano soffra la provenienza da uno dei nostri cento vocabolari e accenti. Soffra, ne sia indolenzita, non deve compiacersene. Si deve sentire la distanza di chi è emigrante in lingua italiana, arrivata seconda al tuo apparato oto-faringolaringeo. Sia debitrice di dialetto la tua scrittura italiana, sia figlia di mamma cafona e stia in italiano da ospite. Si deve sentire la decima parte di una rinuncia e di un adattamento

31 agosto 2009
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